mercoledì 17 maggio 2017

SULLA STAMPA DI MERCOLEDI 17 MAGGIO:

http://spogli.blogspot.com/2017/05/istruzione-m5s-dice-basta-finanziamenti.html

Affari Italiani 16.5.17
Lo sbarco dei Mille per Omaggio a Massimo Fagioli
È iniziato il countdown per il 30esimo Salone Internazionale del Libro di Torino
di Carlo Patrignani
qui

La Stampa TuttoScienze 17.5.17
Siamo entrati nella casa segreta dei sogni
Individuata un’area strategica del cervello: è quella dell’Io
“Un giorno vedremo le immagini che produciamo nel sonno”
di Fabio Di Todaro

La culla dei sogni esiste e si trova in un luogo recondito del cervello: di quelli dove, forse, non avremmo mai cercato deliri, incubi e desideri inespressi. Poco sopra la nuca, in un punto della corteccia superiore definito «hot zone» - la zona calda - un gruppo di ricercatori ha scoperto l’area «che rappresenta la sede stessa della coscienza», per dirla con Francesca Siclari, neurologa del centro di ricerca sul sonno dell’Università di Losanna, primo autore dell’articolo su «Nature Neuroscience» e firmato da altri due italiani: Giulio Tononi (docente di psichiatria all’Università del Wisconsin, negli Usa) e Giulio Bernardi (della Scuola Imt Alti Studi di Lucca).
«Fino a poco tempo fa si pensava che quasi tutta la corteccia dovesse essere attiva per generare esperienze coscienti - prosegue la studiosa -. Il nostro lavoro mostra invece che, almeno durante il sonno, le esperienze e i sogni sono legati all’attivazione di una zona ristretta del cervello». Questa «culla» - definita quindi come l’area in cui i sogni maturano - è stata cercata a lungo, dato che i neuroscienziati considerano i sogni una sorta di «prova generale» della vita. Rappresentano un laborioso processo che può accadere anche nella fase «non Rem», quella che inizia con l’addormentamento e non è legata al movimento oculare. Ma, poiché nella «non Rem» e nella «Rem» - fase più profonda e che si verifica nel cuore della notte - l’attività elettrica cerebrale è decisamente diversa, obiettivo dello studio era riuscire a individuare le connessioni neurali implicate nel processo onirico stesso. I ricercatori hanno quindi arruolato 32 volontari per registrare le variazioni dell’attività cerebrale con un tasso di precisione estremamente elevato: a garantirlo erano 256 elettrodi distribuiti su scalpo, volto e nuca. Sono stati svegliati a intervalli casuali durante la notte, con lo scopo di valutare la presenza di eventuali sogni con una serie di questionari. Poi gli scienziati hanno messo a confronto l’attività cerebrale registrata nei periodi di sonno precedenti ai risvegli e in cui i partecipanti avevano raccontato di aver sognato con quella osservata nei risvegli in cui non era stata descritta alcuna esperienza onirica.
Le analisi - osserva Siclari - «hanno rivelato che, indipendentemente dallo stadio del sonno, le esperienze coscienti legate ai sogni avvengono proprio quando una particolare zona posteriore del cervello è attiva, quella che noi abbiamo identificato». Un risultato che ha confermato come i sogni possano, in realtà, avvenire in stadi del sonno molto diversi: a condizione che quest’area - la «hot zone» - sia attiva, indipendentemente dal livello di attività registrato nel resto della corteccia cerebrale. La conferma è arrivata dal monitoraggio dell’attività della zona stessa. «È stato così possibile osservare in tempo reale l’assenza o la presenza di sogni, con una precisione prossima al 90%».
Successive analisi hanno anche permesso di dimostrare che le zone attivate quando i soggetti sperimentano particolari esperienze oniriche - con contenuti come visi, movimenti, linguaggio verbale, orientamento spaziale - sono simili a quelle che si «accendono» quando le stesse esperienze si registrano durante lo stadio di veglia. «Il sogno sembra dunque essere, a tutti gli effetti, un particolare tipo di esperienza che si verifica durante il sonno, come una realtà a se stante, e non costituisce una confabulazione prodotta al risveglio - prosegue la ricercatrice, smentendo così un’altra delle ipotesi sulla genesi e sulla natura delle esperienze oniriche, considerate come mere estensioni delle esperienze quotidiane -. Trascorriamo, in media, almeno metà della notte sognando, anche se la maggior parte dei contenuti al mattino risultano difficili da ricordare», a conferma, quindi, dell’importanza di questo «universo»: se trascorriamo un terzo della vita dormendo, un sesto è dedicato alla dimensione dei sogni.
La ricerca potrebbe avere diverse implicazioni. La prima chiama in causa la possibilità di osservare l’elettroencefalogramma ad alta densità di una persona per arrivare a ricostruire ciò che ha sognato. La seconda è una ricaduta medica diretta. «L’osservazione della “hot zone” potrebbe rivelarsi utile per valutare la coscienza in altri stati: come, per esempio, quella di chi è sotto anestesia oppure si trova in coma».

il manifesto 17.5.17

La visione luminosa dell’inconscio
«Carl Gustav Jung», di Romano Màdera per Feltrinelli
di Lea Melandri

L’ultimo libro di Romano Màdera, Carl Gustav Jung (Feltrinelli, pp. 160, euro 14) è difficile da districare nei suoi molteplici annodamenti e al contempo affascinante per il sapere a cui vorrebbe aprire la strada: «fortemente individualizzato, autobiografico e biografico, immaginativo, emozionale, onirizzato e relazionale».
Una «clinica dell’individuazione», intenta a riportare la dimensione inconscia collettiva al momento storico-biografico delle persone è, del resto, l’assunto principale di Philo e Sabot, le scuole a orientamento filosofico di cui Màdera è stato ideatore.
LA RICERCA DI NESSI tra individuo e collettivo, tra i mutamenti storici, sociali, culturali e il riflesso che hanno nel vissuto dei singoli, è stata al centro dei movimenti antiautoritari degli anni Settanta, del femminismo in particolare, e la psicoanalisi, sia pure per un tempo breve, è sembrata indispensabile per interrogare l’agire politico.
La «sfinge analitica» – scriveva Elvio Fachinelli – aspetta al varco il viandante e il quesito che gli pone è «che cosa è l’uomo». Ma per incontrare Edipo bisogna essere sulla strada di Tebe, bisogna che l’analista porti in altri luoghi condizioni, possibilità, linguaggio dell’interrogazione analitica.
MA SI PUÒ DIRE – come fa notare Màdera – che la stessa psicoanalisi aveva rappresentato, agli inizi del Novecento, il «sintomo» di un profondo rivolgimento della ragione e della cultura occidentale, la crisi del patriarcato e l’inizio di quella che Jung, identificando sesso e genere, chiama la rinascita attraverso il «principio femminile», l’ingresso nel «dominio vero e proprio della donna, la sua psicologia basata sul privilegio dell’Eros», cioè sessualità, corporeità, istinti, maternità creativa.
È su questi inizi e sul Libro rosso di Jung del 1916 che si ferma l’attenzione di chi, come Màdera, ha conosciuto le delusioni della sua militanza politica e l’analisi che gli avrebbe «cambiato la vita».
Con un libro che fa della «immaginazione attiva» – sogni, visioni, metafore, simboli – la «via regia per il viaggio nell’inconscio», Jung si fa interprete di una svolta che coinvolge, al medesimo tempo, la sua vita personale, la separazione da Freud, padre, maestro, e il contesto storico culturale che ha fatto da sfondo alla Grande Guerra.
Dallo smottamento di una storia che si era basata fino ad allora sulla tradizione e l’imitazione, così come dalla presa di distanza dal successo, dalla maschera professionale e accademica, avrebbe preso avvio la psicoterapia vista come «processo di sviluppo della personalità», la via dell’individuazione capace di portare gli umani a sentire la comunanza delle loro vite.
PER QUANTO ANCORA legato, come Freud, all’idea che sia da cercare nella psiche la «sorgente segreta della storia», Jung sembra tuttavia voler riportare la malattia al di là del singolo, il nevrotico visto come un «sistema di relazioni sociali ammalato».
A fare da ponte, da mediazione, tra il vissuto del singolo e il segno che lasciano su di esso l’eredità storica e il presente, sono le immagini dominanti nell’inconscio collettivo rielaborate dalla psiche individuale. Per unirsi a se stessi – precisa Màdera – bisogna sapere di poter crescere sul terreno della comune umanità. Il viaggio per il mare notturno dell’inconscio collettivo e personale è imprescindibile se si vuole rimanere in contatto con ciò che ci costituisce, ci nutre, ci sfida a trovare «la nostra personalissima equazione di risposta all’enigma che la vita è».
Ma perché la clinica della individuazione diventi in qualche modo anche «clinica del mondo», una via per interrogare la nevrosi comune di un determinato tempo storico culturale, è necessario una «rinascita della psiche» come riunificazione degli opposti ereditati dalla visione maschile del mondo: inclusione del male, della corporeità, degli istinti, del «pantano e delle rovine che ogni secolo ha lasciato in noi».
È IN QUESTO APPELLO alla totalità dell’uomo, alla ricerca di un senso che può venire solo dalla cooperazione della coscienza con l’inconscio, che Màdera vede la «modernità» del Libro Rosso di Jung. La figura più rappresentativa della nostra cultura e della nostra psiche, individuale e collettiva, è il «caos», frutto di una globalità che è accumulazione fine a se stessa, iperstimolazione di bisogni e desideri, licitazionismo, orrore e diseguaglianza in crescita.
Tra gli aspetti rimossi della vita psichica c’è il «non-potere», l’interdipendenza degli umani, la guerra con l’ «ombra» che ci portiamo dentro e che, proiettata all’esterno va alla ricerca ogni volta di un capro espiatorio: il nemico, lo straniero, il diverso.
Màdera ricorda l’esplosione della Jugoslavia, dieci anni di atrocità che mostrano che il nuovo ordine mondiale «non solo è inesistente ma volge al caos; che la globalizzazione non salva, neppure in Europa dallo sterminio di massa come mezzo per affrontare i conflitti».
Il libro si chiude con quello che Màdera chiama un «astuto paradosso»: la via della individuazione spinge ad assumersi la responsabilità della propria vita e quindi anche ad abbandonare Jung per «rilanciare il futuro del suo insegnamento», prendersi la responsabilità del distacco solitario come via per una «autorealizzazione consapevole e solidale» nel concepirsi dentro l’«interdipendenza» di ciascuno da tutto e da tutti.

