Il Sole Domenica 28.5.17
I Vizi di Giotto spiegati in poesia
Importante
recupero nella Cappella degli Scrovegni: decifrate tutte le iscrizioni
sotto i Vizi e le Virtù ritenute perdute. Si tratta di versi che
descrivono le figure
di Salvatore Settis
Come due
fiumi inarrestabili che corrano entro una vasta pianura, testi e
immagini si alternano, si compongono, si separano e si integrano
mutuamente nella tessitura culturale dell’Europa medievale. Come è stato
spesso osservato, sia i testi che le immagini costituiscono, ciascuno
per suo conto, un corpus (e un thesaurus) separato, con proprie regole,
ricorrenze, articolazioni, variazioni; e sarebbe ingenuo pregiudizio
cercare dietro ogni immagine un testo che l’abbia direttamente ispirata,
o vedere dietro i testi (perfino quelli più scopertamente ecfrastici)
una specifica immagine-fonte, e una sola. Certo, esempi di questo mutuo
rapporto 1:1 esistono, ma vanno rilevati e documentati quando sia il
caso; mentre più frequente è il carattere per così dire self-contained
del corpus testuale da un lato, di quello iconografico dall’altro,
essendo chiaro che testi e immagini vengono ogni volta composti secondo
principi di selezione entro un repertorio (o lessico) corrente, di
accrescimento di quel ventaglio espressivo, e di affinamento stilistico
finalizzato alla sua miglior rappresentazione entro un determinato
contesto comunicativo, ogni volta differenziato secondo coordinate
proprie (tempo e luogo, committente e pubblico, e così via).
Proprio
perché questa è la regola, vanno distinti come una “famiglia” a sé i
casi in cui – viceversa – testo e immagine sono dichiaratamente
concepiti insieme, per fini comunicativi e/o espressivi convergenti, e
messi in tensione l’un con l’altra. In questo genus mixtum si contano
svariate modalità d’interazione, che potrebbero accorparsi a seconda di
una semplice gerarchia: testi nati senza immagini, ma più tardi
illustrati (per esempio Dante); opere concepite sin dall’inizio secondo
un’accentuata complementarietà testo-immagini (come i Regia Carmina in
onore di Roberto d’Angiò); e infine immagini concepibili senza alcun
testo, ma che vengono talvolta arricchite, integrate o spiegate da più o
meno lunghe addizioni testuali: tali sono ad esempio le scene bibliche,
evangeliche o agiografiche, a cui a volte viene agganciata una veloce
didascalia in parole. Senza negare il diffusissimo topos delle immagini
come litterae laicorum, tale adiacenza lo sottoarticola rendendolo più
pregnante, perché presuppone, com’è storicamente e statisticamente
probabile, un pubblico non di soli illetterati né di soli chierici, ma
stratificato e ricco di mediazioni. Si disegna in tal modo, intorno alle
immagini, tutto un ventaglio di tecniche e strategie dell’osservazione,
tutto un discorrere di quelle figure, in un «visibile parlare» che si
nutre, anche, di una dimensione squisitamente orale, alla quale le
immagini e le loro scritte danno continuo alimento.
È in questo
quadro che il prodigioso recupero dei tituli delle Virtù e dei Vizi
dipinti da Giotto agli Scrovegni, dovuto alla tenacia e alla competenza
di Giulia Ammannati, prende tutto il suo risalto. Senza sprecar parole a
ricordare la suprema importanza del ciclo giottesco, per l’altezza
irraggiungibile del pittore ma anche per le ambizioni del committente,
basti ricordare che ogni figura di quel ciclo si collocò all’origine al
centro di uno scontro tra Enrico Scrovegni e gli Eremitani. Il ricco
mercante l’aveva concepita come una cappella di palazzo, talché il
vescovo lo autorizzò a erigere unam parvam ecclesiam in modum quasi
cujusdam oratorii, pro se, uxore, matre et familia tantum con
l’assicurazione che non vi sarebbe mai stato alcun concursus populi; ma
gli Eremitani, il cui convento sorgeva nei pressi del palazzo dell’Arena
(ora distrutto), presto si accorsero che le intenzioni del committente
celavano alia multa, quae ibi facta sunt potius ad pompam et ad vanam
gloriam et quaestum quam ad Dei laudem, gloriam et honorem, con
conseguente grave scandalum, damnum, preiudicium et iniuria in tutta
Padova. Su questo contrasto non è qui da insistere, ma esso è
sufficiente a dire che ogni pennellata di Giotto, ma anche ogni parola
dei tituli che questo libro ci permette ormai di leggere non va vista
solo come privato ornamento di un ricchissimo cittadino né come oziosa
ostentazione erudita, bensì come uno spaccato di concezioni etiche e
religiose che appartengono al tempo stesso a una insistita
autorappresentazione dello Scrovegni e a una sorta di programmatica
praedicatio di valori morali e civici proposti sul teatro della città di
Padova.
