La Lettura del Corriere 28.5.17
La fuga senza fine dei mancati Lutero italiani
di Micaela Valente
Mentre
tutti discutono di Lutero e dell’eredità della Riforma a distanza di
500 anni dalla presunta affissione delle tesi a Wittenberg (31 ottobre),
spesso dimentichiamo il grande contributo al rinnovamento del pensiero e
della teologia che arrivò da ogni Stato europeo. Molte idee provennero
dalla penisola italiana, ormai sotto l’egemonia spagnola, e molti di
quelli che partorirono queste idee morirono fuori dall’Italia, esuli per
cause religiose. Tutti scapparono dal Sant’Uffizio dell’Inquisizione e
molti si trovarono poi a fuggire dalla repressione degli Stati
conquistati dalla Riforma di Lutero e di Calvino. Furono perseguitati
per il loro appello alla riforma della Chiesa che nasceva dalla lettura
filologica della Bibbia e dalle grandi conquiste dell’Umanesimo. In
seguito sempre più si spinsero a rivendicare il diritto alla libertà di
coscienza, trovando argomentazioni forti nel Vangelo.
In ogni
parte d’Italia, in ogni ceto, ecclesiastici e laici, donne e uomini
respirarono i germi contagiosi della Riforma e li diffusero, talvolta
schierandosi e allineandosi con i Riformatori, ma più spesso
allontanandosene. Seguendo le orme di questi pensatori, rimaniamo
affascinati dall’intreccio di vite, di energico slancio al sapere, di
meschine invidie accademiche, di continue ricerche di sostegni economici
e di solidarietà insperate.
Si rimane sorpresi dallo scoprire che
tra i più ricercati dal Sant’Uffizio ci fosse persino il generale dei
Cappuccini, Bernardino Ochino, predicatore affascinante e animatore del
circolo napoletano dell’esule spagnolo Juan de Valdés, frequentato anche
da Michelangelo Buonarroti e da Vittoria Colonna. Contro dogmi e
pratiche esteriori inutili, Valdés, che riportava Cristo al cuore della
fede, conquistò tanti. Invitato a presentarsi davanti all’appena
riorganizzato tribunale dell’inquisizione romana nel 1542, Ochino,
sapendo di non essere al sicuro, prese la via dell’esilio e poi dichiarò
di essere stato costretto a predicare Cristo in maschera, poiché aveva
cercato di predicare le nuove dottrine (che nuove non erano affatto, dal
momento che Lutero riprendeva Agostino) senza essere «scoperto». Ma
Ochino non trovò rifugio nemmeno in terra protestante poiché chiedeva
libertà di confronto su alcuni temi religiosi che non erano così certi e
chiari. Le sue idee si scontravano con le altre Chiese e lo costrinsero
a un lungo peregrinare in Europa finché morì povero e vecchio, in
Moravia, nel 1564.
Meno drammatico fu il destino di Lelio e Fausto
Sozzini: il primo (zio dell’altro) insolentì Calvino, che per questo
condannò la curiositas degli italiani, mentre il secondo fondò la Chiesa
unitariana in Polonia. Figlio dell’autorevole giurista senese Mariano,
Lelio prese la via dell’esilio da Bologna nel 1547, si iscrisse
all’Università di Basilea per studiare l’ebraico e poi si spostò di
continuo fino a morire nel 1562 a Zurigo. Grazie a protezioni e alla
pratica nicodemitica (simulava di appartenere alla Chiesa cattolica),
Fausto rimase in Italia fino al 1575 e poi si rifugiò in Polonia, in
tempo per evitare il processo inquisitoriale. Zio e nipote ritenevano
che il dogma della Trinità fosse da respingere poiché era stato
stabilito da un concilio; i Riformatori avevano chiarito che si doveva
far riferimento soltanto alle Scritture e rifiutare tutto quello che era
stato imposto dal magistero della Chiesa e quindi dai concili.
Tuttavia, in questo caso, come già con gli anabattisti, i Riformatori
(Calvino in prima linea) si contraddissero e affermarono la validità del
dogma trinitario. Perché i Sozzini negavano la Trinità? Non solo perché
questione solo sfiorata nelle Scritture, ma anche perché, seguendo
Erasmo da Rotterdam ed altri, si erano accorti che l’incipit del Vangelo
di Giovanni si prestava a varie interpretazioni. Attraverso la critica
razionalistica, i Sozzini mettevano così in discussione la natura divina
di Gesù, del cui insegnamento però esaltavano il fondamentale valore
etico.