il manifesto 17.5.17
Chiusi gli Opg, ora mai più manicomi
di Franco Corleone

L’11 maggio 2017, l’ultimo internato del manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto ha lasciato la struttura infernale per antonomasia e ha trovato accoglienza in una comunità terapeutica di Modica.
Questa data ha un significato storico.
Finalmente si è chiusa l’era dell’internamento nelle istituzioni totali per eccellenza e i tristi nomi di Aversa, Montelupo, Reggio Emilia, Secondigliano sono destinati alla memoria di un passato che non deve tornare. Anche Castiglione delle Stiviere dovrà percorrere la strada della riforma che ha deciso la chiusura degli Opg e l’abbandono della logica manicomiale.
L’Italia può essere orgogliosa di essere all’avanguardia in Europa e nel mondo; dopo la chiusura grazie alla legge 180 del manicomio civile, ora inizia la prova ancora più difficile della cancellazione dell’orrore del manicomio criminale.
La legge 81 del 2014 ha indicato un percorso che ora segna un punto di non ritorno. La «rivoluzione gentile» si è affermata in questi due anni e nonostante le resistenze e le incomprensioni di parti della magistratura, della psichiatria e dell’informazione e si è consolidata sulla base della passione, dell’impegno e dell’entusiasmo di tutto il personale che si è sentito protagonista di una bella avventura.
Purtroppo il Governo e il Parlamento invece di affrontare le criticità segnalate nelle relazioni dell’attività di commissario e quindi di mettere in campo una modifica radicale delle misure di sicurezza secondo le line emerse nei tavoli degli «Stati Generali del carcere» e di cancellare le norme del Codice Penale ormai obsolete e in contrasto con la riforma, hanno lasciato passare nella discussione in Senato della legge delega sul processo penale e sull’Ordinamento penitenziario, un emendamento risibile che però ripropone a livello concettuale un ritorno indietro, configurando le Rems come nuovi Opg.
Immediatamente è scattata la mobilitazione perché questa vergogna fosse cancellata. Dal 12 aprile StopOpg ha organizzato un digiuno a staffetta che oggi è giunto al trentaseiesimo giorno con la partecipazione di oltre centocinquanta persone, tra cui deputati e senatori, psichiatri, operatori dei servizi, avvocati, giornalisti, militanti delle associazioni dei diritti civili e sociali.
La catena durerà fino alla approvazione del provvedimento con la speranza della modifica di una norma figlia della improvvisazione.
La Conferenza delle regioni ha espresso una netta opposizione; il Csm ha approvato una delibera che dà indicazioni ai magistrati perché la riforma sia implementata e non osteggiata e nel frattempo si è costituito un Coordinamento delle Rems per monitorare lo sviluppo delle buone pratiche attraverso la raccolta dei dati e lo scambio di esperienze.
Questa iniziativa dal basso sarà presentata giovedì 18 maggio a Bologna all’interno della Riunione Scientifica SIEP presso l’Aula Magna dell’Ospedale Maggiore.
La chiusura degli Opg ha rimesso in moto la discussione sulla salute mentale nel paese e sugli obiettivi da perseguire nei Dipartimenti, nelle Asl e nelle Regioni. Al centro della riflessione deve essere messo il tema della cura e delle alternative alla detenzione per i detenuti con patologie psichiatriche o con disturbi psichici o comportamentali.
È una partita che va affrontata e vinta per tutti i soggetti coinvolti e in tutti i luoghi della sofferenza.
Una rivalutazione del sistema di welfare deve partire proprio dall’anello più debole, abbandonando le catene simboliche e materiali e riproponendo il principio che la libertà è terapeutica.
Diritti e dignità sono il fondamento della Costituzione ma si devono inverare nelle prassi quotidiane.
* Franco Corleone  è stato nominato Commissario unico del Governo per le procedure necessarie al definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) con il completamento delle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) nelle Regioni Abruzzo, Calabria, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto

il manifesto 17.5.17
Karl-Otto Apel, il maestro dell’etica del discorso
Scomparso all'età di 95 anni il filosofo tedesco tra i massimi esponenti della Scuola di Francoforte
di Stefano Petrucciani

Karl-Otto Apel, che si è spento lunedì all’età di novantacinque anni, è stato uno dei più acuti e importanti filosofi della seconda metà del Novecento. Apel infatti, a differenza di molti altri scrittori di filosofia che vanno per la maggiore, era un vero filosofo. La sua lucidità di pensiero lo collocava su un piano decisamente superiore rispetto a tanti altri che pure hanno goduto di grande fama. Apel, come ha potuto verificare chi ha avuto la fortuna di partecipare a qualche suo seminario, aveva una passione profonda e autentica per il ragionamento filosofico: instancabile nel discutere e argomentare, anche in tarda età, apparteneva alla piccola schiera di quelli che si possono davvero definire maestri.
IL SUO PERCORSO filosofico è stato caratterizzato da una straordinaria ricchezza e vastità di interessi. Nato nel 1922, aveva esordito con una grande monografia su L’idea di lingua nella tradizione dell’Umanesimo, da Dante a Vico (pubblicata nel 1963), mirabile sintesi di sapienza erudita e interpretazione teoretica. E, a partire da lì, gran parte della sua riflessione ha avuto come centro il linguaggio. Formatosi infatti nella grande scuola tedesca dell’ermeneutica, Apel ne dava però una lettura del tutto particolare: non andava nella direzione di Gadamer, rifiutava la curvatura dell’ermeneutica verso il relativismo o verso il pensiero debole, ma ricercava invece, partendo dall’indagine sul linguaggio, i principi irrinunciabili della razionalità critica e discorsiva, dotati di una valenza non solo teoretica ma anche etica. La sua posizione, in fondo, era molto lineare: nello stesso atto del discorrere, sosteneva, è immanente una pretesa di verità che non può essere liquidata nel senso dello storicismo o del relativismo, e alla quale il pensiero filosofico si deve attenere, pur nella consapevolezza che la verità non si possiede qui e ora, ma è piuttosto da intendersi come un punto limite, al quale potrebbe pervenire solo quella che Apel chiamava una «comunità ideale della comunicazione».
A partire da qui Apel ha sviluppato negli anni Settanta, in stretta cooperazione con Jürgen Habermas del quale è stato collega a Francoforte, quella che entrambi hanno definito come un’etica del discorso. Essa si fonda sull’idea che ogni soggetto che partecipa a uno scambio discorsivo o argomentativo presuppone necessariamente il rispetto per ogni altro parlante e dialogante, per le sue pretese, interessi e bisogni. È nel linguaggio, dunque, che si deve ricercare l’autentico e profondo fondamento dell’etica, quello che sfugge sia alle filosofie scientiste, sia alle ermeneutiche relativiste. Nella difesa della ragione e del suo contenuto anche moralmente impegnato Apel era consapevole di andare decisamente controcorrente; e non temeva di parlare, provocatoriamente, di una «fondazione ultima dell’etica», mentre la chiacchiera filosofica si cullava nell’idea del «sapere senza fondamenti» o nella demistificazione della volontà di verità come volontà di potenza.
SOBRIO E MISURATO come un bravo professore tedesco, Apel sapeva però essere anche radicale. Aprì un dialogo intenso con Enrique Dussel, il marxista che aveva trasformato la teologia della liberazione in filosofia della liberazione, e disse che questo incontro gli aveva ulteriormente aperto gli occhi sui limiti delle esistenti democrazie occidentali. Giustizia, co-responsabilità e solidarietà avrebbero dovuto essere i principi di una nuova etica planetaria sulla quale Apel (che era un autore di saggi più che di libri) ha riflettuto soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita filosofica.

La Stampa 17.5.17

“Il Sé? Lo svela l’arte con l’hi-tech”
di Silvia Bandelloni

«Gli artisti producono opere non perché queste sono speciali, ma perché produrre è speciale per l’arte». Così commenta Alva Noë - professore di Filosofia all’Università di Berkeley in California - che domani terrà una lectio magistralis al convegno «Corpi e culture: come diventiamo noi stessi», promosso dall’Università di Milano.
Il suo ultimo saggio, «Strange tools», tratta alcuni curiosi aspetti dell’arte, come la straordinaria capacità di raccontare di noi stessi. «Arte non è tecnologia - afferma Noë - ma può essere compresa anche grazie al ruolo che la tecnologia svolge nelle nostre vite». Questa, infatti, fa parte delle nostre abitudini: come si usa una matita o un paio di scarpe, così c’è l’uso di Internet. Perciò - commenta - «la tecnologia ci rende ciò che siamo e le opere d’arte hanno il potere di svelare in che modo questo avviene».
Ma, come la tecnologia cambia le nostre abitudini, così la filosofia è espressione del pensiero e in quanto tale rappresenta la vita nel senso più alto. Noë parla dunque di connessione tra arte e filosofia, spiegando che l’arte è una pratica filosofica e la filosofia è una pratica artistica. «Generazioni di artisti si sono chieste che cosa sia l’arte. Così come generazioni di filosofi si sono interrogate su cosa sia la filosofia. In filosofia non arriviamo a conclusioni rigorose e, se così fosse, non faremmo della buona filosofia. Non esiste, infatti, una risposta a che cosa sia la verità. E così è nell’arte. Sia l’arte sia la filosofia ci riorganizzano e ci trasformano».
Di sicuro il cervello rimane uno degli interrogativi più grandi: oggi si parla insistentemente di Intelligenza Artificiale e tuttavia - osserva Noë - «non ne esiste ancora una genuina. Non voglio negare la possibilità di ottenere intelligenze artificiali d’alto livello, ma i Big Data non hanno una mente. Nessuna macchina realmente vede, realmente chiede, realmente pensa». Ciò che proviamo quando osserviamo un quadro o ascoltiamo della musica rimane, di conseguenza, un mistero per le neuroscienze. Lo è meno per la filosofia, che si accompagna a un profondo senso del dubbio e non lo è affatto per l’arte, che svela i segreti dell’essere umano senza avere la pretesa di conoscerne i pensieri.

