La Stampa 24.5.17
Bassetti è il nuovo presidente della Cei
Francesco designa il cardinale di Perugia, il più votato dai vescovi con 134 consensi
Gli altri due nomi inseriti nella terna portata a Santa Marta erano quelli di Brambilla (Novara) e Montenegro (Agrigento)
di Andrea Tornielli
Città del Vaticano
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La Stampa 24.5.17
Trump: staremo sempre a fianco di Israele
La giornata del presidente americano tra Betlemme, Gerusalemme e Roma
di Paolo Mastrolilli
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La Stampa 24.5.17
“Caro Duce, non dovremmo
fare questo agli ebrei”
Non solo Perlasca: furono molti i fascisti, anche semplici cittadini, che si prodigarono a proprio rischio per mettere in salvo i “nemici razziali”
di Amedeo Osti Guerrazzi
«Duce, non dovrebbe essere questo, non può succedere questo! È un brano di una lettera scritta da alcuni fascisti a Mussolini nell’autunno del 1943. È un appello disperato, è la richiesta perché una anziana ebrea sia liberata e salvata dalla deportazione verso i campi di sterminio. Può sembrare pazzesco, ma si tratta di un documento autentico, che racconta una storia poco conosciuta, quella dei fascisti che salvavano gli ebrei.
Nell’autunno del 1943 migliaia di ebrei italiani sono in fuga. Con la grande razzia romana del 16 ottobre 1943 (1022 deportati ad Auschwitz), la caccia ai nemici razziali del Terzo Reich è ufficialmente iniziata anche in Italia. Nei mesi successivi, la Repubblica Sociale di Mussolini darà la sua piena collaborazione alle razzie. Tutto semplice, apparentemente, per i tedeschi. Con le autorità di Salò che si sono assunte la gran parte del lavoro sporco degli arresti, i fascisti sembrano essersi perfettamente allineati alla politica di sterminio voluta da Hitler. Ogni fascista, ogni probo cittadino della Repubblica, quindi, dovrebbe partecipare alla «caccia all’ebreo», o almeno denunciare alle autorità questi nemici della Patria, soprattutto in un momento critico come quello della guerra.
Lo Schindler italiano
Ma la storia non è mai semplice e lineare. Non sono pochi i fascisti che, invece di denunciare gli ebrei, decidono che l’antisemitismo è una aberrazione, che la deportazione di intere famiglie verso i campi di sterminio è un crimine orrendo, che quei «nemici della Patria» devono essere aiutati. Sono fascisti, o almeno lo sono stati, ma questa storia è troppo orrenda per obbedire agli ordini del Duce.
Il caso di Giorgio Perlasca, l’italiano che nel 1944 si finse console spagnolo a Budapest e salvò migliaia di ebrei ungheresi dalla deportazione, è sicuramente il caso più noto di un «Giusto fra le nazioni» fascista. Un fascista, cioè, che mise da parte ogni convinzione ideologica e, rischiando di persona, decise di comportarsi come la sua coscienza di persona perbene gli imponeva. Il caso Perlasca, grazie soprattutto al libro di Enrico Deaglio La banalità del bene (Feltrinelli 1991), e alla successiva fiction televisiva, è diventato giustamente famoso all’inizio di questo secolo, ma non è stato il solo. Furono più di quanti non si pensi quei fascisti che, come Perlasca, decisero di mettere a repentaglio la propria libertà e la propria vita per salvare dalle razzie naziste gli ebrei in fuga.
Uno di questi è il conte Vaselli, un grande imprenditore edile romano che con il fascismo aveva fatto fortuna. Un uomo di fiducia per il regime. Sono passati solo pochi giorni dalla grande razzia del 16 ottobre, e migliaia di ebrei romani sono disperatamente alla ricerca di un rifugio. Alcuni lo trovano nei conventi, altri presso amici cattolici, ma molti non hanno questa fortuna. Soprattutto i maschi sono difficili da nascondere, specialmente quelli in età militare. Sono molto pochi coloro che se la sentono di dargli un rifugio.
Anche Vaselli potrebbe serenamente continuare a fare affari con i nazifascisti e ignorare i loro crimini, ma non lo fa. In via delle Zoccolette, nel pieno centro di Roma, la sua ditta sta costruendo un grande condominio. Vaselli si mette d’accordo con un ex ufficiale del carabinieri, il capitano Jurgens, per nascondere in quell’edificio ancora disabitato una cinquantina di ebrei. Vaselli ci mette lo stabile, cibo e coperte, mentre Jurgens ha il compito di organizzare la vigilanza, con alcune vedette che, ufficialmente, sono state assunte dall’impresa del conte come guardiani notturni.
Il conte se la cava
Tutta l’organizzazione viene smantellata dalla polizia italiana nel gennaio del 1944. Vaselli, interrogato in questura, è costretto ad ammettere di sapere della presenza di persone nel suo stabile, ma si difende dicendo di aver voluto ignorarli per motivi «umanitari». È una dichiarazione palesemente falsa, come testimoniato nel dopoguerra da una famiglia di ebrei che ha trovato rifugio nello stabile di via delle Zoccolette, ma necessaria per evitare di finire nelle galere naziste. Grazie anche alla evidente complicità dei poliziotti italiani, che fingono di credere alle scuse di Vaselli, il conte se la cava, e con lui anche alcuni dei «suoi» ebrei.
Un altro caso è quello di Vittorio Tredici, ex segretario federale del Pnf a Cagliari che, sempre a Roma, nasconde una famiglia ebrea per tutto il periodo dell’occupazione. Sottoposto al procedimento di epurazione, nel dopoguerra, Vittorio Tredici esibisce davanti ai giudici la testimonianza di Rodolfo Funaro, il quale testimonia che: «particolarmente durante una irruzione nella propria abitazione da parte delle SS tedesche fummo ricoverati presso l’abitazione del sig. Tredici, che in tal modo espose sé stesso e la propria famiglia al pericolo gravissimo delle rappresaglie dei militi che si trovavano nello stesso caseggiato». Vittorio Tredici, nel 1997, è stato insignito della medaglia di «Giusto fra le nazioni» dello Stato d’Israele.
