martedì 30 maggio 2017

Il Fatto 30.5.17
Claudia Fusani, folgorata sulla via del renzismo
di Andrea Scanzi

Ognuno è folgorato sulla via che merita. Chi da Dark Side Of The Moon, chi dai tempi dilatati di C’era una volta in America. E chi dal fascino di Dario Nardella. È accaduto, o così parrebbe, alla fiorentina Claudia Fusani. Per chi non lo sapesse, e la lista è lunga perché non parliamo di Dacia Maraini ma di una che da anni scrive per un quotidiano che non compra nessuno (ma che paghiamo noi), Claudia Fusani è quella signora bionda che sta sempre su La7 a difendere Renzi in tivù. No: non stiamo parlando di quell’altra, la Meli, anche se confondersi è naturale. Entrambe bionde, più o meno coetanee, turbo-renziane e ancor più anti-grilline.
La Fusani, come subito si intuisce, patisce già un problema: è derivativa. È salita sul carro del niente, cioè del renzismo, quando c’era già troppa gente. Quindi la notano in pochi. In più è così diversamente pungente da apparire sempre una Rondolino in diesis minore, o una Meli che non ce l’ha fatta a essere Meli: e questo, lo capite bene, è un destino terribile. Attenti, però: Lady Fusani non è sempre stata così. Un tempo ormai lontano era firma di punta di Repubblica e sapeva fare il suo lavoro.
Certo, allora riteneva intoccabile D’Alema (oggi lo lapiderebbe) e insopportabile Berlusconi (oggi tutto sommato le piace), ma scriveva anche bei pezzi: sulla “cricca”, sulla P3, sulle papi girls. Sul G8, sulla liberazione di Clementina Cantoni. Poi arriva la storiaccia Abu Omar, che travolge i vertici del Sismi: il capo Nicolò Pollari, i due funzionari Marco Mancini e Gustavo Pignero. Il Sismi si era creato un giro di fonti giornalistiche per spiare (anche) le firme sgradite. La spia più famosa era Renato Farina. Ma non c’era solo Farina. Giornalettismo riassume così: “A fungere da informatori, oltre all’agente Betulla, sono stati, per un certo periodo, anche due giornalisti di Repubblica: ovvero, proprio Luca Fazzo e Claudia Fusani. Come si evince dalle intercettazioni i due hanno intrattenuto rapporti con Mancini – e fin qui nulla di male – ma gli hanno anche inviato via fax una serie di articoli della coppia Bonini-D’Avanzo che raccontavano le magagne del Sismi”. Ovviamente, quando la cosa si sa, gli spiati e Repubblica non ci rimangono bene.
Fazzo viene licenziato in tronco, la Fusani (che “ammette tutto e spiega che ha agito in questa maniera per preservarsi la fonte Mancini”, ricorda Giornalettismo) viene relegata al sito della testata. Poi passa a L’Unità su invito della neo-direttrice Concita De Gregorio. Si reinventa pure (simpatica) critica letteraria per Marzullo. Poi, mentre il quotidiano fondato da Gramsci e ammazzato da Renzi agonizza, arriva la folgorazione sulla via della faina guizzante di Rignano.
Da allora la Fusani funge come pretoriana di seconda fila: se la Meli è la Santanchè di Renzi, la Fusani è la Biancofiore qualsiasi del primo Gozi che passa. Le siamo vicini. Ogni tanto però sa dare spettacolo anche lei. Giorni fa, a Coffee Break, ha ribadito che il caso Consip non esiste: se quel caso avesse riguardato la Raggi, avrebbe come minimo evocato l’intervento della Wehrmacht sulle note di Farinetti. Poi – e qui si è tinta davvero di leggenda – ha accusato il collega Francesco Verderami di avere una voce sgradevole. Ecco: la Fusani che attacca un altro perché ha l’ugola stridula è come Giovanardi che accusa la Lorenzin di essere bigotta. Oltre la logica, oltre il buon senso, oltre il ridicolo.
Tutte cose di cui la Fusani, ultimamente, non pare tenere granché di conto.

il manifesto 30.5.17
Prima abrogare poi ripristinare, e lo scippo è compiuto
Referendum sui voucher. Susanna Camusso parla di un ricorso alla Corte costituzionale. Si riferisce forse a un ricorso del comitato promotore del referendum per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato. Questa è l’unica strada di cui dispone per accedere alla Corte. Ma anche così sarebbe impossibile rientrare nei tempi
di Massimo Villone

Come si scippa un referendum al popolo sovrano? Con due semplici mosse. Prima si abroga la norma oggetto del quesito, e si provoca così la cessazione delle operazioni referendarie. Poi si approva una legge che reca la stessa norma, o – per evitare figuracce estreme – una simile.
Chi proprio insiste a dare voce al popolo deve rifare tutto da capo.
È quel che accade con il decreto-legge 25/2017, conv. in legge 49/2917, che ha abrogato i voucher, e le norme in discussione in Parlamento volte a reintrodurli, pur in forma diversa. Lo scippo c’è, e si vede.
Per le norme sopravvenute dopo i quesiti e la raccolta di firme, i casi sono due. Se abrogano quelle oggetto dei quesiti, per l’art. 39 l. 352/1970 il referendum – che è abrogativo – non ha più corso. Se le norme sopraggiunte sono modificative, la Corte di cassazione valuta se il referendum viene meno (quando le norme nuove vanno nel senso voluto dai promotori del referendum); ovvero se i quesiti si trasferiscono sulle nuove norme (in caso contrario). Questo in base allo stesso art. 39 prima citato, nella lettura data dalla Corte costituzionale, sent. 68/1978.
In passato la Corte di cassazione si è pronunciata sulla sopravvivenza del referendum nel caso di modifiche legislative (da ultimo, per le trivelle). Ma non è accaduto che le norme fossero prima abrogate, e subito dopo ripristinate. Se le norme oggi in discussione fossero sopravvenute in luogo del d.l. 25/2017, sarebbero state certo considerate modificative della disciplina oggetto dei quesiti, e poi sottoposte alla Corte di cassazione per valutare la sopravvivenza del referendum. Invece, se le nuove norme diventeranno legge, il referendum avrà perso la sua ragion d’essere con l’abrogazione, e l’avrà di fatto ritrovata con il ripristino. Ma al voto non si arriva più. Ecco lo scippo, in frode all’art. 75 Cost, alla legge 352 del 1970, e alla sent. 68/1978. Non rileva che la fraus legis et constitutionis sia consapevole e voluta. Importa che sia oggettivamente realizzata nel succedersi delle norme adottate dal legislatore.
Lo scippo è inevitabile. La Corte di cassazione ha con ordinanza sospeso le operazioni referendarie già il 21 aprile 2017. Per la l. 352/1970 il voto popolare cade tra il 15 aprile e il 15 giugno, e sarebbe ormai impossibile riprendere le operazioni per votare entro il termine. Un sapiente incastro dei tempi.
Susanna Camusso parla di un ricorso alla Corte costituzionale. Si riferisce forse a un ricorso del comitato promotore del referendum per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato. Questa è l’unica strada di cui dispone per accedere alla Corte. Ma anche così sarebbe impossibile rientrare nei tempi. Per di più, si dovrebbe probabilmente chiedere alla Corte costituzionale di sollevare davanti a sé stessa una questione incidentale di legittimità della legge 352/1970, che non consente di contrastare lo scippo da parte del legislatore, per giungere a una sentenza cd additiva. Una via difficile, e comunque non breve.
Che poi il Capo dello Stato neghi la promulgazione della nuova legge per il vulnus costituzionale da essa prodotto è tecnicamente possibile, ma improbabile. Il diniego di promulgazione nella prassi si lega a una incostituzionalità manifesta, ma senza dubbio avremo qualche costituzionalista pronto a negare che tale sia il caso. Certo, il Presidente dovrebbe ricordare che il d.l. 25/2017, da lui emanato, era motivato con «la straordinaria necessità e urgenza di superare l’istituto del lavoro accessorio al fine di contrastare pratiche elusive».
Come dovrebbe ricordare che la legge 49/2017, da lui promulgata, ha convertito senza modifiche. In ogni caso, il diniego è superabile con una nuova approvazione.
Vediamo con profonda rabbia un Parlamento, fiaccato nella sua legittimazione sostanziale e vicino alla scadenza, dare l’ennesima prova di cecità verso i diritti dei cittadini. Milioni di donne e di uomini hanno firmato per i referendum contro la precarietà e lo sfruttamento. Con il giochetto abrogare prima – ripristinare poi, sono derubati del diritto di chiamare i loro pari – il popolo sovrano – a decidere. Mentre per la salus reipublicae la partecipazione democratica è medicina essenziale, molto più delle infinite chiacchiere sulla governabilità a tutti i costi.

