giovedì 11 maggio 2017

Il Fatto quotidiano, 10.5.2017
L’analisi del sociologo Frank Furedi:
La minaccia populista esiste solo per i politici


Gli elettori non sono diventati più illiberali, è la classe dirigente che ignora l'aspirazione democratica a sentirsi comunità. L'avvento del populismo in Europa era nell'aria già da un po'. Sin dai primi anni di questo secolo è apparso chiaro che una parte rilevante dell'elettorato era stufa dei partiti che avevano dominato la scena politica a partire dal secondo dopoguerra. Gli elettori erano particolarmente diffidenti della leadership dell'Unione europea. Negli ultimi mesi, per cercare di capire perché così tante persone siano pronte ad abbandonare la propria devozione ai partiti tradizionali e a rifiutare le convenzioni e le pratiche del passato, ho girato l'Europa – Belgio, Paesi Bassi, Francia, Italia, Ungheria –. I commentatori scrivono di una "rivolta populista" in atto, cercano un "effetto Trump" e spesso insistono nel dire che gli elettorati europei sono ora molto più illiberali che in passato. Dalle mie conversazioni con le persone, nessuna di queste definizioni fotografa la realtà, che è invece molto più complessa e che lascia disorientati. POPULISMO è un termine utilizzato dagli anti-populisti per riferirsi a persone che non apprezzano. Non mi è ancora capitato di incontrare una persona che si dichiari populista. L'Ungheria è spesso descritta come il centro del populismo europeo. A Budapest, quando chiedo alle persone di parlarmi del loro populismo, rimangono sconcertate. Uno studente universitario di Storia mi ha spiegato che quando "voi in occidente ci chiamate populisti, in realtà non intendete dire altro che siamo un gruppo di provincialotti". In Europa, non vi è alcun movimento deliberatamente populista e i movimenti che sono stati designati come tali hanno spesso preoccupazioni e ideologie radicalmente differenti. Movimenti come Podemos in Spagna o il Front National in Francia si trovano alle estremità opposte dello spettro politico, da destra a sinistra. L'unica variabile comune tra questi movimenti e la gente che li sostiene è che essi respingono i valori prevalenti dei rispettivi establishment politici e culturali. Tuttavia lo fanno per ragioni molto diverse. Nelle conversazioni con la gente nella regione di Pas des Calais sono rimasto colpito dalla quantità di volte che mi è stato detto che "questa è una Francia che non riconosco" e "magari ci fosse un partito di cui mi posso fidare". Queste parole trasmettono un messaggio dentro il quale amarezza e frustrazione coesistono con entusiasmo e speranza. In alcune parti d'Europa, in particolare in Francia e Ungheria, il linguaggio dell'amarezza e della frustrazione spesso sovrasta il linguaggio della speranza. Anche nella vecchia Gran Bretagna, dove le dinamiche politiche sono da sempre le solite, un numero sempre maggiore di persone afferma che "è ora di avere un nuovo partito". CI" CHE LE PERSONE intendono quando dicono che "questa è una Francia che non riconosco" è che i loro valori non sono più professati e che il loro modus vivendi è diventato precario. Alcuni incolpano gli immigrati dei loro guai, altri invece incolpano i tecnocrati senza volto che non dimostrano alcuna empatia per ciò che accade nella loro vita, mentre altri ancora puntano il dito contro lo stravolgimento economico causato dalla globalizzazione e ciò che chiamano neo-liberalismo. Quello che corrobora tutti questi diversi sentimenti è una palpabile sensazione di incertezza culturale. In luoghi come Francia, Paesi Bassi e Belgio, molte persone segnalano la preoccupazione di non sentirsi più a casa propria. Allo stesso modo, è stata la domanda non detta "che cosa significa veramente essere britannici? " a spianare la strada alla Brexit e al rifiuto dei valori cosmopoliti e transnazionali della Ue. Nella silente guerra culturale che dilaga in Europa, la questione centrale è l'aspirazione a riguadagnare un certo controllo sulla vita di comunità. Le persone danno straordinaria importanza al valore di appartenenza. E le classi politiche d'Europa non solo hanno fallito nel riconoscere questa aspirazione, ma hanno anche cercato di sminuirne l'importanza. Il loro costante ritornello "viviamo in un mondo globalizzato" ha avuto l'effetto di sminuire il significato di casa, comunità e nazione. Ecco perché la sovranità nazionale è riemersa come questione centrale nel XXI secolo. Non è la xenofobia, né la paura degli immigranti, ma l'assenza di confini che intensifica la sensazione di incertezza culturale. "Il controllo sui nostri confini una volta si chiamava democrazia", mi ha detto un sostenitore delle frontiere ad Amsterdam. I SOSTENITORI della vecchia classe politica vedono – da quanto ho riscontrato – un mondo che è totalmente diverso da quello delle persone che essi chiamano "populiste". Ai loro occhi, la ragione per cui i populisti hanno votato per la Brexit è perché sono razzisti o perché sono troppo incolti per comprendere i punti più raffinati delle realtà economiche. Sono convinti che tutte le battute d'arresto che i partiti tradizionali hanno subito siano dovute al fatto che i demagoghi populisti hanno sfruttato a proprio favore la questione dell'immigrazione. Vedono solo odio e si dimostrano inconsapevoli della politica della speranza che motiva molti dei loro oppositori. Sono totalmente indifferenti all'aspirazione degli elettori alla sovranità e, nel continuare ad aggrapparsi all'importanza dell'Ue, ne deducono che il senso di nazione indipendente sia una maledizione. Ma dovrebbero invece cominciare ad avvertire anche la crescente domanda di un nuovo tipo di politica. (Traduzione di Enrico Varesco) Frank Furedi è uno dei più famosi sociologi in Europa, professore emerito di Sociologia all'Università di Kent. Tra i suoi libri: "Che fine hanno fatto gli intellettuali? I filistei del XXI secolo" (Raffaello Cortina, 2007)