Raffaele Paolucci, un ex deputato fascista, non ha avuto invece alcun riconoscimento, eppure anche lui si oppose alle deportazioni rischiando di persona. Era un chirurgo, e nella sua clinica privata, durante l’occupazione di Roma, mise in salvo decine di persone, tra le quali almeno cinque ebrei.
Oltre a questi casi, particolarmente clamorosi, dalle carte d’archivio spuntano ogni tanto documenti davvero singolari, come lettere di fascisti che chiedono a Mussolini di intercedere in favore di ebrei deportati. In una di queste, firmata da un gruppo di fascisti di Alassio, si legge: «Una povera vecchia [ebrea] di 68 anni, senza figli, vedova e con disturbi al cuore, è stata arrestata dai Carabinieri Repubblicani di Alassio sin dal 7 dicembre 1943 e messa in carcere ad Albenga». Dopo aver lungamente sottolineato le benemerenze fasciste della signora, la lettera conclude «Duce, non dovrebbe essere questo, non può succedere questo!».
Senso di giustizia
Ha dell’incredibile che nell’autunno del 1943, in piena occupazione tedesca, dei fascisti firmino una lettera di questo genere, così come sembra incredibile che tanti ebrei abbiano dovuto la loro salvezza a dei fascisti. Tuttavia, davanti a tanta sofferenza, all’enormità delle deportazioni degli ebrei dall’Italia, di cui moltissimi sapevano la fine, anche alcuni fascisti, per quanto ideologicamente convinti, trovarono il coraggio di opporsi. Un ventennio di dittatura, e anni di propaganda antisemita, non erano riusciti a cancellare il senso di giustizia di «uomini comuni», ma straordinariamente coraggiosi.
il manifesto 24.5.17
Trump offre il nulla ai palestinesi
Usa/Israele/Territori occupati. Il presidente americano ha soltanto espresso ottimismo ieri incontrando a Betlemme il presidente dell'Anp Abu Mazen. E ha evitato di fare riferimento allo Stato di Palestina e alla soluzione dei Due Stati. Prima di partire ha ribadito che gli Usa saranno sempre dalla parte di Israele
di Michele Giorgio
BETLEMME Funzionari della Casa Bianca ieri hanno mantenuto il presidente americano Donald Trump aggiornato in tempo reale sugli sviluppi dell’attentato a Manchester rivendicato dallo Stato islamico. Chissà se gli hanno riferito anche degli spari dei soldati israeliani che hanno ferito gravemente a Silwad (Ramallah) la 17enne Tuqua Hammad che lanciava sassi alle jeep militari. O dell’uccisione del 15enne Raed Radayda di Ubeidiya (Betlemme) che, secondo la versione ufficiale israeliana, lunedì ha tentato di pugnalare un soldato a un posto di blocco dell’Esercito. Ne dubitiamo. E in ogni caso sarebbe servito a ben poco con un presidente americano che, in quell’ora scarsa che ha passato a Betlemme, non ha fatto altro che ripetere frasi vuote di fronte a una popolazione già turbata dalle pressioni fatte dall’Autorità nazionale del presidente Abu Mazen volte a rimuovere, per l’arrivo di Trump, alcuni dei presidi allestiti a sostegno dei prigionieri palestinesi che da quasi 40 giorni fanno lo sciopero della fame nelle carceri israeliane. «Il presidente avrebbe dovuto rifiutare l’incontro con Trump e mettersi invece alla testa di manifestazioni contro gli Stati Uniti e Israele e in appoggio di nostri eroici prigionieri», ci diceva ieri Adel Hourani, uno delle centinaia di palestinesi di Betlemme che hanno manifestato contro la visita del presidente americano. A Gaza il Jihad islamico e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina hanno organizzato una marcia di protesta e bruciato poster con l’immagine di Trump.
Lo sciopero della fame dei detenuti politici resta il tema dominante in Cisgiordania, dove lunedì c’è stata una adesione massiccia allo sciopero generale proclamato da varie organizzazioni politiche palestinesi e ieri è stata proclamata una “Giornata di Rabbia”. Le condizioni di salute dei circa 1.700 detenuti che digiunano – dal 17 aprile su appello del leader di Fatah Marwan Barghouti – stanno peggiorando rapidamente. Due di loro, Mansour Fawaqa e Hafith Sharayaa, sono in condizioni critiche. Accusano perdita di coscienza, vomito, forti dolori oltre alla perdita di 15 chili di peso. Molti altri detenuti mostrano sintomi analoghi. In questo clima Donald Trump ieri ha mostrato un ottimismo fondato sul nulla, a Betlemme e al ritorno a Gerusalemme durante la visita al Memoriale dell’Olocausto (Yad Vashem) e al Museo d’Israele. Gli Stati Uniti, ha ripetuto, faranno tutto quanto è nelle loro disponibilità «per costruire il sogno di una pace possibile» tra Israele e Palestina. «Sono personalmente impegnato a cercare di raggiungere un accordo di pace tra israeliani e palestinesi – ha spiegato – e intendo fare tutto il possibile per raggiungere questo obiettivo…Il presidente Abu Mazen mi ha assicurato di essere pronto a lavorare in buona fede in questa direzione e il primo ministro Netanyahu mi ha promesso lo stesso». Quindi ha aggiunto: «Non sarà facile, ma con un compromesso, israeliani e palestinesi potranno farcela. La pace è possibile, se mettiamo da parte il dolore e il disaccordo del passato». Insomma, il festival del banale.
Aria fritta, frasi vuote, fiducia ingiustificata nella possibilitù di riaprire il negoziato e di raggiungere l’obiettivo mancato dagli altri presidenti Usa. Trump in realtà non ha nulla da offrire, anzi ha già tolto ai palestinesi. Ha evitato accuratamente di fare riferimento alla soluzione dei Due Stati e alla creazione di dello Stato di Palestina, facendo gioire la destra israeliana al potere che ora crede di aver scampato il “pericolo” dell’indipendenza e autodeterminazione dei palestinesi. Il presidente dell’Anp Abu Mazen, particolarmente accondiscendente, ha ribadito che il problema principale sono l`occupazione militare e le colonie israeliane e non come si vuol far credere un conflitto tra religioni. «Ancora una volta intendo ribadire la nostra posizione che riguarda l`esistenza di due Stati all’interno dei confini del 1967», ha spiegato. «Chiediamo – ha proseguito – uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale, in grado di convivere a fianco dello Stato d`Israele in pace e sicurezza per risolvere definitivamente la questione. Il nostro problema riguarda l`occupazione militare, le colonie e il rifiuto israeliano di riconoscere lo Stato di Palestina. Non abbiamo problemi con la religione ebraica».