il manifesto 30.5.17
Intervista a Camusso: «Il blitz sui voucher una minaccia alla democrazia»
La segretaria della Cgil contro l’emendamento di Pd, Fi e Lega che reintroduce i buoni lavoro: appello al Quirinale e alla Consulta: «Non si era mai vista una forzatura simile nella storia della nostra Repubblica». «Il nuovo ticket è un imbroglio: non c’è contratto, mancano le tutele e i contributi rischiano di andare persi». «Un errore accelerare per andare a elezioni, troppe scadenze». Il 17 giugno manifestazione a San Giovanni
Antonio Sciotto

ROMA «Andremo fino in fondo: la Cgil si appella al Presidente della Repubblica, scenderemo in piazza, ricorreremo alla Corte costituzionale. Non era mai accaduto nulla di simile nella storia della nostra Repubblica: approvare una legge per evitare una consultazione referendaria, e poi riproporla il giorno prima della data in cui si sarebbe dovuto votare». La segretaria della Cgil Susanna Camusso è concentrata alla scrivania del suo ufficio al quarto piano di Corso d’Italia, il telefonino riceve sms senza sosta, tutto il sindacato è in fibrillazione: l’appello a Sergio Mattarella – che tutti i cittadini possono sottoscrivere – è appena partito sui social, e si punta alla riuscita della grande manifestazione prevista il 17 giugno in Piazza San Giovanni.
Il vostro appello al Presidente Mattarella si intitola «Schiaffo alla democrazia», e prima ancora che sui voucher – sui contenuti – si concentra sui modi in cui è stata gestita questa partita. Vedete una minaccia alla nostra democrazia?
Ritengo che quando si indeboliscono le regole e la certezza delle istituzioni si è sempre di fronte a una minaccia alla democrazia. Non si tratta certo di una minaccia agita con le armi, ma è in atto un logoramento, uno svuotamento. Quando il governo aveva varato il decreto di abrogazione dei voucher, aveva anche precisato che non sarebbe stato scontato introdurre subito un nuovo strumento per le imprese, e che, se comunque lo avesse fatto, avrebbe prima sentito le parti sociali. E invece, nel finesettimana appena trascorso – quello in cui si sarebbe dovuto votare – abbiamo assistito a 48 ore surreali, con un «emendamento senza padri»: non si capiva se fosse da intestare all’esecutivo o al Pd, in un ping pong che a tutti è sembrato quello tipico di chi gioca di soppiatto.
Ve lo aspettavate un tiro simile? Il 6 maggio avevate festeggiato, e a fine maggio è tutto di nuovo in discussione.
Un fondo di preoccupazione lo abbiamo sempre avuto, c’erano tutti gli elementi per pensare che l’abrogazione fosse arrivata più per evitare la consultazione che non per convinzione, ma pensavamo che almeno la certezza dell’ordinamento costituzionale continuasse a essere garantita. Invece si è mostrata una assoluta disinvoltura, una disattenzione verso le regole, che è ancora più preoccupante quando senti molti commentatori dire che questo fatto non è poi così importante, che «non ha senso che un governo cada sul lavoro». Si continua a derubricare un tema, il lavoro, che invece tocca da vicino le persone, che in questi anni ha visto allontanare le istituzioni dai cittadini, alimentando il distacco.
Quindi ricorrerete innanzitutto agli organi di garanzia costituzionale. Tecnicamente con quali passaggi?
C’è innanzitutto, ed è partito subito sui social, un appello al Capo dello Stato Sergio Mattarella: a nostro parere si sta violando l’articolo 75 della Costituzione, perché si è aggirato – come non era mai accaduto prima nella storia della nostra Repubblica – un quesito referendario per cui era già stata indetta una consultazione popolare, poi annullata grazie a una legge. Se l’emendamento passato in Commissione Bilancio dovesse diventare legge, faremo ricorso alla Consulta. Aggiungo che è anomalo anche l’aver inserito questo tema in una manovra economica, senza soddisfare il requisito dell’urgenza e dell’unicità dell’argomento. Sono scivolamenti continui verso il non rispetto delle leggi, come è accaduto venerdì notte con un emendamento comparso improvvisamente, con l’obiettivo di sanare quanto il Tar aveva detto in una sua sentenza. Vorrei che i nostri rappresentanti dimostrassero maggiore senso delle istituzioni.
Immagino questo ultimo riferimento sia al caso dello scontro tra il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e il Tar del Lazio sui cinque direttori dei musei. E sul piano dei contenuti, perché i «nuovi voucher» non vanno bene?
Innanzitutto c’è il problema che non viene definito cosa sia il «lavoro occasionale» per le imprese: a parte l’edilizia, che non è stata prevista, questo strumento si potrà accendere per qualsiasi attività e categoria. Non esistono causali, campi di applicazione. I tetti di reddito sono solo poco più bassi di quelli precedenti. E poi lo stesso limite dei cinque dipendenti è aggirabile nelle imprese agricole e artigiane, dove sono impiegati anche i familiari, non conteggiati in questo tetto. In agricoltura, temiamo che intere stagioni verranno fatte con questi nuovi voucher, andando a sostituire i contratti provinciali: ancora una volta si punta solo a risparmiare sul costo del lavoro, e l’addetto dopo non avrà diritto neanche ai sussidi.
Però adesso – dice chi lo difende – il nuovo voucher è almeno in forma di contratto.
C’è un imbroglio alla base, un imbroglio che è prima di tutto nella comunicazione, quando si dice che si tratta di un contratto. Più che di un contratto, si tratta di un accordo commerciale tra due parti. Perché non esiste alcuna definizione dei diritti e dei doveri, delle tutele per la persona che presta la sua attività lavorativa. Non basta il riferimento alla legge sugli orari – noi ad esempio nei contratti la definiamo molto di più – e non basta che ci sia la contribuzione Inail e Inps, sacrosanta di per sé ma non adeguata nel modo in cui è stata prevista. Che ci debbano essere i contributi è il minimo, certo, altrimenti si sarebbe trattato di lavoro nero: ma il fatto che non si apra una posizione contributiva, ma che tutto vada alla gestione separata, porta al rischio che quei lavoratori non avranno mai reali prestazioni, a partire dalla malattia. Quei contributi si dovranno oltretutto poi ricongiungere, rischiando dei salassi per chi parte già da bassi redditi. Infine, la cosiddetta «tracciabilità» prevede che sì, devi attivare lo strumento un’ora prima, ma dice anche che puoi confermare la prestazione nei tre giorni successivi: non è che qualche impresa magari si dimenticherà di farlo?
Quindi come si dovrebbero regolare le aziende, secondo voi, per poter effettuare in regola i lavori non continuativi?
Lo abbiamo ripetuto fino alla stanchezza. Per le imprese esistono già tanti strumenti contrattuali: dall’extra-orario al part time, dal lavoro a chiamata fino alla somministrazione. Che peraltro, ci era stato detto che con il Jobs Act avrebbero dovuto progressivamente andare verso lo sfoltimento, e comunque costare di più del lavoro stabile: stiamo ancora aspettando, e nel frattempo arrivano nuove forme di rapporti precari. Per non parlare del pubblico: si dà l’ok a utilizzare i nuovi voucher per eventi di solidarietà, per le calamità. Definizioni generiche dove può rientrare tutto, e c’è una contraddizione con il Testo unico appena concordato con il governo, in cui si era sottoscritto l’impegno a stabilizzare i lavoratori del pubblico e ad evitare il ricorso al lavoro accessorio.
I voucher per le famiglie vi vedono invece d’accordo?
Il settore familiare è l’unico, come abbiamo scritto nella Carta dei diritti, che può prevedere un genuino rapporto di lavoro occasionale. Vedo comunque dei rischi: non vorrei che i nuovi buoni sostituissero i contratti di lavoro domestico, che esistono già e sono semplici da attivare. Oggi si fa tutto nella piattaforma Inps, ti arrivano perfino i bollettini a casa. E pure questi lavoratori, li spostiamo da una posizione Inps definita al calderone della gestione separata? In questo modo anche la loro condizione è destinata a peggiorare.
Ma questa improvvisa virata da parte del governo, del Pd, nei confronti di quello che era stato deciso solo poche settimane fa con l’abrogazione dei voucher, secondo voi è solo un modo per creare «l’incidente» e andare al voto in autunno? O è magari una «vendetta» contro la Cgil, anche per il 4 dicembre?
Faccio notare che tra i temi della riforma bocciata il 4 dicembre c’era – dicevano in campagna elettorale – l’obiettivo di facilitare i referendum, abbassando le soglie per il quorum. E adesso vediamo come hanno rispettato l’istituto del referendum. Detto questo, io credo che il partito di maggioranza avesse già deciso di accelerare verso le elezioni in autunno, indipendentemente dal tema voucher: e lo vediamo dall’attuale discussione sulla legge elettorale. Poi, sì, forse può aiutare avere l’occasione per «l’incidente». In ogni caso ritengo che sia un errore andare al voto in autunno: si rischia di non avere la legge di Bilancio, di andare in esercizio provvisorio, che scattino le clausole di salvaguardia e quindi l’aumento dell’Iva, il tutto in un momento di difficile definizione dei nostri rapporti con la Commissione Ue e di possibili novità da parte della Bce sul quantitative easing.
Quindi chiamate di nuovo il popolo italiano a mobilitarsi. Anche il papa di recente, parlando a Genova, ha concentrato il suo discorso sul lavoro.
Mi pare che papa Bergoglio abbia detto cose non scontate e nuove su cosa voglia dire fare impresa, sulla meritocrazia, concentrandosi sul lavoro non solo come fonte di reddito: ma anche come progetto che dà senso alla vita di una persona.

