sabato 20 maggio 2017

La Repubblica 17.5.17
di Lea Mattarella


Mostre. La staffetta dei Caravaggio
Roma

MOSTRE
Queste opere sono tutte dipinte da Caravaggio durante il suo soggiorno romano. I musici hanno una committenza importante: quella del cardinal Del Monte che ospitava l'artista nella sua residenza a Palazzo Madama. Il prelato, uomo di grande cultura, era patrono del coro della Cappella Sistina e amava molto la musica. Teneva concerti nella sua dimora e affidava ai suonatori, vestiti all'antica proprio come nel dipinto, la sua collezione di strumenti musicali. È evidente come qui Caravaggio cerchi di aprire il quadro all'osservatore: la figura di spalle porta lo spettatore dentro la tela. Lo stesso fanno gli sguardi dei giovani con gli strumenti in mano. Chi sono? Qualcuno ha riconosciuto nel suonatore di corno il volto di Caravaggio (come nel Bacchino malato) che durante l'esecuzione dell'opera (tra il 1594 e il 1595), aveva tra i 23 e i 24 anni, forse troppi per poter essere identificato con questi volti angelici. Altri hanno visto il ritratto del suo aiutante Marco Minniti, altri ancora vari personaggi, ogni volta diversi, presi dalla sua cerchia di amici. Ciò che sembra certo è che questo dipinto, dominato dal calore del rosso del mantello e dalla luce calda e avvolgente che emana dal colore bianco, o meglio dall'avorio, per citare Il Cantico dei Cantici, della pelle dei fanciulli, rappresenti, come dimostrato da Maurizio Calvesi, la musica come strumento di elevazione spirituale, nella ricerca dell'accordo perfetto, dell'armonia impeccabile. Aiutata da Amore, abituato soprattutto in pittura, a muoversi con sapienza tra sacro e profano. Mostre. La staffetta dei Caravaggio


I MUSICI
I Musici (1595), dal Metropolitan di New York, è in mostra a Napoli fino al 16 luglio Quattro figure, che già nel Seicento Giovanni Baglione, autore de Le vite dei pittori, scultori, architetti e intagliatori definì "ritratti al naturale", stanno preparandosi per un concerto. È questo il tema de I Musici, il capolavoro di Caravaggio che il Metropolitan Museum di New York ha inviato a Napoli (alle Gallerie di Palazzo Zevallos Stigliano, sede museale di Intesa Sanpaolo, fino al 16 luglio). Ma in realtà la questione è più complessa, perché la figura a sinistra, che ha in mano un grappolo d'uva, possiede ali e frecce. Si tratta quindi di Cupido. Ciò significa che questo quadro è qualcosa di più di un gruppo di suonatori dipinti "al naturale": la tela si muove nel territorio di confine tra realtà e simbolo e ha a che fare con l'amore. Come succede nel Suonatore di liuto (conservato all'Ermitage a San Pietroburgo), suo parente stretto, inquadrato mentre intona un madrigale del compositore fiammingo Jacob Archadelt che recita Voi sapete che io v'amo/ anzi v'adoro… La fratellanza tra i due dipinti la rivelano non soltanto il soggetto musicale e la caratterizzazione sessuale incerta dei personaggi inquadrati, androgini e portatori di una serena sensualità con le loro labbra dischiuse e gli occhi languidi (il Suonatore di liuto è descritto in un vecchio inventario come La Fornarina che suona la chitarra), ma anche il particolare del violino posto in diagonale in primo piano. I musici dipinti da un Caravaggio poco più che ventenne sono per l'artista il banco di prova per una composizione a più figure. E il pittore, che era da poco arrivato a Roma, se la cava benissimo con la prospettiva, con le figure che scalano in diagonale creando spazio. E soprattutto con la luce. Qui non c'è nulla del pathos del Caravaggio maturo: il suo grande palcoscenico del chiaroscuro, del contrasto drammatico tra ombre e squarci luminosi, deve ancora essere allestito. Ma già si vede l'importanza della luce nella sua opera. Che qui è diffusa, come lo sarà la musica che di lì a poco avrà inizio. Intanto la figura al centro accorda il suo liuto, quella in fondo ha in mano il corno che sta per suonare e infine il fanciullo di spalle legge uno spartito che, purtroppo, non si è riusciti a decifrare. È di spalle anche l'angelo che suona il violino ne Il riposo durante la fuga in Egitto (Galleria Doria Pamphili) e i musicologi hanno chiarito che a risuonare durante la sosta della Sacra Famiglia è il Cantico dei Cantici.