Trump ha ascoltato senza commentare. Tornato a Gerusalemme ha ripetuto che gli Stati Uniti, con lui, saranno sempre dalla parte di Israele. Poi ha puntato di nuovo l’indice contro l’Iran. Infine ha raggiunto l’aeroporto di Tel Aviv da dove è decollato in direzione dell’Italia. Un viaggio in Medio Oriente privo di risultati politici ma pieno di miliardi di dollari, quelli che l’Arabia saudita spenderà per comprare le armi statunitensi.
La Stampa TuttoScienze 24.5.17
Quell’antenato con pensieri (quasi) da Sapiens Le nuove datazioni dell’Homo naledi cambiano le nostre idee di “primitivo”
di Francesco De Pretis
Aspetto arcaico e volume cranico grande come un’arancia, eppure l’Homo naledi era intelligente. E in più è vissuto a un «soffio» da noi Sapiens. Una nuova e clamorosa datazione scuote il cespuglio dell’evoluzione e Lee Berger, paleoantropologo dell’Università di Witwatersrand, in Sud Africa, spiega perché.
Professore, nel 2015 lei annunciò che questo «cugino» risaliva a un’epoca tra 2 milioni e mezzo e un milione di anni fa, mentre ora lo «porta» a 236 mila anni fa: cosa è successo?
«Capisco la sorpresa, però è questo che ci dicono i dati sperimentali. Ci sono voluti quasi due anni, ma i risultati sono robusti e abbiamo confermato la datazione anche tramite test in doppio cieco, affidando i resti a laboratori indipendenti e senza collegamenti tra loro. L’Homo naledi è molto più “giovane” di quello che pensavamo».
Come si sono ottenuti i dati?
«Con tre fasi. Abbiamo fatto una mappatura stratigrafica della grotta, poi siamo passati alla datazione delle “unità geologiche” che si trovavano al di sopra e al di sotto dei resti dell’Homo naledi. Infine abbiamo prelevato tre denti e li abbiamo analizzati. Così emerge una “forchetta” tra 335 mila e 236 mila anni fa».
Quindi è diventato un contemporaneo di noi Sapiens?
«I più antichi resti dei Sapiens risalgono a 200 mila anni fa e sono stati trovati in Etiopia. Non escludo che il naledi possa averli incontrati, ma quanto ritrovato finora non supporta l’ipotesi».
Perché è importante aver trovato un ominide così arcaico ma così giovane?
«Fino a poco tempo fa era normale credere che nessuna specie “primitiva” sarebbe sopravvissuta alla concorrenza di noi umani. Scoperte come la nostra mostrano che questa visione è falsa. Per gran parte degli ultimi 2 milioni di anni una notevole varietà di specie e popolazioni di ominidi è coesistita, mostrando caratteristiche più vicine o più lontane a noi Sapiens».
Ci sono stati contatti tra l’Homo Naledi e ominidi diversi?
«Perché no? Ricordo i resti di Kabwe, in Zambia, dell’Homo rhodesiensis, e il cranio di Florisbad, in Sud Africa, dell’Homo heidelbergensis: testimoniano la presenza di popolazioni arcaiche nell’Africa subequatoriale durante gran parte dell’esistenza dell’Homo naledi. I contatti, quindi, ci potrebbero essere stati. C’è chi ha parlato di fossile vivente, come un altro l’Homo floresiensis, ma rigetto l’ipotesi: Flores è un’isola, mentre l’Africa subequatoriale è un’incredibile palestra a livello evolutivo».
A che punto dell’evoluzione si colloca?
«Valutiamo due ipotesi, che lo vedono vicino oppure distante dall’Homo erectus».
Poi c’è un’altra ipotesi scottante: quegli ominidi furono sepolti con un rito?
«Per quanto ne sappiamo il culto dei morti è iniziato 200 mila anni fa. Osservo che tanti corpi come quelli nella grotta, in due camere scollegate e di difficile accesso, non sono finiti lì per caso: è una realtà che suggerisce un uso ripetitivo di quei luoghi. Sono spazi angusti che richiedono illuminazione e la nuova datazione ci fa pensare che l’Homo naledi fosse capace di utilizzare il fuoco».
Culto dei morti, fuoco: se fosse vero, sarebbe quasi umano?
«C’è di più. Nella “forchetta” temporale dell’Homo naledi sono stati ritrovati utensili di pietra del periodo della Middle Stone Age, il Paleolitico medio: la sua anatomia gli avrebbe permesso di produrli e questo elemento lo rafforza come un candidato promettente».
Le sue prossime mosse?
«Migliorare la datazione. Abbiamo cercato anche di estrarre il Dna e siamo alla caccia di nuovi siti da perlustrare».
La Stampa TuttoScienze 24.5.17
Bolla dopo bolla, il benservito a Planck ed Einstein
Dalla cosmologia visioni alternative che mettono in crisi un secolo di teorie
di Marco Pivato
«Per più di un secolo i fisici sono stati sedotti da pilastri illustri, in primis la meccanica quantistica, la teoria delle stringhe e quella dell’espansione dell’Universo neonato. Così, febbrilmente affezionati a queste visioni, centinaia di ricercatori non sanno guardare oltre». È il fisico britannico Roger Penrose, professore emerito all’Istituto di matematica dell’Università di Oxford, a lanciare l’accusa ai colleghi. «Tra 100 anni gli scienziati rideranno di noi e di queste teorie». Quella di Penrose è però una critica costruttiva. Spiega i limiti di queste costruzioni, dimostrando dove e come falliscono. È tutto nero su bianco nelle oltre 600 pagine della sua nuova opera, «Numeri, Teoremi e Minotauri. Perché la nuova scienza non è affatto scientifica», edita da Rizzoli.