Repubblica 30.5.17
I partiti senza idee e il ritorno alla palude
di Claudio Tito

NEL confronto di queste settimane sulla riforma elettorale e sulla data del voto, manca sempre qualcosa. Il dibattito si presenta amputato. Privato di quel nucleo essenziale che dovrebbe dare anima e sostanza a tutte le forze politiche. Quali sono gli obiettivi? Cosa intendono fare dopo aver chiuso le urne?
SEMPLICEMENTE qual è il loro programma? Non c’è nulla di tutto questo. Sembra quasi che nel tempo della transizione i partiti si sentano dispensati dall’obbligo di comunicare agli elettori i loro propositi e abbiano deciso di regredire in una sorta di immaturità permanente.
Non si spiega altrimenti quel che sta accadendo in Parlamento. I quattro principali partiti — Pd, M5s, Forza Italia e Lega — si stanno mettendo d’accordo per approvare una legge che ricalca il modello proporzionale tedesco. È doveroso che una democrazia abbia un sistema elettorale degno di questo nome. E l’Italia non ce l’ha. Ma non è solo questo in discussione. Il vero nodo si concentra nel motivo per cui queste quattro forze politiche lo scelgono: l’impotenza. Negli ultimi ventitré anni, uno schema sostanzialmente maggioritario ha costretto tutti a misurarsi con le richieste dei cittadini e a presentare loro le idee, le linee di un futuro governo. A esporre la loro natura. Adesso succede il contrario. In una sorta di ritorno al “pentapartito” della Prima Repubblica, tutto si rinvia a dopo. In un enorme bacino dell’indistinto. Il cui pericolo più concreto prende la forma di una nuova palude in cui ogni mossa sarà frenata dalla melma. Del resto ignorare che il sistema politico italiano non è quello di Berlino non può che portare a queste conclusioni. In Germania ci sono due grandi partiti, una leader riconosciuta, Angela Merkel, e il fronte populista non supera mai la soglia del 10%. In Italia la vera guida è la frammentazione e la protesta populista nei sondaggi arriva al 40%.
Basta allora osservare la traiettoria assunta dal Pd di Renzi. Un partito nato sulla vocazione maggioritaria, appare preoccupato soprattutto di ritornare al voto per dimostrare a se stesso che la sconfitta del 4 dicembre (la principale causa delle attuali distorsioni) è stata solo un incidente di percorso. Ma il leader democratico non chiarisce quali siano le sue finalità. Come intende governare il Paese. Non riesce a delineare i confini ideali del suo partito. Non può farlo. Non può presentare il suo programma reale. Perché sa che nel migliore dei casi — dopo il voto — dovrà allearsi con il partito di Silvio Berlusconi. Con il partito che il Pd ha combattuto per 20 anni e con il quale non dovrebbe condividire nulla dal punto di vista dei contenuti. Il Partito democratico avrebbe l’obbligo di rilanciare almeno un istintivo riformismo, ma è paralizzato nell’impossibilità di aggiornare il suo profilo. Anzi il ritorno alla proporzionale lo sta inconsapevolmente modificando. E questa mutazione riguarda anche gli “scissionisti” del Pd, appagati dalla speranza della sconfitta renziana.
Lo stesso riguarda Forza Italia. Berlusconi però si crogiola nella speranza di recuperare centralità senza avere più i consensi di un tempo. E senza nemmeno rinverdire gli onirici proclami mai realizzati.
Il paradosso si raggiunge con i grillini e i leghisti. Il Movimento5Stelle si sta rintanando in una posizione meramente speculativa. La paura di governare — esplosa con i disastri della giunta Raggi a Roma — spinge l’ex comico ad accettare il bottino di parlamentari che conquisterà in autunno (se davvero si voterà in autunno). Si rintana nella sua identità primordiale: quella del vaffa. Sapendo — o sperando — che se nascerà il governissimo Renzi-Berlusconi potrà ricominciare a sparare contro tutto e tutti. Senza bisogno di spiegare agli italiani cosa vogliano davvero fare per il Paese. Come può cambiare. Come affrontare la crisi dell’Unione europea e il rapporto con Trump. Come rimettere in ordine i conti dello Stato o abbassare il tasso di disoccupazione. Solo slogan inattuabili. In perfetto spirito populista. Seguito a ruota dalla Lega di Salvini già pronta a denunciare gli “inciuci”. Non si tratta quindi di un novello patto del Nazareno, ma di un’intesa per la sopravvivenza che coinvolge tutti e quattro. Assecondando così il sentimento provato da molti elettori e che Zygmunt Bauman spiegava in questi termini: «Per una grande maggioranza di cittadini l’idea di contribuire a indirizzare il corso degli eventi raramente è considerata credibile».
Il ritorno alla Prima Repubblica e il tempo della immaturità portano dunque tutti questi “doni”. Le classi dirigenti di questo Paese, a cominciare dai partiti che sostengono con distrazione il governo Gentiloni, dovrebbero allora riflettere prima di fare un passo indietro. Utilizzino il tempo rimanente per tentare ancora una legge elettorale che stabilisca maggioranze certe e omogenee. E soprattutto facciano ora quello che poi non si potrà più fare. Oggi su questo giornale Liana Milella e Lavinia Rivara spiegano bene quanti provvedimenti fondamentali e civili siano ancora all’esame del Parlamento. Impieghino le loro energie per approvarli. E si concentrino sulla prossima legge di Stabilità senza escogitare barocchi artifici. E soprattutto evitando di esporci al baratro dell’esercizio provvisorio e della speculazione finanziaria.

