Il Fatto 27.5.17
Metro C racconta: orti, canali, vigne (e qualche tomba)
di Antonello Caporale
I
nonni dei nonni dei nonni di Roma si davano da fare con le frecce per
cacciare mucche, capre e cervi, amavano l’orto, drenavano l’acqua,
costruivano canali, non gli bastava il grano, producevano legumi. 1410
avanti Cristo, insediamento del neolitico poggiato alla base del
parcheggio che fa da capolinea alla metro C in località Pantano, 18
chilometri di tratta, l’ultima fermata verso oltre le borgate della
cinta metropolitana, alle soglie dei Castelli.
Tra le tante rogne
che la nuova linea C ha dato a Roma almeno un tesoro ha restituito. Un
enorme, incredibile viaggio nel tempo attraverso i secoli. Giù e ancora
giù a seguire le tracce dell’uomo fin dove è stato possibile, fin quando
è comparso. Diciotto metri ci separano dal punto G dell’archeologia, 18
è la quota zero, la soglia dove si perdono i segni dell’umanità
comparsa, il fondo del fondo in cui le tracce della grandezza e
dell’identità di Roma paiono misurabili, intellegibili, processabili in
questo monumentale saliscendi dal contemporaneo al primitivo, lungo la
scala, non metaforica, del ritrovamento di ciò che siamo stati. Giungere
fino al piano terra dell’umanità non è soltanto una corsa all’ingiù, ma
è anche l’esibizione di una tecnica sopraffina, di una ricerca no
limits, di risorse economiche, finalmente si può dire, spese per
illuminare la nostra identità, ritrovare fin nei dettagli la nostra
memoria. Ciò che fummo.
Diciotto metri sotto il piano stradale è
il punto dove lo scavo scientifico si è fermato (quello tecnico ha
raggiunto i meno trenta), dove gli archeologi hanno finito le
escursioni, chiuso nelle teche vasi di cocci e noccioli di pesca, ceneri
funerarie, recintato e tutelato stanze militari e caserme, cave di tufo
e discariche millenarie.
“Un grande, avventuroso e felice viaggio
nel tempo” l’ha chiamato Rossella Rea, curatrice scientifica del
progetto. Le ruspe della metropolitana hanno seguito gli archeologi e
hanno avanzato solo quando la caccia al tesoro era conclusa, i segni
dell’uomo scomparsi. E hanno atteso, e l’attesa che pure è costata alla
città, alla fine è stata premiata. È stato rovesciato il metodo di
indagine, facendo aprire il varco agli archeologi, e sono state evitate
le pratiche distruttive con le quali purtroppo avanzò la linea A della
metropolitana…
La storia è memoria e bastano pochi scalini,
qualche decina di centimetri per giungere, nel piazzale di San Giovanni
alla fiaschetteria di sor Agostino che nell’Ottocento preparava la coda
alla vaccinara e le frattaglie romane. Menu ricco mi ci ficco e lo
traforo. Pigiare il meno cinque dell’ascensore, altri cinque metri ed
ecco, siamo nel Seicento, in perfetta traiettoria si ritrova l’osteria
madre, il trisavolo di sor Agostino, la taverna originaria.
Il
paesaggio era di alture e colline, con declivi utili ai vitigni e alla
coltivazione della frutta. I resti dei raccoglitori sono scomparsi ma un
fondo di un cesto di paglia, siamo al Primo secolo dopo Cristo, è
incredibilmente rimasto illeso. San Giovanni è la cinta daziaria, lì
sorgono aziende agricole che coltivano pesche, l’albero trovato in
Persia e che offrirà il frutto destinato alla tavola dei ricchi. A dieci
metri sotto la quota attuale i resti di un vivaio, persino le radici
degli alberi. Alcuni noccioli di pesco hanno attraversato i secoli e ora
sono disponibili nelle teche allineate lungo i tre piani della metro,
lo strabiliante museo che ogni giorno, dal prossimo ottobre, i romani
attraverseranno per giungere alle pensiline o tornare a casa dopo il
lavoro. Un grande orto, di proprietà delle grandi famiglie (i
latifondisti raggiungeranno anche Villa Armerina in Sicilia), resiste
nei pressi della pancia della Basilica, e nulla per fortuna ha potuto il
cemento contemporaneo. La storia millenaria si difende come fosse un
sottomarino che resiste a ogni incursione nemica. Poche centinaia di
metri e la fermata dell’Amba Aradam, ancora in fase di completamento,
custodisce sotto i suoi piedi (siamo al II secolo dopo Cristo) intatti
gli alloggi militari di una grandissima caserma, stanze larghe 4 metri e
altrettanto lunghe dove risiedevano i soldati. Un complesso edificato
strabiliante, una città d’armi imponente a completamento dell’area
militare che, tra l’età di Traiano e quella di Adriano, ricopriva tutto
il quartiere del Celio.
Il viaggio verso il nostro sud misura la
quantità enorme di energia che Roma ha dato al mondo. Ed è spettacolare
la cava di tufo e pozzolana che tra il Primo e il Terzo secolo dopo
Cristo alla stazione del Pigneto fu riempita per la costruzione della
grande Roma. Una discarica di 3700 metri quadrati a otto metri di
profondità, e appena prima – stazione Lodi – un’altra cava delle stesse
dimensioni. Svuotamenti e traghettamenti di materiale di risulta,
l’immenso movimento terra che la costruzione delle Mura Aureliane
provocherà. Ma è alla stazione di Teano che gli archeologi trovano un
campo coltivato. Un ettaro intero, forse grano, e qui siamo al
Quarto-Terzo secolo avanti Cristo.
Ma Roma è Roma e il primo
giallorosso, una parete dipinta con i colori della città, si scorge a
Centocelle. Progenitore del tifoso della curva, i suoi resti sono
custoditi in tombe con accluso corredo funerario.
Nel ventre
l’acqua di un ruscello che a sette metri e mezzo di profondità
attraversava l’area dove adesso sorge la stazione di Giglioli, e una
strada tra Ponte Mammolo e Boville, un basalto largo due metri e mezzo
corre molto al di sopra dei binari della metro a Giardinetti. Un maschio
particolarmente longevo, un cinquantenne, età irraggiungibile per la
stragrande maggioranza della popolazione e soprattutto per le donne che
perivano in età da parto (la setticemia era la causa scatenante) nato
tra il Terzo e il Quinto secolo avanti Cristo, chiuso in una tomba
perfettamente tenuta sotto la stazione di Torrenova.
La metro C
raggiunge il capolinea (Montecompatri-Pantano), e nel luogo più distante
dal centro l’insediamento più antico. A Pantano infatti il villaggio
del neolitico, capanne di indigeni autarchici. Gli indiani d’America di
Roma.
Così forti e organizzati da stabilizzare l’area, progettare
azioni di bonifica della palude, mettere in sicurezza le capanne con
canali di irrigazione, far fiorire la terra con grano e legumi.
Mangiavano carne, e con le frecce inseguivano capre, cervi o puntavano
alle mucche. E forse vivevano felici.