La Stampa Tuttoscienze 17.5.17

I 30 secondi che decisero le sorti del Pianeta Terra
di Gabriele Beccaria

Siamo qui, noi umani, per una questione di appena 30 secondi. Se, 66 milioni di anni fa, l’asteroide che ha scavato il gigantesco cratere Chicxulub nello Yucatan fosse caduto sulla Terra mezzo minuto prima o mezzo minuto dopo, la storia avrebbe preso un altro corso: i dinosauri sarebbero sopravvissuti e, probabilmente, si sarebbero ulteriormente evoluti, mentre i mammiferi - e quindi anche la nostra specie Sapiens - non sarebbero riusciti a conquistarsi spazi sufficienti per raggiungere - come poi è successo - la supremazia planetaria. Lo sostengono Joanna Morgan dell’Imperial College di Londra e Sean Gullick della University of Texas-Austin, protagonisti di un documentario della Bbc: hanno calcolato che, cadendo nel Pacifico o nell’Atlantico, il macigno spaziale non avrebbe provocato danni apocalittici. L’impatto, invece, liberò 100 miliardi di tonnellate di rocce ricche di zolfo. Così si scatenò l’«inverno nucleare» al quale dobbiamo una tardiva riconoscenza.

Il Fatto 17.5.17
L’amico sindaco: “Tiziano sapeva da ottobre e temeva le manette”
Esclusivo - Il verbale di Lorenzini (Rignano) svela ai pm che babbo Renzi seppe dell’inchiesta Consip prima che ne parlassero i giornali
di Marco Lillo

Pubblichiamo un estratto dal libro di Marco Lillo “Di padre in figlio” (Paper First), da domani in vendita nelle edicole e nelle maggiori librerie.

Il verbale del sindaco di Rignano sull’Arno, Daniele Lorenzini, finora inedito è davvero importante per capire che il giro rignanese di Tiziano Renzi e quello fiorentino e istituzionale del figlio premier in carica erano strettamente legati. E che ci sia stata un’osmosi tra i due giri, con passaggio di notizie riservate da Roma a Firenze e Rignano, non appare così assurdo. Ma leggiamo cosa disse quel giorno Lorenzini ai pm Palazzi di Roma e Woodcock di Napoli: “Tiziano Renzi, presso il suo ufficio di Rignano sull’Arno, sito in via Roma, dove mi ero recato per discutere di cose locali, a un certo punto mi disse di seguirlo fuori dalla porta del suo ufficio nel piazzale antistante, dicendomi di lasciare il mio come il suo cellulare all’interno dell’ufficio; quando fummo fuori Tiziano mi disse che aveva saputo di essere coinvolto in un’indagine di Napoli che riguardava un ‘soggetto di Napoli’, che lui aveva incontrato una sola volta, facendomi intendere a gesti che aveva probabilmente il telefono sotto controllo; nella circostanza Renzi mi disse che lui non c’entrava, ma che temeva qualora fosse uscita la notizia, poterci essere un pregiudizio per l’esito del futuro referendum istituzionale; Tiziano mi precisò anche che temeva di essere arrestato nell’ambito di tale indagine. Il colloquio tra me e Tiziano Renzi è avvenuto sicuramente nella prima parte di ottobre” (un mese prima che La Verità, il 6 novembre 2016, accennasse all’inchiesta Consip, ndr).
Inizialmente Lorenzini aveva detto che l’incontro era avvenuto “intorno alla fine di ottobre del 2016” ma poi, orientandosi meglio tra gli accadimenti aveva rettificato la data con certezza. “Dopo qualche tempo, e cioè il sabato sera (5 novembre, ndr) della Leopolda ho ricevuto una telefonata di un giornalista o del Mattino o del Messaggero il quale mi chiese se sapevo qualcosa di un’indagine condotta dall’autorità giudiziaria di Napoli che coinvolgeva anche Tiziano Renzi; (…) Tiziano Renzi nel periodo successivo mi ha più volte parlato di tale indagine e della sua preoccupazione. Confermo di avere parlato di tale indagine anche con Roberto Bargilli (detto Billi, ndr), che è un mio assessore, e anche con altri assessori, Tommaso Cipro sicuramente forse anche con Eva Uccella”.
Attenzione, quindi Billi sapeva. L’autista del camper due mesi dopo quelle confidenze di Tiziano sull’inchiesta di Napoli e sulla paura di essere intercettato telefona, a nome di Tiziano stesso, al coindagato Carlo Russo per dirgli di non chiamare più Renzi senior. A Rignano non deve esserci proprio un clima sereno in giunta. Bargilli resta assessore e Lorenzini rimane sindaco ma è evidente che, quando il primo cittadino avrà sentito le dichiarazioni di Billi, che nega un intervento su Russo per evitare le intercettazioni (“gli ho solo inviato un sms per dirgli di non scocciare perché chiamava sempre Tiziano”), si deve essere messo a ridere.
Anche perché, sempre ai pm, il 3 marzo Lorenzini dichiara: “Non escludo che anche Bargilli Roberto mi disse che Tiziano Renzi gli aveva detto di non parlare al telefono”. Lorenzini è davvero una figura particolare nel giro dei Renzi: sindaco, medico e amico di famiglia viene ammesso alle segrete stanze (meglio ai segreti cortili dove si parla senza paura delle cimici) e poi spiffera tutto ai giornali e ai magistrati, ai quali descrive anche una cena nella quale il generale Emanuele Saltalamacchia mise in guardia Tiziano Renzi.
Lorenzini anche in questo caso dice di non aver sentito il nome dell’indagato, ma afferma con nettezza che ci fu un allarme preciso dal capo della Toscana dell’Arma “Nei secoli fedele” al padre del premier in carica. “Ricordo inoltre che, sempre nel mese di ottobre, pochi giorni dopo il primo incontro nell’ufficio di Tiziano Renzi sono stato invitato a una cena a casa di Tiziano. Tra gli invitati c’erano oltre a me e mia moglie il generale Emanuele Saltalamacchia (comandante regionale Toscana dei Carabinieri), Massimo Mattei già assessore del Comune di Firenze nella giunta di Matteo Renzi, con la moglie e tale Paolo che credo sia socio di Mattei; Andrea Conticini (genero di Tiziano)”. Interessante notare che, a parte Lorenzini, molti dei presenti avevano qualche problemino: Renzi con la Procura di Napoli e Conticini con quella di Firenze che lo indaga per reimpiego di capitali per l’uso, da parte del fratello, dei fondi Unicef e Operation Usa per fini personali.
Cosa si dissero mentre gli spiedini cuocevano sul braciere della villa in contrada Torri? “A un certo punto mentre eravamo in giardino ho sentito il generale Saltalamacchia dire a Tiziano Renzi che sarebbe stato meglio per lui non frequentare un soggetto, di cui tuttavia non ho sentito il nome, perché era oggetto di indagine. Non conosco nel dettaglio la natura dei rapporti tra la famiglia Renzi e il generale Saltalamacchia ma ho avuto modo di constatare la familiarità perché si davano del tu. Ricordo anche che sentii Saltalamacchia dire a Tiziano di non parlare al telefono. Sempre nel contesto del colloquio Saltalamacchia-Tiziano Renzi. Ricordo perfettamente che questo colloquio a cui ho assistito è avvenuto nel giardino di casa Renzi in occasione della suddetta cena intorno alla bistecchiera mentre si faceva la brace”.
E ancora Lorenzini: “Non ho mai conosciuto personalmente Carlo Russo a meno che non abbia partecipato anche lui a un viaggio a Medjugorje nell’ottobre 2014, viaggio al quale partecipai anche io con mia moglie e Tiziano Renzi con la sua, al quale parteciparono più di cento persone; non so se ci fosse anche Russo ma se c’era io non lo individuai neppure. Ho appreso solo dopo, e cioè da qualche mese, che una società a nome ‘Sicur’ o qualcosa del genere, riconducibile a Carlo Russo, ha formalmente contribuito alla mia campagna elettorale in occasione del rinnovo del consiglio regionale della Toscana del maggio 2015 nella quale io fui candidato; tengo però a precisare che di tale campagna elettorale si occupò Tommaso Cipro, mio attuale assessore e già consigliere comunale di Rignano e dunque io ribadisco che neppure sapevo che tale contributo della suddetta società provenisse dal menzionato Carlo Russo circostanza questa che ripeto ho appreso solo negli ultimi mesi avendomelo rappresentato Tommaso Cipro. Si è trattato comunque di un regolare contributo registrato. Preciso comunque di non essere stato eletto”.
E infine, sempre a verbale, il sindaco parla dell’attuale ministro dello Sport: “A me personalmente Tiziano Renzi non ha mai parlato dell’onorevole Luca Lotti in relazione a tale vicenda anche perché Lotti l’ho visto in tutta la mia vita 2 o 3 volte e con lui non ho mai avuto rapporti diretti. Ho incontrato Filippo Vannoni (presidente di Publiacqua, altro teste nell’inchiesta Consip, ndr) in due o tre occasioni per motivi connessi alla mia attività di sindaco ma in epoca precedente a questi fatti”.
Dopo le interviste e le deposizioni davanti ai pm, tra Lorenzini e Renzi senior è calato il gelo. Tiziano, prima ha cercato più volte l’amico sindaco per un chiarimento. Poi ciascuno ha deciso di tirar dritto per la sua strada. Dopo le notizie sulle indagini, Tiziano s’è autosospeso da segretario Pd del paese. E Lorenzini si è candidato per la rielezione con la lista civica “Insieme per Rignano”, fuori dal Pd (…).