Corriere 30.5.17
i calcoli azzardati dei partiti
di Massimo Franco

Il gioco a incastro dei quattro maggiori partiti sembra avere qualche possibilità di riuscita. Se il loro accordo reggerà nei prossimi giorni, si avrà finalmente una nuova legge elettorale: notizia positiva, se non fosse che si abbina alla prospettiva di elezioni in autunno. Il sentiero per fare arrivare la legislatura al 2018 diventerebbe strettissimo perfino per il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Se Pd, M5S, FI e Lega sono in sintonia sullo scioglimento delle Camere, il capo dello Stato si troverà accerchiato da forze politiche tentate di assegnargli un ruolo poco più che notarile: tanto da decidere tra loro la data delle elezioni, cercando di mettere il Quirinale di fronte al fatto compiuto.
La rinuncia di Pd e Lega al sistema maggioritario conferma una sensazione sgradevole: che il merito della riforma sia secondario rispetto alla voglia di voto anticipato. Non è un bel segnale seppellire l’idea, sbandierata fino all’ultimo, di sapere chi ha vinto appena aperte le urne.
Per Forza Italia è il contrario: una legge proporzionale rimette in gioco Silvio Berlusconi dopo un’elezione che costringerà a allearsi in Parlamento; e, in teoria, riduce il potere di ricatto di Matteo Salvini. Per questo, le obiezioni berlusconiane sul voto autunnale sono cadute. Per Beppe Grillo va bene comunque. Può dire di avere ottenuto il sistema proporzionale; attaccare un Pd che fa cadere il suo terzo governo in una legislatura; e additare un’alleanza Renzi-Berlusconi in incubazione.
La soglia di sbarramento al 5 per cento, in realtà, favorisce Pd e Movimento, convinti di erodere consensi alle forze minori in maniera trasversale. Ma non dispiace nemmeno agli altri, per ragioni diverse. Forse sarà accettata anche dagli scissionisti di Mdp, che dovranno fondersi col movimento dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. L’azzardo insito in questa accelerazione, con la campagna elettorale sotto l’ombrellone, non sembra un ostacolo. A frenare non basta neanche il rischio di un’esposizione dell’Italia alla speculazione finanziaria, come avvenne nell’estate del 2011 con l’ultimo governo Berlusconi.
Prevale l’ansia, soprattutto nel Pd, di chiudere una fase senza pagare il dazio di una manovra correttiva pesante. La prospettiva delle urne diventa la fuga dalla responsabilità di spiegare perché, dopo anni descritti come un inizio di ripresa economica, bisognerà ricalibrare i conti pubblici. D’altronde, al governo di Paolo Gentiloni è stato concesso poco o nulla per decollare: in primis dal «suo» Pd, che non ha mai smesso di considerare chiusa la legislatura dopo il disastro referendario del 4 dicembre. Il paradosso è che gli darebbe il benservito mentre si sottolinea la buona immagine offerta al G7 di Taormina; e sebbene il premier lasci filtrare l’opportunità di continuare fino al 2018.
Eppure, Gentiloni non può né vuole resistere alle pressioni di Matteo Renzi e della nomenklatura del Pd. E a Mattarella viene attribuita una preoccupazione crescente perché teme, e non esagera, che l’Italia si ritrovi senza i conti messi in sicurezza. Soprattutto, non è affatto sicuro che dopo un voto a settembre o a ottobre esisterà una maggioranza per approvare una legge di Stabilità che prevede una manovra intorno ai 30 miliardi di euro. Ma se davvero alla fine i quattro partiti maggiori concorderanno una riforma, sarà difficile al capo dello Stato far valere le ragioni della prudenza e del vero interesse nazionale.
E magari Mattarella dovrà anche ascoltare la motivazione quasi beffarda di un’intesa raggiunta per assecondare le sue richieste di un accordo condiviso; e avallare le elezioni incluse dai partiti nella loro trattativa. Il Pd ha già messo nel conto l’esercizio provvisorio del bilancio, sebbene lo escluda: ha solo l’assillo di non gestirlo da solo. Perfino tra i dem c’è chi parla di «allegra irresponsabilità» del vertice del partito. Eppure, forze in grado di fermare la deriva non se ne vedono. In Senato, i partiti che verrebbero spazzati via dalla soglia del 5 per cento, a cominciare da quello del ministro degli Esteri, Angelino Alfano, possono al massimo resistere.
Il problema sarà spiegare all’opinione pubblica perché si sta scegliendo la strada del voto. Bisognerà vedere quanto sarà alto il prezzo, se si andasse al voto per restituire un Parlamento più impotente dell’attuale, e un Paese aggredito dagli speculatori. La conseguenza della riforma elettorale, si spiega, è che dopo saranno probabili, se non inevitabili, le «larghe intese». Ma di chi e con chi? Si parla di un governo Renzi-Berlusconi. A scorrere i sondaggi di oggi, però, un esecutivo del genere ha la consistenza del miraggio. Dalle urne in autunno promette di spuntare soprattutto un Grillo più forte di prima.

Corriere 30.5.17
Corbyn ora sogna la grande rimonta
Corsa aperta per le elezioni dell’8 giugno nel Regno Unito. Laburisti in crescita.
di Luigi Ippolito

Londra Ormai al quartier generale del partito conservatore se lo aspettano: il sondaggio choc che dà i laburisti in vantaggio potrebbe arrivare già in settimana. E forse il sorpasso si sarebbe già verificato, se l’attentato di Manchester non avesse congelato per qualche giorno la campagna elettorale.
La corsa al voto britannica ha preso una dinamica che nessuno aveva previsto. Quando Theresa May ha convocato le elezioni anticipate per l’8 giugno, il vantaggio del partito di governo su quello d’opposizione era di venti punti percentuali. Anche per questo la premier ha deciso di smentire se stessa e andare alle urne: si è resa conto di avere l’opportunità di conquistare una maggioranza schiacciante e ritrovarsi le mani libere nei negoziati sulla Brexit.
Ma poi qualcosa è successo. I laburisti hanno cominciato a macinare consensi, lo scarto si è ridotto fino agli attuali sei-sette punti e qualcuno ha cominciato a pensare l’impensabile: la barbetta di Jeremy Corbyn che si affaccia dal portone di Downing Street. Una prospettiva per molti irrealistica, per alcuni catastrofica: la sterlina nei giorni scorsi ha perso terreno alla sola ipotesi.
L’ultimo ad aspettarselo, probabilmente, è proprio il leader laburista. Lui non ha mai corso per vincere, neanche quando si è candidato alla guida del partito. Ha passato una vita a militare nelle file dell’ultrasinistra, votando quasi sempre contro la stessa linea del suo gruppo parlamentare. E quando nel settembre del 2015 ha messo il suo nome per la prima volta nella lista per la leadership laburista, lo ha fatto pensando a una candidatura di bandiera. Ma è accaduto l’imprevisto: la base del partito, stufa di blairiani e post-blairiani che non vincevano più elezioni nè facevano un’opposizione convincente, si è mobilitata a suo favore e lo ha plebiscitato alla testa del Labour, fra la costernazione dei moderati che occupano la maggioranza dei seggi a Westminster.
Il fenomeno Corbyn ricorda l’insurrezione di Bernie Sanders alle primarie democratiche in America, che costò quasi la candidatura a Hillary Clinton. Solo che a Londra i rivoluzionari hanno occupato il quartier generale. Spostando il partito su posizioni socialiste radicali.
Corbyn è apparso nella prima fase come un leader incapace, particolarmente inefficace nei dibattiti parlamentari in qualità di capo dell’opposizione. Sembrava aver condannato i laburisti alla marginalizzazione, movimento estremista di protesta ineleggibile alla guida del Paese. E i sondaggi disastrosi confortavano questa tesi. La performance peggiore è arrivata l’anno scorso in occasione del referendum sulla Brexit, quando Corbyn non ha voluto (o potuto) prendere una posizione chiara: e l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue è probabilmente una sua responsabilità. Ma quando poi i deputati esasperati hanno provato a disarcionarlo in autunno, la base dei militanti lo ha ricondotto trionfalmente alla guida del partito.
Perché in realtà è ormai il gruppo parlamentare che sembra scollegato dal Paese reale, o almeno da quella parte che si riconosce nei laburisti. Che non ne può più delle politiche di austerità imposte dai conservatori dopo la crisi finanziaria e reclama una svolta in senso sociale.
Per questo il manifesto elettorale di Corbyn, paragonato dai commentatori alla «lunga nota di suicidio» di Michael Foot del 1983, che portò a una disastrosa sconfitta, ha incontrato invece il favore di ampie fette dell’elettorato. Che a differenza della City vuole i servizi essenziali in mano pubblica, più spese per la sanità, misure a favore degli anziani e dei giovani.
Corbyn sarà debole nei corridoi di Westminster, ma è nel suo elemento quando è in campagna elettorale. I suoi comizi sono un successo ed è riuscito a mobilitare in particolare le donne e gli studenti, promettendo tra l’altro l’abolizione delle rette universitarie. Lo ha aiutato anche la figuraccia dei conservatori, che si sono dovuti rimangiare uno dei punti chiave del loro programma, che minacciava gli anziani di dover vendere la casa per pagarsi l’assistenza. E il ritornello di Theresa May sulla «leadership forte e stabile» comincia ormai a suonare come un disco rotto.
Resta da vedere quanto la rimonta certificata dai sondaggisti si concretizzerà l’8 giugno nelle urne. Ma certamente i moderati del partito che speravano segretamente in una sonora sconfitta per liberarsi di Corbyn dovranno ricredersi: se il Labour andrà al 35-36 per cento, ossia molto oltre il 30 delle elezioni del 2015, Corbyn non avrà alcuna ragione per dimettersi. E se continuerà la sua volata, l’Inghilterra potrebbe vedere le sue stazzonate giacchette di tweed appese all’attaccapanni del numero 10 di Downing Street.