Grazie al minuziosissimo lavoro di Giulia Ammannati, le
figure di Giotto e i versi latini che le accompagnano tracciano questo
quadro con una chiarezza che pareva impossibile, tale da innescare, c’è
da credere, nuove interpretazioni e ricerche, destinate a coinvolgere
l’intero ciclo della Cappella. Per citare solo qualche esempio, il
“metodo” dell’estensore dei tituli è esplicitato in quello di Karitas:
Hec figura Karitatis [cioè proprio quella lì dipinta] / sue sic
proprietatis / gerit formam, cioè viene rappresentata in modo aderente
alle sue caratteristiche morali.
Analogamente il titulus di
Fortitudo, mentre ne descrive atteggiamento e attributi, esplicita il
nesso con l’immagine: sicut est similitudo / depicta subtiliter.
L’attitudine di Ira che si strappa le vesti viene descritta come
aderente al suo significato morale: Vestis actus hic [cioè: in
quest’immagine] scissure / signant hoc [cioè che claritate rationis /
Ira privat hominem]. Patet hic Invidia [«ecco qui Invidia»], dichiara il
titulus relativo: e insomma le scritte, con quell’insistito hic, hec,
sicut est e così via, intendono richiamare l’osservatore a un puntuale
riscontro fra la personificazione rappresentata, i suoi attributi,
spesso descritti e spiegati uno per uno, e la “moralità” che deve
trarsene. Spe depicta sub figura / hoc signatur, quod…: da un lato la
figura o la forma, dall’altro quello che esse signant, cioè significano.
Nelle immagini complementari di Iusticia e Iniustitia, le sole dove
sotto la figura allegorica si disponga una sorta di predella, il titulus
ne dà piena ragione alludendo alle singole scenette, dal miles probus
che venatur (sotto Iusticia) agli homicidia che figunt spolia all’ombra
di Iniustitia; e ancora (ultimo esempio) dal titulus di Prudentia si ha
conferma che la figura fu concepita con due volti, uno dei quali
orientato all’indietro, ma si ricava anche la precisa indicazione degli
attributi significanti come lo specchio e il compasso. In questo dialogo
tra il poeta e il frescante, che agiscono entrambi in nome e per conto
del committente, tra testi e immagini non c’è gerarchia, ma piena
complementarietà. Perciò l’estensore dei tituli espressamente sigilla le
scelte del pittore elogiandone la subtilitas (nel dipingere Fortitudo),
e ancor di più l’industria docte mentis che lo guidò nel comporre
(pinxit) la figura di Invidia, tanto ricca di attributi. Allusione,
quest’ultima, al frequente topos della docta manus degli artefici,
richiamato ad esempio nel Battistero di Pisa per la tam bene docta manus
di Nicola Pisano (1260). Insomma, la doctrina di Giotto non è in nulla
inferiore a quella di chi ne commenta le immagini in un latino a suo
modo ricercato.
Che un’indagine essenzialmente paleografica (ma
anche metrica e letteraria) come questa debba a pieno titolo integrarsi
nella storia dell’arte e nell’interpretazione degli affreschi di Giotto,
non c’è bisogno di mostrare. Vorremmo sapere di più su chi scrisse quei
versi, vorremmo ascoltare – se mai fosse possibile – il suo discorrerne
con Enrico Scrovegni e col grandissimo maestro toscano, via via che
l’uno dipingeva e l’altro componeva, variando il metro, i suoi versi;
vorremmo guardare i padovani che, accorsi in processione il giorno
dell’Annunciazione di ogni anno (25 marzo), si raccoglievano nella
Cappella. Ma questo contrasto fra i Vizi e le Virtù, che lascia
intravedere la città con le sue tensioni sociali e politiche, ci basta a
dire che (nonostante l’opposizione degli Eremitani) davvero Enrico
Scrovegni aveva edificato la sua parva ecclesia non solo in remedium
suae animae, ma soprattutto in honorem et bonum statum civitatis et
communis Paduae (così in un atto nota rile del 1317).