La Stampa 17.5.17
Quando la madre rimproverava Matteo
“Basta urlare, così fai star male il babbo”
La ricostruzione delle drammatiche giornate di inizio marzo e le liti in famiglia
“Mio padre è un pasticcione. Da anni gli dico di stare tranquillo, non so più che fare”
di Federico Geremicca

«Andrai a processo, ci vorranno tre anni e io lascerò le primarie... Stai distruggendo un’esperienza...». Due marzo, vigilia dell’interrogatorio a Roma di Tiziano Renzi: e Matteo - il figlio - annota così, in una drammatica telefonata col padre, una delle conseguenze possibili di una condotta (quella del genitore, appunto) che non gli piace e non lo convince. I toni sono aspri, taglienti. Toni, a dirla tutta, in linea con giorni tetri, pessimi: senz’altro i peggiori della sua fulminante e osteggiata ascesa.
Vede attorno a sé nemici ed ex amici maramaldeggiare; fatica a difendersi perché la causa dei suoi guai, stavolta, non sono compagni di partito o di governo ma addirittura il padre; vorrebbe contrattaccare ma non ci vede chiaro, sospetta, dubita, teme che il genitore un passo falso possa averlo compiuto davvero: ed è contemporaneamente furioso e addolorato. Chi ricorda quei giorni neri non può non notare come fosse più netta la difesa che riserva all’amico Luca Lotti («È innocente e lo dimostrerà») piuttosto che a suo padre. Giorni di fango e di veleni, resi ancor più terribili da una micidiale sensazione: che il padre stesse mentendo, non solo ai giudici ma anche a lui.
Nella telefonata col vecchio Tiziano (che qualcuno ipotizza addirittura fatta ad arte: sapeva di essere intercettato e per questo veste i panni dell’inflessibile uomo di Stato) il sospetto emerge con nettezza. Ma non è solo in quel colloquio che amarezza e rabbia tracimano con violenza incontrollabile. Chi ha ascoltato i suoi sfoghi in quei giorni di fango racconta - oggi - di un uomo tormentato da un dubbio atroce.
Ed ecco, dunque, il racconto di chi, in più riprese, ha raccolto i rovelli e i sospetti dell’ex premier in quella prima e drammatica settimana di marzo. Faccia a faccia e telefonate (non intercettate...) imbarazzate e dolorose. L’interlocutore di Renzi è persona amica e fidata: e nei colloqui - racconta - invita più volte l’ex premier alla fiducia e alla calma.
«Io non so più cosa fare - si sfogava Matteo Renzi - perché sono anni che dico a mio padre di starsene calmo e tranquillo, ma non c’è niente da fare. Sapessi quante volte ho dovuto mandare da lui amici comuni a dirgli di starsene da parte, di non mettermi in difficoltà. Lui ascolta, ma poi fa sempre di testa sua...». Non c’entra - o non c’entra ancora - l’affare Consip, ma sono comunque discorsi dolorosi e complicati: un figlio contro un padre, o un padre contro un figlio. Con tutto quel che può significare in una famiglia semplice abituata ai modi e alle tradizioni di un tranquillo paesotto di provincia.
«Quando gli amici non bastano, tocca a me discuterci - spiegava Matteo Renzi -. E non è facile. Abbiamo anche litigato, certo. Ci siamo rinfacciati cose, abbiamo urlato. E quando la discussione si faceva agitata, era una mortificazione perché in salotto arrivava mia madre e mi rimproverava: “Matteo, la devi smettere! Basta urlare! Lo sai che tuo padre soffre di cuore, così lo fai morire”...».
Un padre, una madre e un figlio a litigare in salotto. Situazioni difficili, dove politica, affetti ed etica si fondono in una matassa difficile da districare. «Che poi - aggiungeva Renzi negli sfoghi con l’amico fidato - bisogna anche che io ci vada con i piedi di piombo... Perché che vuoi che ti dica: mio padre è un pasticcione, però io credo che questa faccenda, Romeo, la Consip e il resto, finirà come Tempa Rossa, te la ricordi? Anche allora una consultazione - all’epoca il referendum sulle trivelle, oggi le primarie - anche allora un’inchiesta piena di fughe di notizie e poi tutto archiviato, ma con un ministro massacrato e costretto alle dimissioni...».
Erano i pensieri in quei giorni di fango. Oggi, però, qualcosa sembra cambiato. Renzi fatica a credere al padre, ma riflette su quanto accaduto fin’ora. Le fughe di notizie, e va bene. Le guerre tra Procure, e va bene. Il danno politico e il terremoto in famiglia, e va bene pure questo. Ma i ripetuti e inspiegabili falsi di ufficiali dei carabinieri che manomettono intercettazioni e occultano informazioni per tirare in ballo lui - l’ex premier che cerca la riscossa - quello no. «Appena il Pd risale nei sondaggi cercano di colpirmi», annotava ieri. È un fatto. Come è un fatto, però, che i guai da cui è circondato arrivino tutti e sempre da lì: da quella enclave tosco-fiorentina ormai trasformatasi da scelta discussa in vera e propria maledizione.

il manifesto 17.5.17
La rottamazione è finita, il programma del Prof per un premier non renziano
Esce oggi «Il Piano inclinato» di Romano Prodi. La crescita o è inclusiva o non è. Welfare, investimenti, politiche industriali, scuola e università: il fondatore dell'Ulivo offre la sua ricetta. «Dalla crisi si esce a colpi di cacciavite»
di Daniela Preziosi

«La trappola della crescente disuguaglianza» ha reso le nostre società «più ingiuste anche se più ricche» e ora «sta ora togliendoci la speranza di un futuro migliore». Quella di Romano Prodi nel libro intervista Il piano inclinato (il Mulino, pp. 159, 13 euro, con Giulio Santagata e Luigi Scarola) che esce oggi in libreria è un’analisi pacata e senza colpi di teatro – alla maniera del Professore – ma anche senza sconti delle nostre economie e delle nostre economie sfiduciate, dove tramonta «l’idea che dopo di noi le cose andranno meglio». Vi si trova la fotografia di un paese – l’Italia è in primo piano, sullo sfondo c’è l’Europa ma anche l’America di Trump e la Cina dove il Professore insegna – che scivola verso il baratro e che ha bisogno di una raddrizzata urgente. Dagli anni 80, è la sintesi della prima sezione, la libertà di movimento dei capitali è diventata fondamento dell’economia, ma il combinato disposto fra globalizzazione e nuove tecnologie ha fatto calare i salari, «la precarietà è diventata una virtù e ci siamo lentamente abituati a una diminuzione del welfare state». L’ascensore sociale è bloccato, il ceto medio subisce «un processo di esclusione dai diritti di cittadinanza» che mette a rischio la «generazione nata dopo il 2010», dopo la crisi. Un processo «pervasivo» e «senza rivolta», vissuto come ineluttabile. Compito della politica è dunque «la lotta contro la povertà» e «la ricostruzione di una robusta e diffusa classe media».
Il fondatore dell’Ulivo non è diventato un no global vendemmia tardiva, ma è chiaro che le ricette politiche degli ultimi venticinque anni sono state oggetto di critica del suo lavoro di studioso e professore di economia e politica industriale (a Bologna e a Shanghai). Immaginiamo anche di autocritica. Vero è che il suo non essere mai stato socialista lo ha naturalmente e politicamente protetto dalla sbornia degli anni della «sinistra liberista». La sua fede nel welfare, nella mano sapiente negli investimenti pubblici e delle politiche industriali sono la naturale prosecuzione delle idee del premier del 1996 e quello del 2006 ma anche del ministro di Andreotti e del presidente dell’Iri.
Prodi non propone un cambio di paradigma. O forse sì, ma lo fa ben attento a non millantare idee nuoviste, attitudine di quei vecchi leader ormai lontani dal potere che impossibilitati a fornire cattivi esempi si acconciano a dare buoni consigli. La ricetta degli aggiustamenti non è una rivoluzione. Ma già solo l’idea di una politica fiscale mirata a finanziare il potenziamento dello stato sociale oggi suona quantomeno come riformismo forte. La crescita ineguale non è crescita, spiega, «nessuna crescita di lungo periodo può essere mantenuta senza la promozione delle risorse umane che solo un welfare diffuso garantisce». La crescita o è «inclusiva» o non è.
Prodi evita la polemica politica diretta se non quella con gli avversari storici (le destre, quelle che lui in Italia ha battuto due volte, ad altri quest’impresa non è riuscita per ora). Anche se è difficile non leggere qualche critica al renzismo in alcuni passaggi, per esempio quello sull’«inaccettabilità» dell’indebolimento dei corpi intermedi. Ma il suo intento è più ambizioso: la proposta di «qualche azione», scrive con malizioso understatement, qualche colpo di «cacciavite», quel cacciavite con cui il Prof è convinto di poter raddrizzare il mondo, emblema e bandiera del prodismo da sempre, suo punto di forza e suo limite, come gli anni del governo hanno dimostrato. L’abstract del saggio è un possibile programma di un esecutivo di centrosinistra post-crisi: investimenti, scuola e università, reddito minimo, inclusione, «preparazione culturale e livello etico dei cittadini». Scherzi del calendario, in libreria arriva nell’anniversario del giuramento del suo vituperato secondo governo, oggi in via di riabilitazione da una parte della sinistra. E suona come un programma minimo – ma non troppo – offerto ai democratici non renziani per il 2018.