Corriere 30.5.17
Intervista a Noam Chomsky
«È giusto cercare un canale con Mosca Il vero problema per Trump è il clima»
Il linguista guru della controcultura americana: «L’autonomia dell’Europa dagli Usa? Può essere una strada. Più urgente è il tema dell’atomica e della fine della deterrenza»
di Viviana Mazza

«Il G7 non è nella posizione di prendere decisioni importanti. Bisogna parlare con la Russia e ridurre le provocazioni che rischiano di portare a un’escalation». Noam Chomsky, il filosofo della controcultura americana, padre della linguistica moderna e anarchico irriverente, ci parla al telefono dal Massachusetts Institute of Technology, con il tono basso e pacato del vecchio professore, acceso ogni tanto da lampi di indignazione. Si può dire che l’intellettuale 88enne — punto di riferimento per la sinistra anti-imperialista e anti-capitalista — avesse previsto le recenti parole di sfiducia di Angela Merkel nei confronti dell’America di Trump. «C’è sempre stata una potenziale spaccatura tra Stati Uniti ed Europa — disse alla vigilia della guerra in Iraq del 2003 —. L’Europa ha sempre avuto la possibilità di muoversi in una direzione più indipendente negli affari internazionali. Ha prevalso l’idea di seguire la linea Usa, ma non è necessariamente una scelta permanente. L’America ha tentato di evitare che gli interessi franco-tedeschi portino l’Ue su una strada autono-ma». Pur notando oggi una distanza crescente tra Stati Uniti ed Europa, Chomsky riflette sulle cose che a suo parere accomunano le due sponde dell’Atlantico: il populismo e il declino della democrazia.
Nel libro «Chi sono i padroni del mondo» (Ponte alle Grazie) lei spiega che il declino del potere statunitense fa sì che oggi Washington condivida il governo del mondo con i Paesi del G7. Il summit di Taormina si è appena concluso con scarsi risultati: si aspettava di più dai Sette Grandi?
«Non mi aspetto molto da loro: il G7 non è nella posizione di prendere decisioni importanti. Gli Stati Uniti si sono allontanati dagli altri su troppe questioni. La più significativa: i cambiamenti climatici, che sono il problema più grave oggi, con effetti catastrofici. Saremmo ancora in tempo per affrontarlo, ma gli Usa, soli al mondo, rifiutano di rispettare le regole e gli impegni. Tutti stanno facendo qualcosa, eppure il Paese più ricco e più potente, leader del mondo libero, non solo oppone resistenza ma ostacola gli sforzi altrui. Il problema non è solo Trump. La leadership repubblicana nega i cambiamenti climatici. Il Congresso Usa si è schierato contro i negoziati di Parigi sul clima. Nella Carolina del Nord è stato condotto uno studio che verificava il grave impatto sul livello delle acque: ma anziché correre ai ripari, la reazione è stata di approvare una legge che vieta ogni ricerca sui cambiamenti climatici. Obama ha preso alcune iniziative, ma ora assistiamo a una nuova corsa all’uso di carburanti fossili».
La questione del clima, in questo momento, è oscurata dal «Russiagate». Quanto è grave ai suoi occhi lo scandalo dei rapporti tra lo staff di Trump e Mosca?
«Io penso che sia un problema minore. Si parla di uno scambio di informazioni confidenziali, vedremo cosa emerge. In linea di principio non c’è niente di male nel tentare di stabilire rapporti con la Russia, anzi è un approccio sostanzialmente corretto».
Lei crede che ci sia margine per un dialogo con il presidente russo, Vladimir Putin?
«Perché no? Bisogna partire dai temi che contano e ridurre le provocazioni. Quel che sta succedendo al confine con la Russia è il risultato dell’espansione della Nato: è scandaloso che nel 2008 Obama e Clinton abbiano offerto all’Ucraina di diventare membro dell’Alleanza Atlantica; è come se il Messico avesse tentato di aderire al Patto di Varsavia. Ed è la ragione per cui i russi agiscono in modo provocatorio al confine con i Paesi Baltici: la situazione può esplodere in ogni momento, basta che un aereo russo ne colpisca un altro per errore per innescare un’escalation che potrebbe scaturire in un conflitto. L’altro tema urgente è quello delle armi nucleari: Obama ha sviluppato — e Trump sta portando avanti — un programma di modernizzazione del nostro arsenale che rende possibile annientare l’intero deterrente russo con un “first strike”. Questo mina la stabilità, perché salta la logica della deterrenza reciproca. Consapevoli delle potenzialità americane, i russi in un momento di crisi potrebbero essere tentati di colpire per primi, assicurando la distruzione reciproca. È così che riduciamo la tensione?»
Oggi si dice che la più grande minaccia alla sicurezza Usa sia la Corea del Nord ...
«E si ipotizzano nuove sanzioni e azioni militari, ma non si parla del fatto che Pyongyang aveva proposto di congelare il programma missilistico e nucleare in cambio della sospensione delle manovre militari Usa nella regione. Obama ha rifiutato. Perché non imparare la lezione dall’Iran? Anche Trump oggi riconosce che Teheran sta rispettando l’accordo nucleare».
Come spiega l’ascesa del populismo in Occidente?
«Innanzitutto, che cos’è il populismo? Oggi questo termine viene usato in modo molto strano, per indicare il sentimento di rabbia, disillusione, disprezzo per le istituzioni che si è diffuso in tutto il mondo occidentale. Lo abbiamo visto nelle elezioni francesi con l’ascesa del movimento di Le Pen, vicino al fascismo, e la vittoria di Macron, un outsider rispetto ai partiti politici. Negli Stati Uniti i due principali candidati erano Sanders e Trump, e se non fosse stato per gli imbrogli del partito democratico, avrebbe vinto Sanders. Questi stessi movimenti anti-establishment hanno portato alla Brexit. Perché si sviluppano? Quello che accomuna le diverse realtà sono le politiche neoliberiste della passata generazione, quella che in Europa chiamate “austerity”. I risultati sono stati la stagnazione, la perdita di posti di lavoro, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi».
Lei definì l’Ue una delle realtà più promettenti del secondo dopoguerra, ora parla di declino della democrazia anche in Europa.
«L’Unione Europea vacilla a causa degli effetti nefasti delle politiche di rigore. Una conseguenza è l’indebolimento della stessa democrazia: le decisioni vengono prese lontano dal popolo, dai burocrati di Bruxelles e dalla troika, che ascoltano le banche tedesche e francesi».
Perché la rabbia sfocia nel populismo e non in attivismo politico?
«Negli Stati Uniti, le ricerche mostrano che la maggioranza della popolazione non ha alcun modo di influenzare la politica. La gente arrabbiata vorrebbe più tasse per i ricchi, ma i populisti trovano un capro espiatorio: gli immigrati, i neri, i musulmani. Anziché concentrarsi sulle vere fonti del disagio, il popolo vota per i propri nemici. Questo sta succedendo in tutto l’Occidente».