L'ultimo capolavoro in trasferta al Metropolitan di Antonio Pinelli Scovato in una villa di Eboli nel 1955 da Ferdinando Bologna, che ne sospettò la paternità caravaggesca, ma si arrese di fronte al diniego di Roberto Longhi, il Martirio di Sant'Orsola dovette attendere ancora una ventina d'anni prima di essere riconosciuto per quel che era da Mina Gregori, che poté vederlo dopo un restauro eseguito da Antonio De Mata. Sulla base del solo esame autoptico, la studiosa individuò la cifra stilistica delle ultime opere di Caravaggio: una serie di documenti, rinvenuti poi da Giorgio Fulco e Vincenzo Pacelli, confermarono l'attribuzione e rendono anzi questa tela una delle più documentate dell'artista e ci dicono che fu una delle ultime, se non l'ultima, su cui egli posò il pennello. La Sant'Orsola confitta dal tiranno fu commissionata nel 1610 dal principe Marcantonio Doria, che cinque anni prima aveva brevemente ospitato nel proprio palazzo genovese l'artista, in fuga da Roma per una delle sue tante risse. Marcantonio aveva sposato la vedova del principe di Salerno, la cui figliastra Anna, molto cara al patrigno, aveva preso i voti col nome di "sor Orsola". Di qui la scelta del soggetto. Il 26 maggio 1610, Doria ricevette a Genova una lettera speditagli quindici giorni prima da Lanfranco Massa, suo procuratore a Napoli, che gli comunicava un imprevisto incidente: «Pensavo mandarle il quadro di Sant'Orzola questa settimana però, per assicurami di mandarlo ben asciutato, lo posi ieri al sole, che più presto ha fatto revenir [risciogliere] la vernice che asciutatolo, per darcela il Caravaggio assai grossa; voglio di nuovo esser da d°Caravaggio per pigliar parere come si ha da fare perché non si guasti». L'intervento riparatore fu immediato e Massa poté spedire il quadro via mare a Genova, dove arrivò, «benissimo conditionato », il 18 giugno. Dal contesto delle due lettere si deduce che la tela era stata commissionata non più di due mesi prima, il che la dice lunga sui frenetici tempi di esecuzione del pittore in questo suo periodo estremo. Rientrato a Napoli nel settembre- ottobre 1609, dopo la rocambolesca fuga da Malta e il suo affannoso peregrinare in Sicilia, Caravaggio, tra l'autunno e la tarda primavera 1610, realizzò vari quadri, tra i quali, il San Giovanni Battista e il Davide e Golia della Borghese, cui seguirono i due che sono più vicini alla Sant'Orsola: la Negazione di Pietro, ora a New York, e la Maddalena in estasi, di cui conosciamo due versioni; quella in una raccolta romana (già Klain) e quella, recentemente ricomparsa proposta come autografa dalla Gregori. Nella Sant'Orsola, come negli altri suoi dipinti estremi, il buio dilaga, inghiottendo gran parte della scena, e l'azione si condensa in un unico, intensissimo attimo, rivelato da un flash che sferza protagonisti e comparse, cogliendoli, per così dire, in flagrante. Orsola è fra i due sgherri che l'hanno sospinta dinanzi al re unno. Sdegnato per il rifiuto oppostogli dalla vergine, Attila la trafigge con una freccia. La corda dell'arco ancora vibra, mentre la saetta affonda nel petto di Orsola, facendo sprizzare un fiotto di sangue. La luce batte radente e rivela imparzialmente la smorfia sul volto alterato del carnefice, il baluginio degli elmi e delle corazze, il gesto istintivo di difesa di Orsola che si comprime il petto, il suo capo reclinato, di vittima rassegnata al sacrificio, la febbrile concitazione degli astanti. Non ci sono scomposte torsioni anatomiche come nelle acrobatiche composizioni dei manieristi, che volevano esprimere il prima e il dopo di un'azione, moventi e conseguenze; e nemmeno pose magniloquenti e statuarie, come avrebbe preteso il classicista Bellori, che definì le scene di Caravaggio «historie senza attione». Divisi in tutto, manieristi e classicisti concordavano nel rifiutare la pittura che registra l'evento nel suo accadere «qui ed ora», bloccato come in un fotogramma. Poco dopo l'arrivo a Genova della tela, anche il pittore s'imbarcò su una feluca, che avrebbe dovuto portarlo alla sospirata remissione della pena capitale, ma invece lo consegnò alla morte, che lo colse a Porto Ercole il 18 luglio 1610.©RIPRODUZIONE RISERVATA