La Stampa 17.5.17

Il disegno che ha in testa il Cremlino
di Stefano Stefanini

Donald Trump sta facendo del suo meglio per alimentare i sospetti di opacità nei rapporti con la Russia. Il licenziamento di James Comey, la quasi segretezza di cui ha circondato l’incontro con Sergei Lavrov alla Casa Bianca, le rivelazioni sullo scambio d’informazioni che comprometterebbero l’intelligence americana avvelenano l’atmosfera di Washington. La nuova presidenza rischia di avvitarsi in una crisi di politica estera prima di aver cominciato a farla. Alla confusione in campo americano fa riscontro una lucidità d’intenti e di obiettivi del Cremlino: non necessariamente ostili verso Washington, ma pragmaticamente pro domo sua.
Con (meglio) o senza Trump, Vladimir Putin persegue un approccio internazionale a tutto tondo. Sul versante occidentale, l’elezione di Macron ha rimosso la spada di Damocle sull’Ue e gli incontri di fine maggio (Trump a Bruxelles il 25 maggio per il mini-vertice Nato; G7 di Taormina il 26-27) dovrebbero rilanciare il rapporto transatlantico con la nuova amministrazione americana. La Russia sarà il grande assente, ma se ne parlerà ad abundantiam: Mosca è sinonimo di sicurezza in Europa e, sempre più, nel Mediterraneo; si è ritagliata un ruolo centrale in Siria; si affaccia in Libia.
La relazione, solitamente fredda con l’Arabia Saudita, ha trovato un terreno d’intesa nei tagli alla produzione petrolifera per tenere su i prezzi.
Cosa pensa e cosa vuole Mosca? Quanto le reazioni di Trump sono imprevedibili, il pensiero di Putin è impenetrabile. Sul secondo, una folta delegazione russa (7 persone), rigorosamente «non governativa», ha però offerto buoni indizi al «Dialogo di Riga», tenutosi ieri nella capitale lettone. La Russia diffida profondamente dell’Occidente, specie della Nato; la tensione è la «nuova normalità» (sottovalutandone forse i rischi); non si sente realmente minacciata dal pattugliamento alleato nei Paesi baltici e in Polonia, semmai dalla difesa contro missili balistici; ha in Ucraina un (altro) conflitto congelato senza soluzione in vista, non attuazione dell’accordo di Minsk II ma neppure «escalation»; non si aspetta più che l’Ue rimuova le sanzioni; vorrebbe ridurre il grosso capitale investito in Siria per trasformarlo in una «rendita vitalizia».
Sugli interlocutori Mosca è selettiva? Dialogare è bello ma bisogna aver ben chiaro con chi e su cosa. «Istintivamente» i russi cercano il dialogo bilaterale con gli Usa, chiunque sia il Presidente. Vedono ancora in Donald Trump un’opportunità che, sostengono, gli era negata con l’amministrazione Obama; se necessario, ne faranno fatalisticamente a meno. Stanno maturando lo stesso approccio privilegiato verso Pechino, come dimostra la calorosa presenza di Putin al lancio della «Via della Seta». Il terreno più promettente per una pragmatica collaborazione russo-americana sono le crisi regionali, Siria e Medio Oriente innanzitutto, ma anche Corea del Nord il cui potenziale destabilizzante non lascia Mosca indifferente.
L’interesse per altri canali di dialogo è centellinato. Al gradino più basso quello per la Nato. I russi sostengono che è l’Alleanza a non voler rilanciare il rapporto (viceversa la Nato). L’unica eccezione sono disarmo e controllo armamenti che vanno affrontati non solo con Washington ma anche in sede multilaterale, quindi non possono escluderla. Per Mosca, gli Stati Uniti non sono più un interlocutore sufficiente neppure in Medio Oriente, specie nel dopo-conflitto in Siria quando vorranno sganciarsi. Di qui l’azione diplomatica russa verso le potenze regionali: Turchia, Iran, Egitto, Paesi del Golfo. Non tanto, e non solo, per escludere Washington ma per garantirsi i dividendi del pesante investimento militare. Putin non si affida esclusivamente alla gratitudine di Bashar Assad.
Infine l’Unione Europea. Dopo le elezioni in Austria, Olanda e soprattutto in Francia, Mosca ha in qualche misura rivalutato la tenuta europea all’ondata populista. Pur con le sue criticità, l’Ue è lì per rimanere. In Siria l’Ue è assente per debolezza politica e militare ma avrà un ruolo nella ricostruzione (col che la Russia continua a relegare Bruxelles al ruolo di ufficiale pagatore anziché di negoziatore).
All’Ue rimane oggi una carta importante: l’Iran. La prospettiva dei rapporti Usa-Iran preoccupa molto i russi. «Europei e russi condividono l’interesse a prevenire uno scontro fra Washington e Teheran» osservava a Riga Andrei Kortunov, presidente della Fondazione Nuova Eurasia. «Se Donald Trump continua a guardare all’Iran con gli occhi di Netanyahu, si arriverà a un confronto dirompente fra sunniti e sciiti in tutto il Medio Oriente». L’accordo nucleare con l’Iran fu un successo della diplomazia europea e di Federica Mogherini: può essere la base per rilanciare anche il rapporto Ue-Russia.
L’ombra d’incertezza che aleggia su Washington dovrebbe far riflettere le capitali europee. «Serve un leader europeo che abbia il coraggio di rispolverare la détente»: chi lo diceva ieri a Riga non era né russo né americano né Ue. Era l’ex vice ministro degli Esteri Oleksandr Chalyi – ucraino.

La Stampa 17.5.17
Legge elettorale targata Renzi
Il segretario tenta il tutto per tutto
Azzerato alla Camera il testo base, oggi arriva la nuova proposta Pd
di Ugo Magri

Matteo Renzi si lancia in una nuova avventurosa sfida: stavolta tenterà di convincere il Parlamento a votargli la legge elettorale che il Pd metterà oggi nero su bianco dopo aver fatto piazza pulita, ieri sera nella Commissione Affari costituzionali alla Camera, del testo base discusso fin qui. La proposta renziana è nota solo per sommi capi. Grillini e berlusconiani, che sono contrarissimi, l’hanno già spregiativamente battezzata «Verdinellum» (dal suo ideatore). Prevede che la metà dei deputati e dei senatori venga eletta in tanti piccoli collegi dove vince chi arriva primo, come accadeva fino al 2005 con il «Mattarellum». L’altra metà dei seggi verrebbe assegnata invece con un criterio rigidamente proporzionale, a patto di superare il 5 per cento. Quando verrà tolto il velo dalla proposta, scopriremo dell’altro. Per esempio, se nella quota proporzionale ci saranno le preferenze, o invece si tornerà (come nel «Porcellum») alle liste dei «nominati»: per quanto sembrino dettagli, si tratta di decisioni che possono cambiare il costume politico. Scopriremo pure se sarà possibile raccogliere le firme delle liste e dei candidati per via telematica, come desiderano i Radicali Italiani, e pure questo conta perché sarebbe un grande incentivo ai referendum e alle leggi di iniziativa popolare.
Ribaltone alla Camera
A spingere avanti la riforma Pd potrà essere forse lo stesso presidente della Commissione, Mazziotti, che nei giorni scorsi aveva cercato la sintesi su un’altra proposta, gradita a M5S, a Forza Italia, ai bersaniani e ai centristi di Alfano: il «Legalicum», vale a dire la semplice e rapida trasposizione al Senato del testo in vigore alla Camera, in modo da creare armonia tra i due sistemi. Dopo il «no» renziano e di Ala, formalizzato in serata, Mazziotti ha ritirato il testo base. Era pure lì lì per dimettersi da relatore; però grillini e forzisti hanno insistito perché restasse lui, figura indipendente, a guidare le danze. Mazziotti si è preso la notte per riflettere; se rinuncerà, già scalpita Fiano (Pd). Tra 12 giorni il nuovo testo verrà votato in aula, e Renzi teme che i piccoli partiti vogliano far saltare quell’appuntamento ritardando la discussione con ogni mezzuccio.
Scissione dell’atomo
Ma il vero grande ostacolo sarà il Senato, dove i numeri sono ballerini. Sulla carta il Pd potrebbe farcela, perché la somma delle sigle favorevoli (Pd, Ala, Lega Nord, Svp, fittiani) fa 148 voti, non lontano dalla maggioranza assoluta a quota 161. Ma sono calcoli tutti teorici perché, per sapere se il «Verdinellum» potrà farcela, servirebbe la consulenza di fisici nucleari, gente esperta di scissione dell’atomo: nel grande «suk» di Palazzo Madama ognuno guarda ormai soltanto al proprio «particulare». Ed è scontato che, prima di dare il voto, molti senatori pretenderanno da Renzi garanzie di essere rieletti. Se non le avranno, parecchi potenziali supporter si sfileranno lungo la via. Ecco dunque la grande difficoltà dell’impresa. Eppure Renzi non sembra troppo in allarme, e a ragione. Comunque vada a finire in Senato, ne ricaverà vantaggi, sarà comunque un «win or win». Se la legge elettorale andrà in porto, voteremo con un sistema che danneggia gli avversari del Pd. Se verrà bocciata, lui potrà sostenere di aver fatto il possibile per evitare il proporzionale con tutti gli «inciuci» che dopo le elezioni ne deriveranno. E a quel punto non saranno stati colpa sua.