Corriere 30.5.16
rump e i palazzi vuoti nel viale della politica
di Sergio Romano

Anche nelle metropoli moderne, come nelle città medioevali, le persone che fanno lo stesso mestiere tendono a raggrupparsi nella stessa strada o nello stesso quartiere. Mentre a Milano esiste un quadrilatero della moda e a Londra un quartiere delle banche, a Washington, capitale degli Stati Uniti, esiste un Viale della politica internazionale. È la Massachusetts Avenue, una larga strada che taglia diagonalmente la città. Qui, o nelle immediate vicinanze, vi sono quaranta ambasciate. Tutte hanno un pennone su cui sventola la bandiera nazionale e molte esibiscono, come insegna, il busto bronzeo o marmoreo del loro padre fondatore: Masaryk per la Repubblica Ceca, Gandhi per l’India, O’Higgins per il Cile e così via. Le rappresentanze degli Stati più giovani, nati dalla disintegrazione della Unione Sovietica e della Repubblica Jugoslava, sono state verosimilmente attratte dalla presenza nel Viale di un numero considerevole di istituti accademici e culturali, noti in America come brain trust: la Heritage Foundation, tradizionalista e conservatrice; il Centro Islamico, composto da un istituto culturale e da una moschea, nato dopo la Seconda guerra mondiale per iniziativa del governo egiziano; l’Istituto Catone, una associazione libertaria che è stata molto critica della presidenza Bush, ma anche di quella di Barack Obama, e trae il suo nome dallo pseudonimo di un saggista anglo-irlandese fra il Seicento e il Settecento; la Scuola Paul Nitze per gli Studi internazionali avanzati, intitolata dalla Università Johns Hopkins al nome di un celebre diplomatico che le donò i suoi archivi; la Brookings Institution, casa madre del pensiero liberale; il Carnegie Endowment for International peace, una delle più antiche fra le istituzioni pacifiste del secolo scorso; l’American Enterprise Institute, vivaio di intellettuali neoconservatori.
James Mann, uno dei maggiori esperti di affari cinesi e oggi professore alla «Paul Nitze», mi ricorda che queste istituzioni sono state per molti anni il serbatoio intellettuale della Casa Bianca, il luogo dove il nuovo presidente, democratico o repubblicano, andava a pescare i suoi collabori all’inizio del mandato. A ogni cambiamento di presidenza, quindi, Massachusetts Avenue assisteva a una sorta di trasloco collettivo incrociato. Quando il presidente uscente era democratico, gli intellettuali democratici tornavano nel grande viale per impartire lezioni e scrivere libri; e quando il presidente entrante era repubblicano, i loro posti venivano presi dagli intellettuali di Massachusetts Avenue che simpatizzavano per il suo partito. I traslochi nei due sensi erano sempre numerosi perché il presidente degli Stati Uniti, all’inizio del suo mandato, ha il diritto di chiamare al servizio dello Stato, con nomine discrezionali, circa 4000 funzionari e magistrati.
Non tutti i nuovi presidenti sono solleciti (Jack Kennedy e Bill Clinton procedettero molto lentamente), ma il primato della lentezza sarà indubbiamente vinto da Donald Trump. I traslochi di Massachusetts Avenue, in questo momento, sono alquanto rari e gli sterminati corridoi dell’Executive Office Building (il palazzo dei ministeri) sono pressoché vuoti. Alla fine dei primi cento giorni della sua presidenza (una data convenzionale usata per far i primi bilanci), Trump aveva riempito soltanto 50 delle 553 caselle indispensabili per le posizioni dirigenti del solo potere esecutivo. Un secondo bilancio, fatto il 20 maggio, non è più incoraggiante. Trump continua a nominare con grande lentezza e la questione è ulteriormente complicata dal fatto che parecchie nomine (557) richiedono la conferma del Senato Al 20 maggio le persone nominate erano soltanto 56 e quelle confermate 34. Mancano ancora dozzine di ambasciatori, e un numero particolarmente elevato di quelli che noi chiameremmo vice-ministri, sottosegretari, segretari generali e direttori generali.
Dietro queste cifre vi è un «problema Trump» che non è facilmente risolvibile. Il nuovo presidente non è un uomo politico. Ha passato una buona parte della sua esistenza, sino alla campagna presidenziale dell’anno scorso, fabbricando e vendendo lusso e svago: grandi condomíni, alberghi, casinò, campi da golf, gare di mondanità e di bellezza. Quando ha voluto soddisfare il suo narcisismo e misurare la sua capacità di attrarre e sedurre, lo ha fatto con un programma televisivo in cui recitava la parte del giudice che premia il successo e condanna inesorabilmente l’insuccesso. Per fare e aumentare la sua fortuna Trump si è mosso, sin dalle sue prime iniziative, nel mondo di coloro di cui aveva bisogno: sensali d’affari, avvocati specializzati in divorzi e bancarotte, investitori, pubblicitari, procacciatori di licenze edilizie, impresari di spettacolo, modelle di successo. Non sorprende che, dopo una vita trascorsa in questi ambienti, un presidente settantenne (il più vecchio di coloro che hanno varcato la soglia della Casa Bianca), poco incline allo studio e con una capacità di concentrazione che non supererebbe i 30 secondi, sia privo dei collaboratori a cui può ricorrere un uomo politico cresciuto fra elezioni, congressi e seminari di partito.
Gli Stati Uniti, in questa situazione, rischiano di non avere un’amministrazione all’altezza delle loro responsabilità e dimensioni. Kissinger disse un giorno ironicamente che se avesse voluto parlare con l’Europa non avrebbe saputo a chi telefonare. Con chi dovremo parlare quando avremo bisogno di parlare con l’America?

Corriere 30.5.17
Europa, il nodo islamico
Una distanza difficile da colmare tra la visione laica dello Stato e i dettami della legge coranica
di Caterina Resta