La meccanica quantistica – osserva – spiega bene il microcosmo, quando vogliamo descrivere la natura di un elettrone, di un fotone o di un’altra particella. Ma nel macrocosmo - alle grandezze di una persona o, peggio, a quelle di una stella - perde di significato. «Del resto - esemplifica - non vediamo un oggetto come un libro in forma di onda e poi di corpuscolo. Vediamo il libro e basta».
La teoria delle stringhe, che tenta di conciliare la meccanica quantistica con la Relatività generale, d’altro canto, è più una vaga idea che una teoria - precisa il professore - priva com’è di evidenze sperimentali. Secondo questa teoria, le particelle elementari non sarebbero puntiformi, ma, appunto, «stringhe» a una dimensione, conciliando gravità e fisica delle particelle. «Si ipotizza – argomenta Penrose – l’esistenza di 26 dimensioni, invece delle quattro che conosciamo, anche se non riusciremmo a vederle perché sono così piccole da non poter essere percepite. Se sulla Terra è plausibile che le dimensioni extra siano invisibili, questa condizione è però impossibile nell’Universo, dove le grandi energie, sprigionate per esempio dallo scontro tra buchi neri, sarebbero sufficienti a eccitarle. Eppure nessuno le ha mai registrate».
E il Big Bang? Penrose non nega il celebre modello, ma ritiene che non sia un evento singolo e improvviso, quanto parte di un ciclo cosmologico più grande: «L’Universo nasce, cresce e ricomincia daccapo, come una bolla che genera un’altra bolla, all’infinito: questa visione la chiamo “Cosmologia ciclica conforme”». Così, Penrose demolisce una bella fetta della fisica novecentesca e manda, seppur gentilmente, in soffitta giganti come Planck ed Einstein. Lo strale l’ha lanciato in occasione del premio ricevuto dall’Università di Urbino, dove ha tenuto la lezione «Fashion, Faith and Fantasy».
Sono queste, infatti, le direttrici – «moda, fede e fantasia» – che secondo il fisico stregano il ricercatore poco audace: «Alla natura non importa nulla dei capricci della moda - sostiene -. Né bisognerebbe pensare alla scienza come a una fede». E aggiunge: «Quanto alla fantasia, costituisce la sfera d’interesse della fiction, vale a dire di ambiti in cui non è indispensabile considerare i requisiti di concordanza con le osservazioni o di rispetto di una logica rigorosa».
Repubblica 24.5.17
Ariana Grande sospende il tour. La scelta di come affrontare il lutto ha radici antiche. Come il bisogno di simboli positivi
È giusto fermarsi?
Da Cesare a oggi, quando si decide se lo spettacolo deve continuare
di Marino Niola
Il rito è un’abitudine collettiva. Servirà un rito a recuperare il senso della vita dopo una tragedia come quella di Manchester? Il rito è un colpo di evidenziatore passato su quel che gli uomini pensano di dover ricordare. O anche dimenticare. E quando sono in guerra, con le abitudini cambiano anche i riti. Alcuni vengono messi in stand by. La popstar Ariana Grande ha subito deciso di sospendere il tour. Lo spettacolo, e la vita, devono andare avanti oppure no? Roma tutta si chiude in casa quando si sparge la notizia della morte di Cesare (44 a.C.). In tempi più recenti, la Biennale di Venezia si sospende in pieno conflitto, dal 1916 al 1918. Il campionato di calcio, negli stessi anni, viene sostituito da un succedaneo come i tornei calcistici di guerra. O ancora i Mondiali di calcio non vengono giocati nel 1942 e nel 1946. Altri riti, al contrario entrano in una fase di effervescenza straordinaria, che crea appartenenza, emergenza, rafforza il legame sociale, costruisce identità. Facendo scaturire dal dramma del conflitto bellico, un’inattesa reazione vitale. È il caso di quei deportati nei campi di sterminio nazisti che, davanti ai forni crematori di Auschwitz, anziché disperarsi si mettevano a cantare in coro l’Internazionale e la Tikva, l’inno ebraico della speranza. Ritrovando in quella coralità suprema una forza magnetica che faceva di quelle vittime sacrificali un sol corpo e una sola anima. Persone più vive dei loro aguzzini. La Sinfonia n. 7 Op. 60 in do maggiore Leningrado di Dmitrij Shostakovich, composta durante l’assedio di Stalingrado, viene eseguita per la prima volta il 5 marzo 1942 mentre il fronte orientale brucia. Del resto già dal mondo antico la guerra funziona come un interruttore rituale. Spegne delle lampadine ma ne accende delle altre. Per esempio, i giochi olimpici che nascono nel 776 a. C. proprio per mettere periodicamente fine ai conflitti endemici tra le città greche. E trasformare lo scontro militare in con- fronto agonistico, la battaglia campale in gioco di squadra, l’aggressività in gara, il nemico in avversario. Così la vittoria e la sconfitta perdono il carattere cruento, irrevocabile e diventano un modo per esorcizzare la morte. E ancor prima delle Olimpiadi, Omero racconta che Achille, l’uomo di guerra per antonomasia, sospende le ostilità contro i Troiani per celebrare l’amico Patroclo ucciso in battaglia da Ettore, con delle gare atletiche che prevedono premi sia per i vincitori sia per i vinti. Ancora una volta la competizione rituale prende il posto della guerra. Ne fa le veci ma al tempo stesso restituisce una regolarità alla vita di persone che hanno perso la bussola delle abitudini quotidiane. Quelle che scandiscono la vita in tempo di pace. In altri casi invece il pulsante del rito serve proprio ad accendere gli animi. Come nel caso del cerimoniale dei Feziali, i sacerdoti di Roma che dichiaravano lo stato di guerra, scagliando una lancia insanguinata entro il territorio nemico. E quando le legioni combattevano in terre lontane, i Feziali lanciavano l’asta vicino al tempio di Bellona, Madre di tutte le battaglie. E se adesso tutti ci domandiamo giustamente quale sarà la reazione del popolo britannico dopo l’attentato di Manchester, la storia ci insegna che la capacità di reazione delle collettività è davvero imprevedibile. E che è proprio il rituale ad attivare questi anticorpi vitali. Come nel caso della notte di Natale del 1914 sul fronte Nord della Francia quando i fucilieri inglesi in trincea vedono accendersi improvvisamente migliaia di luci nel settore tedesco. Dove, in un silenzio irreale, si alzano le note di Stille Nacht. Alla fine del canto i britannici rispondono con The First Novel. Finché i nemici per la pelle intonano insieme Adeste Fideles. A quel punto un ufficiale germanico disarmato esce dalla buca scavalcando i compagni caduti. Un sergente inglese gli va incontro. Il loro gesto al tempo stesso folle e sacrale provoca un impulso irrefrenabile alla fraternizzazione che si spande a macchia d’olio coinvolgendo centomila persone lungo tutto il fronte delle Fiandre. L’episodio, raccontato dall’antropologo Paolo Apolito nel libro Ritmi di festa, mostra che noi umani abbiamo maledettamente bisogno di riti. Anche e soprattutto nei momenti peggiori, quando la società sente di essere sul punto di perdere se stessa. E si aggrappa disperatamente, qualche volta eroicamente, a quei gesti, a quelle consuetudini, a quei cerimoniali che servono da punti fermi, da ancoraggi certi per un’umanità che cerca di rimettere ordine nella sua esistenza. E forse non c’è da stupirsi visto che la parola rito ha la stessa etimologia della parola ordine. E resta l’unico antidoto contro il caos del terrore.