Repubblica 17.5.17
Cinquecento soldati per fermare l’esodo verso le nostre coste
Costi e rischi sono alti ma il governo Gentiloni, con l’ok di Berlino e Parigi, valuta l’ipotesi di inviare un contingente militare
I ministri degli Interni Minniti e de Maizière hanno chiesto alla Ue di autorizzare la spedizione La base della missione potrebbe sorgere a Madama dove un tempo c’era la Legione straniera
di Gianluca Di Feo

L’operazione Deserto Rosso non sarà per niente facile. Schierare un contingente militare italiano nelle dune del Niger settentrionale comporta costi e rischi altissimi. Serviranno almeno cinquecento uomini, con veicoli blindati ed elicotteri, che dovranno venire interamente riforniti con gli aerei e saranno costretti a muoversi sempre nella sabbia. Ma l’Europa crede di non avere più alternative per arginare l’esodo dei migranti verso le coste siciliane. Agire in Libia è impossibile e allora si cerca di sbarrare la rotta dei disperati più a sud: semplice a parole, molto più complesso da realizzarsi.
Il governo Gentiloni non ha ancora preso una decisione ma lo Stato Maggiore della Difesa sta cercando di definire i piani della missione, che ha il sostegno pieno di Berlino e vedrà un ruolo chiave di Parigi. Il primo problema è proprio questo: nel Sahel l’asse franco-tedesco è già consolidato, con truppe attive in più paesi, e non sembra disposto a dare spazio all’Italia nella cabina di regia: ben vengano i nostri soldati, a patto che non intacchino la sfera d’influenza altrui.
La macchina dell’intervento però è in marcia. Il primo passo formale lo hanno mosso pochi giorni fa i ministri degli Interni, Marco Minniti e Thomas de Maizière, chiedendo a Bruxelles di autorizzare la spedizione. Gli obiettivi sono in parte di natura umanitaria: avviare “programmi di sviluppo per le comunità lungo la frontiera” tra Libia e Niger. E in parte di polizia: dare “assistenza tecnica e finanziaria agli organi libici incaricati di contrastare l’immigrazione clandestina”.
In pratica, si tratta di addestrare un corpo di guardie di confine libiche, come previsto dagli accordi siglati a Roma tra una sessantina di tribù del Sud, inclusi i Suleiman e i Tuareg. Poiché nessuno dei governi libici è disposto ad accettare la presenza di forze straniere, la soluzione è creare una base in Niger. Lo Stato africano infatti è aperto alla collaborazione ed ospita reparti americani, francesi e europei, impegnati nella lotta agli jihadisti e nel contrasto ai trafficanti.
Questo sarà il compito più difficile: potenziare il ruolo dei gendarmi nigerini, accompagnandoli nell’identificazione degli schiavisti e nell’assistenza ai migranti. Da mesi c’è un piccolo contingente europeo, chiamato Eucap, che si occupa già di insegnare alle polizie locali le tecniche di azione e gli fornisce i mezzi. Pochi istruttori e parecchi fondi: l’Ue ha messo sul tavolo 610 milioni di euro, la Germania altri 77 mentre l’Italia ne ha offerti una cinquantina. Una pioggia di milioni per un governo poverissimo, nonostante il Paese abbia risorse preziose come le miniere d’uranio gestite dalla Francia. Una quota dei finanziamenti è destinata allo Iom, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, che lo scorso anno li ha usati anche per costruire cinque centri di accoglienza, dove vengono nutriti e ospitati i disperati che varcano il deserto, cercando di convincerli a tornare nel loro paese con incentivi economici e viaggi sicuri. Nel 2016 in cinquemila hanno accettato il rimpatrio: numeri che si cercherà di aumentare, finora irrisori rispetto all’esodo.
Secondo lo Iom, lo scorso anno 417 mila persone hanno attraversato il Niger dirette verso il Mediterraneo: quasi 300 mila hanno sicuramente preso la strada verso la Libia. Il che significa che sulle coste della Tripolitania in almeno centomila stanno aspettando di salire su un gommone. Un’industria dello sfruttamento che arricchisce non solo gli scafisti, ma anche le milizie tribali che dominano i valichi e le polizie corrotte che chiudono un occhio. Ed ecco la necessità di rinforzare i controlli con la presenza di militari europei che, ad esempio, sequestrino i camion dei trafficanti.
Il grande snodo delle migrazioni è Agadez, nel cuore del Paese, c’è già una base della missione Ue, che potrebbe venire potenziata. Ma la nuova spedizione dovrebbe mettere le tende molto più a ridosso delle frontiere settentrionali, per intercettare le carovane che aggirano i posti di blocco e addestrare le guardie di confine libiche. Una delle località prese in considerazione è Madama, dove sorgeva l’ultima postazione della Legione straniera prima delle colonie mussoliane: un fortino tra le dune, che sembra uscito dalle scene di film come Beau Geste. Tre anni fa i parà francesi hanno rioccupato l’antica roccaforte, costruendo una pista d’atterraggio: l’elemento decisivo per qualunque schieramento, perché lì tutto deve arrivare dal cielo, che si tratti di cibo, carburante o ricambi. E per gli italiani, che già riforniscono i soldati presenti in Afghanistan e in Kurdistan contando soltanto sul ponte aereo, questo è l’ostacolo logistico più complicato.
Non è l’unica difficoltà: in tutta l’area sono attive squadre jihadiste micidiali. Le guida il leggendario “Mister Malboro” Mokhtar Belmokhtar, il contrabbandiere convertito alla guerra santa, che si è imposto come uno dei comandanti fondamentalisti più feroci e imprevedibili.

il manifesto 17.5.17

Ong processate perché salvano i migranti
Mediterraneo. Il quadro che emerge dal documento della commissione difesa del Senato non tiene conto di quanto emerso nel corso delle audizioni. Così come non considera tutte le inequivocabili argomentazioni portate dai più alti gradi della Marina militare, della Guardia costiera e della Guardia di finanza, che smentiscono definitivamente la Grande Menzogna sul soccorso in mare
di Luigi Manconi

Corridoi umanitari privati non consentiti: questa la conclusione, approvata all’unanimità, al termine di quella che, sulla carta, doveva essere un’indagine conoscitiva di una commissione parlamentare.
Ma che – nei toni e nei contenuti – si è rivelata una sorta di pubblico processo nei confronti delle Ong. Con tanto di raccomandazioni finali che, qua e là, sembrano piuttosto le motivazioni di una sentenza. Peccato che il quadro che emerge dal documento della commissione difesa del Senato non tenga conto di quanto emerso nel corso delle audizioni che la stessa commissione ha condotto. Così come non tiene conto di tutte le inequivocabili argomentazioni portate dai più alti gradi della Marina militare, della Guardia costiera e della Guardia di finanza, che smentiscono definitivamente la Grande Menzogna sul soccorso in mare.
Nel documento della commissione si parla insistentemente di un’attività disordinata che rende «necessaria una razionalizzazione della presenza delle Ong» e un «coordinamento permanente curato dalla Guardia costiera». Ma, guarda un po’, tutte, proprio tutte le autorità militari hanno confermato che è esattamente quanto già ora succede e hanno negato che la presenza delle imbarcazioni delle Ong abbia mai intralciato le operazioni delle missioni militari. La Guardia costiera, poi, ha ribadito di avere il pieno controllo di quanto avviene nelle operazioni Sar (Ricerca e Salvataggio) svolte da ciascuna imbarcazione. Ma tutto ciò, in realtà, porta la commissione ad auspicare la «riduzione delle relative imbarcazioni nell’area, peraltro dalle caratteristiche tecniche molto variegate». Ecco, dunque, il vero obiettivo. Bisogna fermare le Ong perché offrono soccorso ai migranti in pericolo, mettono loro a disposizione «corridoi umanitari» cosa che «in nessun modo può ritenersi consentita dal diritto interno e internazionale, né peraltro desiderabile». Desiderabile?!
Ancora, si chiede alle Ong di «conformarsi ad obblighi e requisiti che le abilitino allo svolgimento di tali compiti», con «forme di accreditamento e certificazione che escludano alla radice ogni sospetto di scarsa trasparenza organizzativa e operativa»: ciò al fine di rendere «pubbliche nel dettaglio le proprie fonti di finanziamento, oltre che i profili e gli interessi dei propri dirigenti e degli equipaggi». Si chiede quindi alle Ong di provare la liceità dei finanziamenti ricevuti perché «sospetti di scarsa trasparenza» senza che siano emersi elementi in merito nel corso delle audizioni e nonostante il procuratore di Trapani abbia smentito recisamente l’esistenza di qualsiasi forma di finanziamento da parte dei trafficanti. Viene così totalmente trascurato il fatto che le Ong sono già ora regolate da norme precise; e obbligate, attraverso lo strumento del bilancio, a rendicontare il totale delle donazioni ricevute e l’impiego di esse; e che non si può pretendere la pubblicità sulle donazioni, per rispetto della privacy di chi le compie. Spetterebbe semmai all’autorità giudiziaria, in caso di indagine, avere accesso a questo tipo di informazioni.
Si punta poi alla piena collaborazione con le autorità libiche nelle operazioni Sar in modo che riportino sulle proprie coste i migranti salvati. Si dimentica che, in mancanza di un’autorità statale riconosciuta a tutti i livelli, la guardia costiera libica non sia in grado di assicurare il controllo delle coste e abbia una capacità d’azione limitatissima, come prova l’alto numero di morti che non si è potuto evitare nei giorni scorsi. I superstiti potrebbero così sbarcare non più in Italia ma, «in territorio libico, tunisino e maltese, sotto l’egida dell’Onu, dell’Unhcr e dell’Oim». Verrebbe ribaltato, di conseguenza, nel caso della Libia e, in parte, della Tunisia, il concetto stesso di «Paese sicuro» come definito dalle convenzioni internazionali. Quasi che non fossero sufficienti i racconti terribili delle crudeltà che, da anni, riportano i profughi, una volta condotti in salvo. A leggere bene tra le righe, emerge chiaramente la volontà di lanciare un messaggio preciso: non ci sono prove per condannare le Ong ma di fronte ai sospetti non possiamo non prendere misure nei loro confronti: salvando vite umane, non fanno altro che aumentare il numero di persone da accogliere e proteggere nel nostro Paese.

il manifesto 17.5.17

Un nuovo muro nella sentenza della Cassazione
Immigrati. Le culture non sono come i semi o gli animali che vanno conservati in nome della biodiversità, se non si incrociano perdono la loro funzione antropologica
di Luciana Castellina