Le questioni sollevate da Caterina Resta rappresentano in maniera esemplare una posizione assai diffusa nella cultura come nel senso comune italiani (e non solo). Che si segnala innanzi tutto per un fatto curioso. E cioè che spesso proprio coloro che teorizzano una cultura della differenza o dell’alterità non tengono conto del principio logico ineludibile secondo il quale non può esistere alcuna nozione di differenza, o di alterità, senza una corrispettiva nozione di identità. Solo se sono qualcosa posso rapportarmi all’altro distinguendomi da esso. Per pensare il Due o i Molti, non è forse necessario che essi siano intesi in quanto tali? E dunque definiti in base alla differenza di che cosa, se non delle loro rispettive identità?
Ciò vale soprattutto per l’Europa, perché da sempre — da quando ha senso parlarne come un insieme unitario — essa si costituisce intorno al principio di distinzione rispetto alla sua originaria unità con l’Asia: il «nodo di Gordio», come lo ha definito Ernst Jünger, che dalla Ionia ha continuato per secoli a legare Oriente e Occidente. Certo, chi potrebbe mai sottovalutare gli apporti della tradizione araba nella matematica, nell’arte, nella scienza, nella filosofia occidentale? Platonismo e aristotelismo sono letteralmente inconcepibili fuori dagli apporti, dagli innesti, dalle contaminazioni con la filosofia araba. La nostra conoscenza di Platone e Aristotele viene anche da lì, così come l’opera, e la vita stessa di Averroè costituiscono il primo annuncio di quella che sarà cinque secoli dopo la battaglia dell’Illuminismo.
Ma la storiografia ha il dovere di non perdere la misura: nella quantità e nella qualità. E allora dobbiamo pur ricordare, per esempio, che la nostra conoscenza dell’umano, della sua irriducibile ambiguità, dei misteriosi labirinti di ogni sentimento e di ogni coscienza, cioè una parte essenziale dell’identità europea, ha un debito essenziale con un versante della cultura greca — la tragedia e la poesia — di cui neppure una riga, però, la cultura islamica si degnò mai di trasmettere o di elaborare, giudicandole evidentemente alla stregua di insignificanti bellurie. E ancora: si può davvero dire che l’apporto arabo sia il cuore dell’Occidente quanto, mettiamo, il logos greco e il diritto romano? O che la teologia islamica abbia pesato in Europa quanto quella ebraica e cristiana? Certo, in Dante c’è un potente elemento averroistico. Ma è forse la nota dominante della Commedia ? Ci permettiamo di dubitarne. Come si fa dunque a mettere sullo stesso piano misure e intensità così diverse?
Il principio della coesistenza dei distinti è il significato stesso della Trinità cristiana, di cui nel pensiero coranico non è traccia. E non a caso l’intera cultura occidentale — da Hölderlin a Nietzsche — lavora sulla compresenza degli opposti. Del cosmo e del caos, della forma e dell’informe, del limite e dell’illimite.
La storia, la filosofia, la politica dell’Europa nascono per l’appunto dal senso del limite, dal distacco dall’illimite, dalla consapevolezza che solo dalla determinazione nasce il senso. E anche la possibilità della vita civile: il limite è soprattutto il principio del politico. Non necessariamente nel senso del conflitto — tantomeno dello «scontro di civiltà». Ma in quello della distinzione. Da Machiavelli a Montesquieu la grande cultura politica europea ha riconosciuto la necessità della distinzione tra potere, sapere e legge, tra teologia, morale e politica. Questo — che poi altro non è che la creazione dello Stato laico e l’idea di democrazia politica — è quanto continua a separarci dalla teocrazia islamica. E non solo da quella, come si dice, «radicale», ma anche da quella «moderata».
Nella tesi che per l’identità dell’Europa sarebbe stata «fondamentale» la radice islamica, come scrive la nostra interlocutrice, c’è una forzatura ideologica estrema che non giova né alla storia né alla filosofia. Una forzatura, ciò che non è meno importante, la quale allontana dalla realtà vera delle cose, dal momento che si fonda su un’esagerata — e per certi versi ci permettiamo di dire ingenua — sopravvalutazione dell’incidenza dei materiali «nobili», intellettualmente «alti», nella formazione di quella cosa assai complessa che è l’identità storico-culturale. Che invece si costruisce per mille tramiti, e dunque utilizzando anche materiali «bassi»: primo fra tutti la memoria. Cioè appunto la storia.
Che quasi sempre sfugge a rassicuranti visioni di idilliaca convivenza. L’occupazione araba per mezzo millennio di buona parte della penisola iberica; il lungo e sanguinoso scontro di Venezia con il Turco nel Levante mediterraneo; le scorrerie saracene e barbaresche durate fino all’inizio dell’Ottocento sulle coste italiane a caccia di donne, uomini e bottino; l’occupazione ottomana, anche questa semimillenaria, di tanta parte dei Balcani, con la dura oppressione delle popolazioni cristiane costrette ogni anno a vedersi portare via una parte dei propri figli destinati ad essere convertiti all’Islam ed educati a Istanbul come guardie del sultano: siamo tentati di credere che forse tutto questo ha contato qualcosa. E proietta le sue ombre lunghe fino all’oggi. Siamo tentati di credere che l’epopea del Cid Campeador o quanto accadde tanto tempo fa sulla Piana dei Merli e a Otranto, o l’arrivo dei polacchi in soccorso di Vienna assediata, siamo tentati di credere che questo ammasso di memorie antiche abbiano avuto un peso non da poco nel plasmare il modo d’essere e di pensare di molti popoli europei. Che esse siano capaci di suscitare ancora oggi echi profondi nel loro animo.
L’identità è per l’appunto anche questo. E si rassicuri la nostra interlocutrice: nessuno intende cancellare le testimonianze della presenza araba nella sua Sicilia, così come non è scritto da nessuna parte che l’identità e le memorie che la nutrono debbano necessariamente sfociare in qualche «guerra di civiltà». Proprio dando a ciascuno il suo la storia pacifica; e semmai è precisamente quando si cerca di dimenticarla, sia pure con le migliori intenzioni, che se ne favorisce invece la rivendicazione distorta e aggressiva.

Repubblica 30.5.17
L’uguaglianza delle opportunità si esprime anche nella possibilità di condurre una vita sana. Ma non è sempre così. Se ne discute da giovedì a Trento
Festival dell’Economia
La salute non è uguale per tutti
di Federico Rampini

La salute disuguale, tema del Festival dell’Economia quest’anno, sembra la perfetta definizione del sistema sanitario americano. Tra riforme e contro-riforme, è il peggiore fra tutti i Paesi avanzati. Cara per tutti, ingiusta coi meno abbienti, burocratica e farraginosa: la sanità Usa è la dimostrazione che il privato non è necessariamente più efficiente del pubblico. Anzi, la sedimentazione di rendite oligopolistiche e centri di profitto privati, la moltiplicazione di angherìe amministrative, gli abusi di potere, le vessazioni, rendono il sistema Usa un formidabile deterrente contro le tentazioni di privatizzare i sistemi della Vecchia Europa. E tuttavia nel tema che tratterò il 4 giugno a Trento c’è una sfida aggiuntiva: capire perché tanta classe operaia bianca ha votato per Donald Trump, che prometteva (e sta cercando di realizzare) un sistema ancora più privatizzato, costoso e ingiusto.
«Abbiamo realizzato ciò che nessun politico e nessun partito riuscì a fare per un secolo: 20 milioni di americani che non avevano assistenza sanitaria ora ce l’hanno; sono finite le discriminazioni contro i malati». Nell’ultimo messaggio di Barack Obama alla nazione ci fu questa rivendicazione orgogliosa della sua riforma sanitaria. Poco dopo arrivò il tweet di Donald Trump: “Obamacare è un disastro, assistenza scadente, il costo delle assicurazioni è salito fino al 116% in Arizona”. In un certo senso avevano ragione tutti e due. Lo stesso presidente uscente in un bilancio sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine riconosceva i problemi che lui lasciò irrisolti: “La mancanza di alternative sufficienti in alcuni Stati; le tariffe assicurative ancora inaccessibili per certe famiglie; i medicinali troppo cari”. È un elenco attendibile dei tanti difetti della sua riforma. Per gli europei abituati ai sistemi sanitari nazionali, con un minimo di prestazioni pubbliche e universali, il regime americano è incomprensibile. Obamacare non lo ha né rivoluzionato né semplificato. Quella degli Stati Uniti rimane una sanità prevalentemente privata, dalle assicurazioni agli ospedali. Fanno eccezione due sistemi: Medicare fornisce assistenza a carico dello Stato a 50 milioni di anziani sopra i 65 anni di età (ma usando assicurazioni private come erogatrici di prestazioni); Medicaid dà cure mediche pubbliche ai cittadini più poveri.
Cosa cambiò la riforma di Obama? Avere un’assicurazione divenne obbligatorio. Questo ha creato un onere per le piccole imprese che non includevano la polizza sanitaria nel pacchetto retributivo; oppure per i singoli cittadini che siano lavoratori autonomi, liberi professionisti, freelance, precari. Questi ultimi ricevono sussidi pubblici se il loro reddito è basso. Obamacare vietò alle assicurazioni una consuetudine diffusa quanto odiosa: il rifiuto di vendere polizze a chi era già stato ammalato. Infine si è allungata a 26 anni l’età fino alla quale si possono tenere i figli a carico della polizza familiare.
I miglioramenti sono reali, anche se i costi sono in parte scaricati sui cittadini o sulle imprese. Non è cambiato il difetto più grave: i costi fuori controllo. Il vizio d’origine non venne affrontato con l’istituzione del Medicare nel 1966 sotto la presidenza di Lyndon Johnson. Già allora la lobby di Big Pharma era così potente che lo Stato si privò del suo potere maggiore: contrattare i costi dei medicinali con le case farmaceutiche. Lo stesso difetto è rimasto con Obamacare. Non c’è nella legge un’arma contro i comportamenti predatori dell’industria farmaceutica, al punto che gli stessi medicinali made in Usa talvolta costano meno in Europa. Le autorità pubbliche degli Stati Uniti non hanno potere su nessuno degli altri attori privati: né le assicurazioni, né la classe medica né gli ospedali privati. Il sistema si avvita in un’iperinflazione, le tariffe assicurative 2016 in media sono salite del 25 per cento. Gli Stati Uniti in percentuale sul Pil spendono quasi il doppio dei Paesi europei e del Giappone, eppure gli indicatori di salute della popolazione sono peggiori. Unici a non accorgersene sono i dipendenti delle grandi aziende, che hanno buone polizze in busta paga: le pagano senza saperlo, con un prelievo dal salario lordo. La battaglia dei repubblicani per smantellare Obamacare è a metà strada, la contro-riforma è stata votata alla Camera ma non ancora al Senato.
Il Trump-care peggiora tutto, offre ancora più discrezionalità alle compagnie assicurative, toglie il “minimo garantito” delle prestazioni nelle polizze, abolisce quasi tutti i sussidi alle famiglie meno abbienti. Promette un ritorno a una giungla ancora più feroce. Nel Paese più ricco del mondo, oggi si muore più giovani di vent’anni fa, diversi indici della salute sono in regresso, le cure mediche sono un privilegio costoso. Eppure quegli operai bianchi che si sentono come degli “estranei in casa propria”, identificano ogni forma di Welfare pubblico con un trasferimento di risorse agli immigrati. Lo Stato, per loro, aiuta tutte le minoranze fuorché la middle class bianca che scivola verso la povertà.