Repubblica 24.5.17
Identità. Trasformismo. Musulmano. Smog. S’intitola “Sillabario dei malintesi” il nuovo libro di Francesco Merlo, dizionario dei termini che generano equivoci
Le parole che fanno (o disfano) la storia
di Michele Ainis
Cadono sul foglio bianco come gocce, una dopo l’altra. Formano una pozza, poi un lago, poi un oceano. Sono le parole di Francesco Merlo, però sono anche le nostre parole, quelle che raccontano il nostro vissuto collettivo. Lui è un giornalista, tra i più raffinati in questo tempo orfano dell’esprit de finesse vagheggiato da Pascal. È dunque un uomo che vive di parole, che sa come orchestrarle. D’altronde i lettori di «Repubblica» lo conoscono bene, giacché la sua firma compare dal 2003 su queste pagine. E
adesso Merlo ha scritto un libro dal titolo suggestivo quanto enigmatico: Sillabario dei malintesi. È una raccolta di parole equivoche quella che ci offre l’autore? O siamo noi, piuttosto, ad aver smarrito qualsiasi capacità di comprensione?
Per sciogliere i dubbi, non resta che immergersi nel testo. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi. Perché leggere è un po’ come viaggiare; tuttavia qui manca la stazione di partenza, forse anche l’arrivo. Il libro di Merlo è infatti costruito come un dizionario: 79 lemmi che s’allungano per 408 pagine. I dizionari non hanno centro, né punti terminali. Rispettano un ordine, però: l’ordine alfabetico. Stavolta non c’è nemmeno quello. Le parole si dispongono – parrebbe – senza una trama preordinata. Perché «Smog» precede «Identità», perché dopo «Musulmano» c’è «Lombroso »? Di primo acchito, l’effetto rimanda ai labirinti di Borges, con la peculiarità che in questo labirinto verbale ciascun lemma apre una porta d’accesso, ciascun lettore può scegliersi l’entrata.
E allora cominciamo da «Ossimoro », dalle parole che si contraddicono a vicenda. La politica italiana ne è da sempre una fucina, e infatti l’autore cita Moro e Grillo, una coppia che racchiude in sé l’ossimoro, la coincidenza degli opposti. Al primo si deve, tuttavia, l’invenzione delle convergenze parallele, nel 1959: forse la più celebre espressione del politichese, la cui fortuna è sopravvissuta alla scomparsa del suo artefice, benché nessuno ne abbia compreso mai il significato. Il secondo, con il Vaffa-Day del 2007, ha promesso di portare al governo l’odio per ogni governo, di governare insomma con un antigoverno; e magari questo compito impossibile sta per realizzarsi. Come del resto accadde a Berlinguer, con il suo partito di lotta e di governo. O con il socialismo sotto l’ombrello della Nato.
Però la figura centrale in questo lemma è un’altra: Gesualdo Bufalino. Autore d’aforismi, di battute fulminanti («I vincitori non sanno quello che si perdono»), ma soprattutto scrittore a tutto tondo, con la sua lingua barocca che riflette certi tramonti siciliani. Per Merlo rievocare Bufalino significa rendere omaggio all’arte della parola scritta e significa al contempo rivivere trascorsi di provincia (Bufalino non volle mai lasciare Comiso) che sono gli stessi suoi trascorsi. Sicché improvvisamente si rivela l’architrave che sorregge il libro: un impasto di storie impersonali e di ricordi personali, squarci autobiografici che si fondono con la biografia d’una nazione. Puoi raccontare soltanto ciò che hai sperimentato, ecco la lezione.
Ne è prova il lemma con cui s’apre il volume: «Monarchia». Qui Merlo abbozza un ritratto del nonno materno, monarchico e insieme socialista; e racconta che al referendum del 2 giugno 1946 suo padre, che era di destra, votò per la repubblica; la mamma, di sinistra, scelse la monarchia. L’ossimoro, insomma, s’insinua già nell’atto fondativo, probabilmente non solo a Catania, non solo a casa Merlo. Non è un caso se noi italiani usiamo una figura bisessuale – madre patria – per definire la nostra identità comune. E del resto c’è stato un bisticcio di parole, una truffa semantica prima che politica, nei 67 referendum dell’ età repubblicana. Come nel 1993, quando il voto popolare abrogò il ministero dell’Agricoltura, senza tuttavia impedirne la rinascita come ministero delle Politiche agricole. Inganni verbali che hanno trasformato in un ossimoro lo stesso referendum, antico strumento di democrazia diretta: concepito «per unire un paese diviso», in Italia «finisce per dividere un paese unito».