La peste ereticale, come la chiamavano gli inquisitori e i
pii cattolici, contagiò persino le donne e l’ammiratissima nobildonna
Giulia Gonzaga, allieva di Valdés, visse e pagò la sua adesione al
dissenso intellettuale e religioso. Fu accusata di conoscere il latino e
di essere «curiosa di veder cose et scritture di heretici» e, per
sottrarsi all’Inquisizione, Gonzaga si schermì come donna dedita alla
casa e ignara di ogni discussione teologica.
Da Trento si mosse
invece Iacopo (o Giacomo) Aconcio: prima si spostò in Svizzera e poi,
nel 1559, riuscì a trovare asilo e sostegno economico in Inghilterra. Lì
svolse attività come ingegnere militare per Elisabetta I, e pubblicò
un’opera, presso un editore italiano, anch’egli esule per motivi
religiosi, Pietro Perna, sugli stratagemmi di Satana che, per
conquistare anime, provocava le dispute ed era fautore della
persecuzione. Prefigurando una separazione tra Stato e Chiesa, Aconcio,
conscio della possibilità di errare, invitava ad astenersi dal giudicare
i dissidenti e a lasciare i segreti dei cuori a Dio.
Ci furono
italiani che fuggirono a Basilea, dove l’eredità degli ideali erasmiani
ancora resisteva, e a Ginevra, dove il rogo del medico spagnolo Miguel
Serveto nel 1553 avrebbe fatto tramontare anche quella speranza di
approdo, mentre naufragava, seppure per un breve periodo, il rifugio
dell’Inghilterra, con la regina Maria Tudor che cercava di reintrodurre
il cattolicesimo.
Chissà se Papa Bergoglio, quando ha voluto il
giubileo della misericordia, pensava anche a Erasmo e a Celio Secondo
Curione, che aveva dedicato un’opera molto importante all’ampiezza della
misericordia divina. Forte di un impegno rigoroso nell’edizione di
testi classici e sacri, Curione infondeva speranza a tutti, sostenendo
che Dio non avrebbe dimenticato nessuno nel suo abbraccio misericordioso
e salvifico.
Crocevia di vite, di idee e di aspirazioni religiose
e politiche come quelli che segnarono l’umanista ferrarese Olimpia
Morata o il coraggioso profeta siciliano Giorgio Siculo, che rifiutò di
abiurare e fu ucciso a Ferrara nel 1551; sorti infauste come i roghi del
calabrese Valentino Gentile, a Berna nel 1566, del fiorentino Francesco
Pucci, a Roma nel 1597, e del corpo, riesumato e bruciato insieme alle
opere e al ritratto, di Marcantonio De Dominis, arcivescovo di Zara, nel
1624. Insidie accademiche costellarono la vita del marchigiano Alberico
Gentili, regius professor a Oxford, considerato uno dei padri del
diritto internazionale.
Furono questi italiani che seminarono in
Europa i migliori frutti del vivace umanesimo: pur in fuga, avendo
abbandonato famiglie che spesso subivano le conseguenze della loro
scelta ereticale, affrontarono sospetti e rappresaglie, ma non
rinunciarono a offrire stimoli e spunti di riflessione, difendendo la
libertà della coscienza e promuovendo il dubbio come metodo per giungere
alla verità. Ma di questo ricchissimo e complesso patrimonio
intellettuale la penisola italiana, che ne era stata culla, non poté
beneficiare per via della Chiesa (almeno di una parte), che giunse a
mettere la Bibbia al rogo con il bando del volgare, come ci ha mostrato
Gigliola Fragnito. Alle dottrine riformate mancò l’appoggio del potere
politico e per questo un avversario dei Riformatori, il predicatore
Francesco Panigarola, avrebbe scritto: «In libertà siamo noi; che sotto
la paterna cura de sacri inquisitori dormiamo sicuri, viviamo quieti,
godiamo le nostre facoltà, non sentiamo strepiti d’armi, e conserviamo
intatto il fondamento istesso della salute nostra, che è la fede».