E così anche la Cassazione ha detto la sua su come debbono comportarsi gli immigrati. Chissà a quale fra i nostri valori si è ispirata. A quelli francesi? a quelli inglesi? Alla «superiore» civiltà?
La Francia è generosa: a chi accetta di integrarsi totalmente, e dunque di rispettare principi e leggi del paese, consente il diritto di appartenere alla sua”superiore” civiltà. Ed è in base a tale principio che ha proibito di insegnare a donne che indossano l’innocuo chador ( che non è il burka). Che lederebbe – secondo un parere della Commissione diritti umani del Consiglio d’Europa – «le sensibilità religiose degli allievi». Per di più «il velo – è scritto – è imposto da una prescrizione del Corano, che è difficile conciliare con il principio di tolleranza proprio di una democrazia». E così, un atto di intolleranza – il licenziamento di un’insegnante che indossa il velo – è stato giustificato in nome del principio di tolleranza.
Diverso l’approccio del Regno Unito: gli inglesi, infatti, non hanno mai ritenuto possibile che neri o gialli potessero diventare come i britannici, per cui – come scrisse Stuart Hall, il grande maestro dei post colonial studies – «hanno garantito la coesistenza fra la Legge indiana e quella di Sua Maestà britannica», lasciando che ciascuno, almeno nel privato, facesse come gli pareva dentro le proprie comunità. Affari di loro selvaggi.
Difficile dire quale delle due posizioni sia più razzista e occidentalocentrica.
La complessità del problema non va sottovalutata, perché fra l’altro tratta del rapporto fra diritto al rispetto della diversità e libertà di scelta culturale (delicato soprattutto per le donne), che rischiano di restare imprigionate nel ghetto della loro identità originaria. Questione non semplice e infatti ha prodotto anche – aihmé – qualche invocazione in favore di crociate per andare a liberare dal burka le donne afgane, con l’aiuto dei bombardieri Nato. Con lo straordinario effetto di aver moltiplicato bombe e burka.
Peccato che quando, nel 2005, l’Unesco, dopo anni di travaglio, varò finalmente la Convenzione sulla Diversità Culturale (con 197 voti a favore e i soliti 2 contro, quelli degli Stati uniti e di Israele) del problema si discusse invece pochissimo, e tutti si sentirono autorizzati a definirsi buoni perché plaudirono alla decisione Unesco. Senza rendersi conto che quella Convenzione toccava questioni di fondo, imponeva di ripensare la logica omogeinizzatrice propria agli stati nazionali, il concetto stesso di cittadinanza. Così come imponeva un mutamento delle politiche culturali pubbliche.
I sindaci più democratici si impegnarono, divisi in due categorie: quelli che si sono rivolti agli immigrati dicendogli con generosità che anche se “di colore”, visto che sono esseri umani, possono ambire a diventare come noi; e quelli che, al contrario, più generosi, hanno allestito spazi – per moschee o altro – affinché ciascuno possa coltivare a fini di autoconsumo la propria cultura. Per facilitare è stata creata la figura del mediatore culturale. Che ha il compito di spiegare ai nuovi arrivati cosa è l’Europa, mai agli europei cosa siano le storie e le culture dei paesi di chi arriva. A buon diritto definitivamente etichettati, anziché come “nuovi europei”,come “extracomunitari”. Così facendo crescere un sistema di ghetti incomunicanti, che non possono che stimolare il peggior integralismo identitario.
Non è possibile suonare le trombe per salutare l’avvento della globalizzazione e poi coltivare le ossessioni securitarie di chi vorrebbe blindare le proprie comunità nel terrore che possano essere dissolte; bisogna prendere atto che il transculturale – che era proprio alle società prenazionali greche ebraiche ottomane, non è più il passato ma il nostro futuro. La «figura diasporica» – per citare ancora una volta Stuart Hall – «non è più minoritaria, sta diventando l’anticipazione della modernità avanzata », un processo facilitato dalle nuove tecnologie che rendono oggi ancor più difficile l’assimilazione degli immigrati.
Perché i telefonini gli consentono di conservare il rapporto persino con la nonna lasciata nel deserto; ognuno guarda, grazie al satellitare, la tv di casa propria e non quella della nazione d’arrivo; i voli low cost gli consentono di tornare nel villaggio natio non solo al momento della morte. E per di più, non avendo più lo stesso stato d’origine il prestigio del tempo della lotta anticoloniale, il legame è oggi più che altro con reti tribali, espressione di identità frammentate che si sincronizzano su una informalità globale che produce culture disinbedded dai sistemi sociali. Bisogna procedere dunque in modo nuovo, sapendo che le culture (e i comportamenti che queste ispirano) non sono come i semi o gli animali che vanno conservati come sono in nome della biodiversità, perdono la loro funzione antropologica se non sono dinamiche, se non si incrociano e innestano reciprocamente.
Ma perché questo avvenga bisogna innanzitutto smetterla di pretendere che la civiltà occidentale rappresenti “l’universale”, il punto più alto della civilizzazione, che i “selvaggi” debbono impegnarsi a raggiungere. L’universale è un bell’obiettivo, ma solo a condizione che si inneschi un lungo processo dialogico, cui tutti contribuiscano. Altrimenti avremo solo jihad. (Se tenete conto che l’85% delle informazioni che il mondo riceve provengono dall’occidente vi rendete conto quanto scarso sia il contributo degli altri).
La nostra civiltà è certo migliore di quella saudita. Per via delle rivoluzioni che abbiamo avuto la fortuna di poter partorire. Ma sarebbe ora di smetterla di rimproverare i popoli che non hanno avuto modo di farle. È accaduto perché noi con il colonialismo glielo abbiamo reso quasi impossibile. (Prima di invocare la rivoluzione francese ricordiamoci sempre che non toccò la schiavitù).

Repubblica 17.5.17
Scuole paritarie, scontro tra il M5S e i vescoviI grillini vogliono togliere i finanziamenti alle private
Avvenire: “danno per le famiglie”
di Paolo Rodari

ROMA. La luna di miele è già finita. A meno di un mese dall’intervista di Avvenire a Beppe Grillo letta da più parti come un primo tentativo di avvicinamento della Chiesa al Movimento 5 Stelle, è lo stesso quotidiano dei vescovi italiani a bocciare sonoramente le proposte dei pentastellati sulla scuola, e in particolare l’idea di togliere i finanziamenti pubblici alle scuole paritarie. Punta sul vivo, ovvero sui 7 miliardi che secondo Avvenire lo Stato risparmia grazie alle paritarie — «574 milioni di spesa a fronte di 7 miliardi di risparmio», spiega il quotidiano della Cei riportando un calcolo di qualche anno fa fatto dall’Associazione genitori scuole cattoliche — la Chiesa reagisce lasciando da parte le avances mosse meno di un mese fa e mette in evidenza il giudizio negativo espresso dal sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi: «Per noi la libertà educativa è di primaria importanza».
Per Avvenire se la proposta dei 5 Stelle avesse un futuro i danni alle famiglie sarebbero notevoli. Sul piatto, infatti, c’è anche la possibilità concreta per le stesse famiglie di detrarre il 19 per cento delle spese per l’iscrizione alle paritarie, fino a un tetto massimo di 564 euro, limite che si alzerà progressivamente fino a 800 euro nel 2019.
Il quotidiano della Cei: “Lo Stato grazie alle paritarie risparmia sette miliardi di euro, a fronte di una spesa di 574 milioni di euro”
Già meno di un mese fa, a onor del vero, i vertici della Cei si erano affrettati a fare retromarcia coi 5 Stelle. Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, aveva dovuto specificare che erano soltanto «opinioni personali» le sue dichiarazioni rilasciate al Corriere nelle quali spiegava perché i grillini e i cattolici avessero molto in comune. Una smentita richiesta dall’alto nonostante non sia un mistero per nessuno che, in effetti, non sono pochi i cattolici pronti a votare per Grillo. Fra i vescovi, in ogni caso, nessuno vuole concedere un endorsement a Grillo come la Cei di Ruini concesse de facto anni fa a Berlusconi. La linea è oggi una: non stare con nessuno pur non essendo a priori contro nessuno. Così vuole anche Francesco. Così hanno imparato a volere i vescovi.
Fra meno di una settimana i vescovi potrebbero già avere un nuovo presidente. Non è escluso, infatti, che se già il primo giorno dei lavori dell’assemblea generale della Cei (si apre lunedì 22) verrà consegnata una terna di nomi al Papa, questi non indichi subito il nome del successore del cardinale Bagnasco. Ma soltanto a elezione avvenuta vescovi e politici cattolici potranno valutare eventuali nuove strade da percorrere fino alle prossime elezioni politiche.

il manifesto 17.5.17

«Questo manifesto è per voi», il new old Labour di Corbyn
Gb. «Radicale e responsabile», presentato all’università di Bradford il programma elettorale. A base di sanità pubblica, nazionalizzazioni, riforma fiscale. Così il partito ritrova l’anima
Jeremy Corbyn lancia il manifesto laburista alla Bradford University
di Leonardo Clausi