Sicché in ultimo le parole non esprimono più i fatti della vita: diventano esse stesse fatto. Merlo ci conduce all’interno dello specchio, perfora la superficie riflettente del vocabolario, e così ci mette in condizione di guardare la nostra stessa immagine, attraverso le parole che usiamo per dire le cose, per fare le cose. Sono le parole a decidere la storia, scrive in una paginetta introduttiva. E siccome la storia non procede mai diritta, questo suo racconto dell’Italia è una rapsodia, un insieme disorganizzato di frammenti, di visioni parziali. Giusto così, per le ragioni che a suo tempo espose Wittgenstein: «Diffido dei sistematici e li evito», diceva. «O sono stupidi o sono in malafede, perché la vita è un flusso discontinuo».
Tuttavia c’è un filo di continuità nella storia italiana, un elemento che rimbalza da un secolo all’altro, indelebile come il termine che lo denota: «Trasformismo». La più vecchia fra le parole della politica, ma anche la più attuale – ancora un altro ossimoro. In origine furono spezzoni della destra di Minghetti trasmigrati nella sinistra di Depretis; poi i ribaltoni orditi da Bossi contro Berlusconi, da D’Alema contro Prodi, da Renzi contro Letta; infine una transumanza spicciola, plebea, che nella legislatura in corso coinvolge un terzo dei parlamentari, passati in un gruppo diverso da quello in cui vennero eletti. Sempre in nome della governabilità, altra parola fraudolenta. E talvolta cambiando il nome del proprio partito, non potendo cambiarsi i connotati. È il caso del Pci-Pds-Ds-Pd o dei leader che per restare a galla hanno affondato la barca sulla quale navigavano. Come Casanova – osserva Merlo – che solo cambiando letto restava Casanova.
E infine l’ultimo ossimoro, il più lacerante. In un libro sulle parole che la politica ci rovescia addosso, a pagina 319 sbuca il «Silenzio». Incarnato da una galleria di personaggi taciturni, da Martinazzoli a Mattarella, dagli Einaudi (padre e figlio) a Enrico Cuccia, a Sciascia, a Mina, a papa Ratzinger. I loro silenzi, le scelte di vivere appartati, risuonano più forti del vocio confuso che ci sommerge. E iscrivono in conclusione un epitaffio in questo bel libro di Merlo: non abbiamo più parole, le abbiamo spese tutte. Meglio tacere.
IL LIBRO Sillabario dei malintesi. Storia sentimentale d’Italia in poche parole ( Marsilio, pagg. 416, euro 20) Il libro verrà presentato sabato 27 alle ore 21 in Palazzo del Bosco a San Lazzaro di Savena ( Bologna). Con l’autore ci sarà Valerio Magrelli
Corriere 24.5.17
E Catilina puntò sulle masse urbane I segreti di una crisi «rivoluzionaria»
Intrecci di potere e clan familiari nella Roma antica: lo sguardo lucido di Ronald Syme
di Luciano Canfora
Federico Santangelo, che insegna Storia antica a Newcastle, ha il merito di aver trascelto, curato e dato alle stampe con tutti gli onori un cospicuo manipolo di scritti inediti di Sir Ronald Syme: ventisei pezzi, per complessive 400 pagine, raccolti sotto il felice titolo Approaching the Roman Revolution (Oxford University Press). Quando Syme morì, ottantaseienne, il 4 settembre 1989, era nel pieno dell’attività, e nel Wolfson College di Oxford, dove risiedeva, furono trovati materiali inediti, ma molto avanti nella stesura. Non è dato sapere perché li avesse lasciati inediti, è comunque stato un bene pubblicarli. In gran parte riguardano temi e personaggi correlati con il grande suo libro, grazie al quale Syme è destinato a durare come uno dei vertici della storiografia europea: The Roman Revolution (1939). Libro divenuto accessibile in Italia solo a partire dal 1962 grazie alla magnifica traduzione approntata da Manfredo Manfredi. Più che mai in questi ventisei saggi, si apprezza la scelta di Syme di mettere a frutto la sua immensa conoscenza delle singole persone, comunque testimoniate, della classe dirigente romana, nonché il dominio ineguagliato che egli ebbe delle fonti latine. Il che fa sì che — come sempre nelle sue opere — le note a pié di pagina rinviano, in stretta simbiosi col testo, alle fonti, non al «mormorio» secondario della bibliografia recente o recentissima. Emblematica, a tal proposito, la battuta di Syme detta ad Arnaldo Momigliano che lo incalzava con domande bibliografiche (se avesse letto, sui più disparati argomenti, tale o tal altra saggistica recentissima): preferisco leggere le fonti.
Il nome di Momigliano ci porta al cuore del problema: alla più celebre recensione che La rivoluzione romana ricevette, quella di Momigliano per il «Journal of Roman Studies» (1940), di impianto quasi marxista. La critica più forte era che Syme aveva raccontato la storia della crisi della Repubblica romana unicamente come storia dei complicati e spesso sconcertanti intrecci nell’ambito dei gruppi dirigenti, dimenticando il peso e il ruolo delle masse, in primis quelle militari. Syme non cambiò mai posizione su questo punto, nemmeno nei suoi due grandi libri del dopoguerra: il Sallustio e il Tacito . Presentando, vent’anni dopo, La rivoluzione romana al lettore italiano, Momigliano volle suggerire una fonte di un siffatto «sviluppo intellettuale» di Syme e indicò l’opera prosopografica di Sir Lewis Namier Storia del Parlamento inglese : ma Syme fece sapere di non averlo mai letto. C’era dell’ironia in queste repliche del professore-Sir, e agente inglese a Istanbul durante la guerra, indirizzate al professore e rifugiato italiano, di formazione crociana e storicistica.