Repubblica 30.5.17
La grande sfida per una società più giusta
di Tito Boeri

Da dodici anni il Festival dell’Economia di Trento si discute di disuguaglianze. Nelle scorse edizioni si è parlato soprattutto di ricchezza e povertà, di distribuzione del reddito, mentre le disuguaglianze nelle condizioni di salute sono rimaste relativamente in secondo piano. Eppure i divari nei tassi di morbilità e longevità non sono meno rilevanti di quelli nei livelli di reddito nel condizionare il benessere delle famiglie. L’attenzione ai problemi sociali sul territorio è un tutt’uno con la tutela della salute. Negli ultimi 15 anni c’è stata una strage di giovani e di bianchi di mezza età nelle zone rurali degli Stati Uniti: due milioni di morti per uso di droghe, abuso di alcool e suicidi. Le contee della disperazione in cui questo fenomeno è concentrato sono le stesse in cui Trump è riuscito a fare la differenza non solo rispetto a Hillary Clinton, ma anche a Mitt Romney nelle elezioni del 2012.
In Italia ci sono forti differenze nella speranza di vita e nei tassi di mortalità infantile fra regioni nonostante il servizio sanitario nazionale garantisca un finanziamento uniforme della spesa sanitaria su tutto il territorio. In queste differenze pesa il contesto, il livello di reddito medio (più di quello individuale), l’incidenza della povertà, la diffusione della cultura della prevenzione, oltre che il livello medio di istruzione. In Campania quasi il 50% dei bambini fra gli 8 e i 9 anni sono sovrappeso o obesi, il doppio che in Lombardia, quasi tre volte di più che a Bolzano, e nel Mezzogiorno la mortalità infantile è del 30% più alta che al Nord.
Seppur in modo assai più indiretto, anche altre discipline possono contribuire a salvare e allungare vite. L’economia, in particolare, può aiutare a ridurre disuguaglianze nella longevità contribuendo a contenere la povertà, la marginalità o, più direttamente, a migliorare l’organizzazione dell’assistenza sanitaria.
Il Festival dell’Economia, fin dalla sua prima edizione, è stato anche un evento volto a divulgare un metodo scientifico. In Italia c’è una scarsa considerazione per la ricerca scientifica. La diffidenza regna sovrana anche rispetto alla ricerca medica. Storicamente il nostro Paese è intervenuto in ritardo nell’introdurre i vaccini. I dieci anni di ritardo rispetto agli altri Paesi europei con cui abbiamo adottato l’antipolio obbligatoria, ad esempio, hanno condannato decine di migliaia di italiani a contrarre una grave malattia che poteva benissimo essere loro evitata. Non vorremmo che questo errore si ripetesse nel Nuovo Millennio.
Le opportunità di dialogo offerte dal Festival possono offrire non solo al pubblico, ma anche agli stessi relatori materiale di lavoro ed essere fonte di ispirazione per nuove ricerche. Anche questa edizione del Festival ambisce a lasciare tracce nel confronto pubblico e nel lavoro di chi ne è stato protagonista.

Repubblica 30.5.17
Farmaci: perché i costi crescono
Il mercato nelle mani di Big Pharma

Che cosa provoca il costo sempre più elevato dei farmaci e delle cure mediche in generale, una delle maggiori cause delle crescenti disuguaglianze? In “La salute, ad ogni costo?” (venerdì 2, ore 11, Sala Filarmonica) Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Unità Operativa di Nefrologia e Dialisi dell’Humanitas di Bergamo, confronta il sistema sanitario italiano con quello americano pubblico e privato. Il 4 giugno alle 10 a Palazzo Geremia nel corso di “Inet Lecture - Il modello di business del Big Pharma” William Lazonick, Professor of Economics alla University of Massachussetts Lowell, spiega invece dove vengono realmente investiti gli alti profitti delle grandi case farmaceutiche che controllano il mercato: secondo le case stesse servirebbero a finanziare la ricerca con lo scopo di salvare vite umane, mentre in realtà vengono utilizzati per acquistare azioni delle stesse società. L’accesso ai farmaci diventa così un privilegio di pochi e al tempo stesso la ricerca viene rallentata.

Repubblica 30.5.17
Sostenere i Paesi in via di sviluppo
Gino Strada: “Cure gratis e di alta qualità”

Isistemi di assistenza sanitaria efficienti quasi sempre mancano nei luoghi dove invece sarebbero più necessari, ovvero nei Paesi in via di sviluppo. Affronterà l’argomento Michael Kremer, Gates Professor of Developing Societies del Department of Economics all’Harvard University, all’interno della conferenza “È giusto far pagare per la salute nei Paesi in via di sviluppo?” (2 giugno, ore 15, Palazzo Geremia). Kremer presenterà alcuni studi che dimostrano come anche tariffe sanitarie basse scoraggino la prevenzione nei Paesi poveri. Gino Strada, invece, il 2 giugno alle 21 al Teatro Sociale, sarà il protagonista dell’incontro “Medicina e diritti umani”, durante il quale spiegherà perché le cure, per essere efficaci, dovrebbero essere non solo di alta qualità, ma anche e soprattutto gratuite, ovvero davvero accessibili a tutti. Il diritto alla cura, infatti, è un diritto umano universale e non dovrebbe dipendere dal luogo di nascita, dalle condizioni sociali e dall’appartenenza politica.

Repubblica 30.5.17
Sostenere i Paesi in via di sviluppo
Gino Strada: “Cure gratis e di alta qualità”

Isistemi di assistenza sanitaria efficienti quasi sempre mancano nei luoghi dove invece sarebbero più necessari, ovvero nei Paesi in via di sviluppo. Affronterà l’argomento Michael Kremer, Gates Professor of Developing Societies del Department of Economics all’Harvard University, all’interno della conferenza “È giusto far pagare per la salute nei Paesi in via di sviluppo?” (2 giugno, ore 15, Palazzo Geremia). Kremer presenterà alcuni studi che dimostrano come anche tariffe sanitarie basse scoraggino la prevenzione nei Paesi poveri. Gino Strada, invece, il 2 giugno alle 21 al Teatro Sociale, sarà il protagonista dell’incontro “Medicina e diritti umani”, durante il quale spiegherà perché le cure, per essere efficaci, dovrebbero essere non solo di alta qualità, ma anche e soprattutto gratuite, ovvero davvero accessibili a tutti. Il diritto alla cura, infatti, è un diritto umano universale e non dovrebbe dipendere dal luogo di nascita, dalle condizioni sociali e dall’appartenenza politica.