LONDRA Dopo la falsa partenza della scorsa settimana – una fuga di notizie ne aveva anticipato i contenuti – ecco in tutto il suo socialistico fulgore la versione definitiva e ufficiale del manifesto del partito laburista per le elezioni politiche del prossimo 8 giugno, che il partito è stato finora il primo a presentare. Lo ha fatto ieri un Jeremy Corbyn ispirato, sempre più a suo agio nel gestire situazioni ad alto tasso audiovisivo, in un luogo simbolico del socialismo inglese, l’università di Bradford nello Yorkshire, città operaia e con una vasta comunità islamica e che fu di Harold Wilson, due volte primo ministro laburista (nel 1964-70 e nel 1974-76).
È UN PROGRAMMA elettorale di speranza «per i molti e non i pochi», con uno slogan che non gira intorno alle cose, come il resto del documento. Per dare a ogni generazione «speranza e opportunità» in un paese dove sette anni di governo conservatore hanno tagliato le imposte alle élite e ridotto i sussidi di milioni di famiglie in difficoltà. «Questo manifesto è per voi» ha detto Corbyn. Per poi squadernare un programma di pianificazione economica da manuale del ministro delle finanze socialdemocratico: fine dello scandalo dei contratti a zero ore, pensioni agganciate all’inflazione protette, cancellazione delle tasse universitarie (aumentate a novemila sterline annue dalla coalizione Tory-Libdem), taglio ai salari siderali dei top manager, nazionalizzazione di ferrovie, energia elettrica, acqua (privatizzata da Thatcher nell’89, ci sono oggi nove compagnie idriche nella sola Inghilterra), poste. Sostegno incondizionato alla sanità pubblica, più poliziotti e vigili del fuoco per rimediare ai tagli dell’austerity, reintroduzioni di fasce di sussidi alle famiglie e altre delizie. Le nazionalizzazioni di ferrovie e la cancellazione delle tasse universitarie sono state accolte con l’applauso più lungo.
Il tutto sarà pagato con una sberla fiscale alle salubri gote dei più abbienti: aumento della tassa sul reddito e sulle imprese (quest’ultima del 26%) e un serio proposito di combattere l’evasione fiscale. Un programma «radicale e responsabile», che chiama in causa «i più ricchi e le grandi aziende a pagare un po’ di più». Una pressione fiscale come non si vedeva nelle economie occidentali dagli anni Settanta: così il partito punta a racimolare gli 86,4 miliardi di sterline che totalizzano i costi di queste riforme.
QUESTO È IL PRIMO manifesto di quello che ormai potremmo chiamare il New Old Labour. E segna il tardivo e fortuito rinsavimento di un partito che, da troppo tempo avvitato in una spirale centro-centrica, si è improvvisamente ricordato chi è. Complice anche una serie di spettacolari sperequazioni sociali sulle quali finalmente anche questo paese si sta seriamente interrogando, benché il dramma odierno della politica rimanga la Brexit strategy (o la sua mancanza). Nella quale Corbyn – che ha cercato come poteva di fornire una lettura univoca del problema da parte del partito – assicurerà un’uscita dall’Ue che tuteli i diritti del lavoro, cercando un accordo con Bruxelles nel segno del mantenimento dell’accesso al mercato unico e della garanzia dei diritti dei rispettivi cittadini. La libera circolazione del lavoro finirà, ma «in modo giusto». Un sacrosanto colpo di spugna al blairismo nel segno del ritorno della vecchia lotta di classe, che si ritrova sdoganata dopo cinquant’anni d’esilio. Anche per questo Theresa May, che ha concentrato su di sé e non sul suo partito la campagna Tory, si è affrettata a scippare (male) la retorica e perfino certe misure correttive Labour. Lunedi è stata aspramente contestata da una donna disabile in uno dei pochi incontri elettorali senza i soliti pretoriani sorridenti.
MA SONO STATI l’assai applaudito ringraziamento di Corbyn per i migranti economici che lavorano nel settore pubblico e la rilettura dell’abusato concetto di interesse nazionale il suggello ultimo a un manifesto che sta piacendo quasi ovunque: «Il nostro paese riesce se a riuscire è ciascuno di noi» ha detto Corbyn.
La società, che Thatcher aveva fatto uscire dalla porta, rientra dalla finestra.

il manifesto 17.5.17
Il presidente Usa Donald Trump
«Da Israele a Trump ai russi»
Stati uniti. Le rivelazioni del New York Times sulle informazioni di intelligence «passate a Mosca»
di Marina Catucci

NEW YORK L’articolo del Washington Post riguardo le rivelazioni fatte da Trump al ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov e all’ambasciatore Sergei Kislyak, durante il loro incontro alla Casa Bianca di qualche giorno fa, è arrivato in un giorno che si era aperto con la denuncia da parte del Dipartimento di Stato di Washington, tramite il portavoce Stuart Jones, circa un edificio in Siria adibito a forno crematorio voluto da Assad per far sparire le salme dei detenuti politici uccisi. Jones non aveva dato la certezza assoluta, ma la deduzione che l’edificio sarebbe un forno crematorio in quanto «nelle foto invernali mentre tutto è coperto di neve il tetto del complesso è pulito perché vi si genera calore».
NON C’È STATO il tempo per metabolizzare questa notizia in quanto lo scoop del Washington Post si è abbattuto come un tornado sulle news americane. A sbalordire maggiormente è stato sì il fatto in sé, che informazioni riguardanti Isis e catalogate come top secret siano state trasmesse ai russi direttamente da Trump, ma più di tutto la dinamica di queste rivelazioni; il presidente degli Stati uniti, vantandosi con il ministro degli esteri russo, ha testualmente detto «Ho a mia disposizione una grande intelligence e ogni giorno ricevo grandi informazioni», rivelando così i contenuti di un dossier classificato con un codice cifrato, il più alto livello di segretezza, trasformando il tutto in una chiacchierata da bar.
SECONDO i funzionari di intelligence le informazioni rivelate da Trump riguardano un complotto dello stato islamico, erano state fornite da un alleato mediorientale ed erano considerate così sensibili da non essere state ampiamente condivise. Gli agenti di Nsa e Cia hanno cercato di contenere il danno, tutelando la fonte primaria delle informazioni. Durante la conferenza stampa avvenuta dopo la pubblicazione dell’articolo, Herbert Raymond McMaster, al vertice del Consiglio per la Sicurezza Usa aveva minimizzato dichiarando che «Il presidente e il ministro degli esteri russo hanno esaminato le minacce comuni poste dalle organizzazioni terroristiche, comprese le minacce al traffico aereo. In nessun momento sono state menzionate le fonti dell’intelligence».
PECCATO però che McMaster sia stato smentito, poche ore dopo, dallo stesso Trump, durante la solita serie di twit del mattino, quando ha dichiarato: «Come presidente volevo condividere con la Russia (durante un incontro alla Casa Bianca programmato pubblicamente), cosa che ho il diritto assoluto di fare, fatti relativi al terrorismo e alla sicurezza del volo aereo. Ragioni umanitarie, inoltre voglio che la Russia rafforzi notevolmente la sua lotta contro l’Isis e il terrorismo». In effetti il presidente ha ampia discrezione nel decidere di declassificare materiali di intelligence, se lo però lo fa per vanagloria le cose cambiano, e se per il Cremlino tutta la vicenda è «una totale fesseria, una fonte del’intelligence europea ha riferito alla Ap che i paesi europei potrebbero smettere di condividere informazioni con gli Stati uniti. La gravità del comportamento di Trump risiede nel fatto che il presidente ha girato informazioni classificate, fornite da un partner critico, ad un avversario geopolitico, informazioni tanto delicate che alcuni dettagli erano stati nascosti ai maggiori alleati degli Usa e ad esponenti dell’amministrazione. Secondo il Washington Post il «partner critico non aveva dato agli americani il permesso di divulgarle a terzi», Trump avrebbe quindi «messo in pericolo una fonte d’intelligence cruciale». E ora il New York Times ha rivelato che il misterioso paese è Israele, il quale ha ribattuto che comunque questo non cambia i rapporti tra i due paesi.
SUL FRONTE interno, viste le critiche fatte da Trump riguardo la gestione di informazioni riservate da Hillary Clinton, questo episodio potrebbe portare alle accuse di un doppio discorso da parte del presidente. Ora si aspetta che il Comitato di Intelligence della Camera venga informato dal direttore della Cia, Mike Pompeo. Persino il capo della maggioranza, il senatore McConnell ha dichiarato: «Meno manfrine, ci sta impedendo di governare».

La Repubblica, 17.5.2017
Istruzione: M5S dice basta a finanziamenti per le scuole private
Insorgono i vescovi
Il caso. I grillini vogliono togliere i finanziamenti alle private. Avvenire: “danno per le famiglie”
Scuole paritarie, scontro tra il M5S e i vescovi
di Paolo Rodari

Roma. La luna di miele è già finita. A meno di un mese dall'intervista di Avvenire a Beppe Grillo letta da più parti come un primo tentativo di avvicinamento della Chiesa al Movimento 5 Stelle, è lo stesso quotidiano dei vescovi italiani a bocciare sonoramente le proposte dei pentastellati sulla scuola, e in particolare l'idea di togliere i finanziamenti pubblici alle scuole paritarie. Punta sul vivo, ovvero sui 7 miliardi che secondo Avvenire lo Stato risparmia grazie alle paritarie — «574 milioni di spesa a fronte di 7 miliardi di risparmio», spiega il quotidiano della Cei riportando un calcolo di qualche anno fa fatto dall'Associazione genitori scuole cattoliche — la Chiesa reagisce lasciando da parte le avances mosse meno di un mese fa e mette in evidenza il giudizio negativo espresso dal sottosegretario all'Istruzione Gabriele Toccafondi: «Per noi la libertà educativa è di primaria importanza». Per Avvenire se la proposta dei 5 Stelle avesse un futuro i danni alle famiglie sarebbero notevoli. Sul piatto, infatti, c'è anche la possibilità concreta per le stesse famiglie di detrarre il 19 per cento delle spese per l'iscrizione alle paritarie, fino a un tetto massimo di 564 euro, limite che si alzerà progressivamente fino a 800 euro nel 2019. Il quotidiano della Cei: "Lo Stato grazie alle paritarie risparmia sette miliardi di euro, a fronte di una spesa di 574 milioni di euro" Già meno di un mese fa, a onor del vero, i vertici della Cei si erano affrettati a fare retromarcia coi 5 Stelle. Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, aveva dovuto specificare che erano soltanto «opinioni personali» le sue dichiarazioni rilasciate al Corriere nelle quali spiegava perché i grillini e i cattolici avessero molto in comune. Una smentita richiesta dall'alto nonostante non sia un mistero per nessuno che, in effetti, non sono pochi i cattolici pronti a votare per Grillo. Fra i vescovi, in ogni caso, nessuno vuole concedere un endorsement a Grillo come la Cei di Ruini concesse de facto anni fa a Berlusconi. La linea è oggi una: non stare con nessuno pur non essendo a priori contro nessuno. Così vuole anche Francesco. Così hanno imparato a volere i vescovi. Fra meno di una settimana i vescovi potrebbero già avere un nuovo presidente. Non è escluso, infatti, che se già il primo giorno dei lavori dell'assemblea generale della Cei (si apre lunedì 22) verrà consegnata una terna di nomi al Papa, questi non indichi subito il nome del successore del cardinale Bagnasco. Ma soltanto a elezione avvenuta vescovi e politici cattolici potranno valutare eventuali nuove strade da percorrere fino alle prossime elezioni politiche.