L’altra critica che Momigliano rivolgeva nel 1940 a La rivoluzione romana era di aver preso le mosse — nella ricostruzione della fine della Repubblica — dall’anno 60, l’anno del cosiddetto «primo Triumvirato» (era, da parte di Syme, un ammiccamento ad uno dei suoi modelli, Asinio Pollione), anziché dal decennio 80-70 a.C.: dittatura di Silla, sua abdicazione e progressiva demolizione della costituzione sillana. Anthony Birley ha osservato, molti anni fa, che probabilmente una risposta (implicita) di Syme fu di mettersi a scrivere — durante il periodo di Istanbul — proprio su quel decennio: gli articoli sull’abdicazione di Silla, sul processo di Roscio Amerino, sul «console sovversivo» (definizione di Gino Labruna) ed ex sillano Emilio Lepido. È degno di nota il fatto che non pochi degli inediti compresi nel novissimo volume edito da Santangelo riguardino proprio quel periodo. Perciò s’intitola Approaching the Roman Revolution. Prova del fatto che quella critica era calzante. Ma è anche sintomatico che l’indagine si sviluppi, in questi saggi, sempre alla maniera del grande libro del 1939: il senso dell’agire politico dei personaggi grandi e meno grandi che vengono fatti vivere in queste pagine discende sempre dall’intricata ragnatela dei loro rapporti parentali, clientelari e di «clan». Senza mai dimenticare il fermo convincimento di Syme (reso esplicito nel Livy and Augustus del 1959) secondo cui «la storia vera è quella segreta».
Dalla ricchissima materia del volume trascegliamo il saggio sull’«allegra Sempronia», The Gay Sempronia . Prende avvio dal celebre ritratto di questa donna straordinaria, che Sallustio inserisce nel racconto della congiura di Catilina anche se il ruolo di lei nel complotto (63 a.C.) è di fatto inconsistente. «Questa signora di classe prendeva ciò che voleva, incurante della reputazione». Essa era al centro dell’aristocrazia romana, moglie di un Decimo Bruto e forse madre di quel Decimo Bruto che accompagnò Cesare in Senato a farsi ammazzare il 15 marzo del 44. Era forse zia di quella Fulvia, non meno allegra a giudicare dal vivace episodio narrato con toni deprecanti da Valerio Massimo, la quale divenne spia al servizio di Cicerone ed ebbe un ruolo decisivo, secondo Sallustio, nel successo di Cicerone contro la trama ordita dai catilinari per farlo fuori e prendere il potere. Syme ricostruisce — in questo inedito — i rapporti tra le due donne e di Sallustio con la più giovane di esse, Fulvia. Adombra, con mano lieve ma penetrante, la vicinanza di Sallustio stesso con quegli ambienti. E finisce col mettere in crisi la tesi, classica, di Eduard Schwartz secondo cui Sallustio avrebbe scritto La congiura di Catilina per scagionare l’ormai defunto Cesare dalle accuse di complicità con Catilina diffusesi quando apparve, postumo, lo scritto di Cicerone De consiliis suis che quella complicità denunciava, o anche per colpire Decimo Bruto attraverso il «ritratto» di sua madre. È molto più probabile che le finalità di quello straordinario libro di storia «segreta» che è La congiura di Catilina fossero altre, non ultimo un chiarimento che riguardava Sallustio medesimo. Del quale — io credo — non è escluso che, ventenne, si fosse trovato assai vicino alla jeunesse inquieta, economicamente in difficoltà, e pronta alla «rivoluzione» che Catilina aveva saputo attrarre e organizzare.
Sta di fatto comunque, e questo non andrebbe dimenticato affascinati dalla sapienza di Syme nel raccontare le dinamiche delle classi dirigenti, che più volte, nello splendido e faziosissimo libro di Sallustio, fanno capolino, nella vicenda dell’anno 63 a.C., le masse urbane. E si capisce molto bene dai numerosi cenni sparsi in quelle pagine, che, per un momento non breve, con l’aiuto di quelle masse, Catilina avrebbe potuto vincere.
Corriere 24.5.17
Quando Mussolini giocava col fuoco
di Antonio Carioti
Gaetano Salvemini era convinto, lo dichiarò nel 1927, che il Duce sarebbe inciampato sulla politica estera: «È questo il punto debole del regime fascista, e di qui verrà il disastro». Cinque anni dopo lo storico non aveva cambiato idea. Al termine del libro Mussolini diplomatico , pubblicato in esilio e ora riproposto dall’editore Donzelli a cura di Mirko Grasso (pagine 221, e 29), sosteneva che il Duce in cuor suo non voleva affatto un conflitto armato, ma a forza di aizzare il «più esaltato nazionalismo», avrebbe probabilmente finito per provocarlo, determinando la sua rovina. Se la previsione era giusta, Salvemini tuttavia sottovalutava la solidità del fascismo e forse anche la determinazione di Mussolini nel condurre una politica aggressiva non soltanto a parole, che sarebbe poi sfociata nell’invasione dell’Etiopia e nell’intervento in Spagna. Del resto nel 1932 l’ascesa del Terzo Reich era di là da venire. Salvemini, che sin dalle prime righe del libro riconosceva di non essere imparziale, coglieva comunque nel segno osservando che prima o poi il dittatore avrebbe pagato il prezzo della sua irresponsabilità dilettantesca.
Corriere 24.5.17
Prodi: devastante un’intesa sul proporzionale
L’ex premier critica la trattativa di Renzi con Berlusconi: se continuiamo così garantiamo l’instabilità
Parte il Rosatellum, già pronte le modifiche. Di Maio avverte: senza M5S, sarà un Vietnam al Senato
di Dino Martirano
ROMA Da esterno Romano Prodi, interpretando forse anche i mal di pancia montanti nel Pd, lancia il suo avvertimento al segretario dem, Matteo Renzi, che ha avviato trattative serrate con Forza Italia per confezionare una nuova legge elettorale proporzionale finalizzata al voto in autunno.
E così lo schema proporzionale, che punta a formare una «grande coalizione» Pd-FI dopo le elezioni, viene stroncato dall’ex premier Prodi che portò l’Ulivo al governo con il Mattarellum maggioritario: «Si accorderanno con una legge elettorale proporzionale che devasta il Paese. Come si accorderanno lo si vedrà dopo le elezioni. Purtroppo qui, se continuiamo così, garantiamo l’instabilità», è la riflessione di Prodi intervistato da Giovanni Floris su La7. Anche Giuliano Pisapia (Campo Progressista)boccia il proporzionale perchè «aprirebbe la via ad un governo di larghe intese».
E se il piatto forte del possibile accordo Pd-FI è la data anticipata del voto, prima che il governo in carica a guida Pd sia costretto a sporcarsi le mani con una Finanziaria severa, il grillino Luigi Di Maio precisa: «Le elezioni ci saranno presto, magari in autunno, ma solo se il M5S parteciperà alla formazione della nuova legge elettorale. Senza l’accordo con il M5S, al Senato sarà un Vietnam e il Pd si schianterà».
La corsa del Pd e di FI verso l’accordo ha superato la tappa: con una mezza finzione, la commissione Affari costituzionale della Camera ha votato («Adottandolo a distanza», ironizzano i deputati dem) il «Rosatellum» che prende il nome dal capogruppo del Pd, Ettore Rosato, e propone un 50% di maggioritario e un 50% di proporzionale con sbarramento di accesso al 5%. Il voto ha delineato schieramenti fittizi (Pd, Lega, Svp e verdiniani favorevoli; FI, M5S, Sinistra Italiana, Articolo 1 contrari; centristi di Ap assenti, FdI astenuti) perché tutti sanno che il testo finirà in un cestino.
Il relatore, Emanuele Fiano (Pd), già offre ai suoi interlocutori (nessun contatto con i grillini) di «germanizzare» il Rosatellum fino a raggiungere il modello tedesco (proporzionale) che vuole Berlusconi. Ma il cambio di marcia di Renzi, disponibile a cedere sul semi maggioritario pur di andare a votare il 24 settembre, può finire in un vicolo cieco. Per votare a fine settembre, calcola Ignazio Abrignani (Ala), le liste vanno presentate a Ferragosto. Il che vuol dire varare la legge all’inizio dell’estate in modo che il governo disegni i collegi. Calendario alla mano, dunque, la moneta di scambio tra Pd e FI, la data del voto, rischia di non essere spendibile.
Corriere 24.5.17
Rodin, eros senza passioni
L’artista diviso tra la moglie e la giovane amante
Un film che non conquista il pubblico di Cannes
di Valerio Cappelli
CANNES Il Festival si sposta nell’atelier di Rodin, l’artista che ha inventato la scultura moderna. Secondo biopic francese in gara, dopo il pasticcio iconoclasta di Hazanavicius che ha dipinto il giovane Godard, Papa laico della Francia. Ma Rodin è tutta un’altra storia, ha un impianto classico che appare fuori contesto a Cannes, e alla proiezione stampa non sono pochi quelli che abbandonano la sala. Alla fine l’accoglienza è fredda e qualcuno impreca: «Cinema vecchio».
In Rodin il regista Jacques Doillon, uno della vecchia guardia degli autori d’Oltralpe, ha fatto fare «due mesi di workshop come scultore al mio protagonista». Vincent Lindon, Palma d’oro nel 2015 a Cannes per L a legge del mercato : «Doveva imparare a lavorare con le mani per essere credibile anche allo spettatore non esperto. Le opere di Rodin hanno una natura carnale, sono molto erotiche. Abbiamo girato a Meudon, nella sua camera da letto, dove c’è la grande figura di Cristo. Abbiamo riprodotto alcune opere, ma alcuni oggetti sono autentici».
Parigi, 1880. Auguste Rodin ha 40 anni, le sue opere talvolta sono rifiutate, riceve per la prima volta una commissione statale: creare il portale di un museo dedicato alle arti decorative, Rodin dedicò buona parte del suo arco creativo all’utopia della Porta dell’Inferno, che rimase incompiuta perché alla fine il museo non fu mai costruito. Le figure presenti sul portale, ispirato a Dante, divennero sculture singole, tra cui i suoi due capolavori, Il pensatore e Il bacio. Rodin-Lindon dice che «Dante scolpiva con le parole, io sono solo un lavoratore manuale».
Lo sguardo dall’irrequietezza trattenuta, i capelli corti, la barba lunga, i suoi camicioni bianchi, lunghi fino alle caviglie. Ma non è stato solo un lavoro di somiglianza fisica: si tratta di entrare nella mente di Rodin, e nel suo tormentato genio creativo, «nell’interiorità delle sue sculture» che cercano le forme dalle modelle, dal tronco di un albero…
Ecco che le mani plasmano una dimensione carnale, danno forma a sculture sensuali che fecero scandalo, le immagini, impreziosite all’inizio da un frammento delle Partite e Sonate di Bach, ruotano a 360 gradi. Ma al Festival è come un quadro senza cornice. Doillon ha cercato «una profondità di spazio per ottenere una cornice formale fluida».
La doppia vita dello scultore. C’è la compagna della sua vita, Rose (Séverine Caneele), che dopo 53 anni di relazione sposò, e lei morì due settimane dopo; e c’è la sua giovane allieva Claudine Claudel (Izïa Higelin), la più dotata, che divenne la sua amante. «Dieci anni di passione e di complicità», e poi la sua mente si annebbiò e si perse, come il cinema ha più volte raccontato. Il suo amante guarda quel giovane corpo pieno di voluttà, la bacia e respira forte come se dovesse prosciugare l’aria, «ti amo furiosamente» le dice. In una scena ballano senza musica, lei piange, capisce che il loro sarà un valzer tragico.
Che cosa l’ha portata da Rodin? «Il caso. I produttori mi avevano chiesto un documentario per il centenario della sua morte, poi la fiction ha preso il sopravvento e ne ho fatto un film». Rodin, la fisicità, il realismo lacerante; i temi allegorici che diventano figure umane, le mani che modellano il gesso, il marmo, il bronzo, la pietra esaltando la concretezza della carne, lo sforzo dei tendini e dei muscoli che si fanno vita, mentre prima erano materia informe. La vita che erutta come un vulcano, e i colori hanno la loro importanza: «Li volevo femminili, che richiamassero la pelle e la terra. Rodin è molto noto: il suo nome uscì dalla cerchia della comunità artistica. Ma sappiamo così poco di lui».
L’Osservatore Romano 23.5.17
Insopprimibile tensione dell’anima
La maternità in un libro di Silvia Vegetti Finzi
qui