domenica 30 aprile 2017

Internazionale 21.4.2017
È troppo tardi per Hong Kong?
di Howard W. French, The Guardian, Regno Unito 

Quando nel 1997 passò dal controllo britannico a quello cinese, la città era una delle più libere e cosmopolite d’Asia. Oggi rischia una svolta autoritaria  All’alba di una mattina di gennaio, nascosta dall’oscurità, una squadra di agenti in borghese della polizia cinese è entrata senza farsi notare nell’hotel Four Season di Hong Kong, diretta a una lussuosa suite residenziale. Dopo essersi sbarazzata delle guardie del corpo private – tutte donne – del miliardario che occupava la suite, ha coperto la testa dell’uomo con un panno bianco e lo ha portato via su una sedia a rotelle. Xiao Jianhua è uno degli uomini d’affari più ricchi della Cina. Negli ultimi vent’anni ha costruito la sua fortuna facendo affari con il meglio dell’élite cinese, tra cui, si dice, alcuni parenti stretti del presidente Xi Jinping. A causa della poca trasparenza della cultura politica cinese, i motivi di questo rapimento si possono solo ipotizzare, ma sembra che Xiao avesse cercato di tutelarsi in tutti i modi. Non solo risiedeva e svolgeva le sue attività fuori dalla Cina, ma aveva un passaporto diplomatico di Antigua e Barbuda e la cittadinanza canadese, forse pensando di garantirsi una maggiore protezione legale o diplomatica. Hong Kong ha la sua polizia, le sue guardie di frontiera e un servizio immigrazione, tutti in teoria separati dal grande apparato di sicurezza cinese. Ma quando le autorità di Pechino hanno deciso di far arrestare Xiao, niente di tutto questo è servito. Le autorità di Hong Kong non hanno osato protestare pubblicamente per l’arresto, e la Cina non ha dato spiegazioni. Questo incidente smentisce ancora una volta l’idea che Hong Kong abbia il pieno controllo dei suoi affari. Un anno fa, nel 2016, cinque uomini tra editori e librai sono stati portati in segreto in Cina per essere interrogati. Da luoghi di detenzione sconosciuti (dove ancora si trovano quasi tutti) alcuni di loro sono stati costretti a fare vaghe confessioni davanti a una telecamera. Come il rapimento di Xiao, la vicenda resta ancora avvolta nel mistero. Ma molti pensano che i cinque uomini siano stati presi di mira perché vendevano libri scandalistici sulle rivalità e la corruzione ai massimi livelli della politica cinese. Quei libri piacevano particolarmente ai turisti che venivano dal continente, e che in patria non avrebbero mai potuto trovare materiale simile. Uno dei libri dichiarava di contenere rivelazioni sulla vita amorosa del presidente Xi Jinping. Per molti cittadini di Hong Kong, questi rapimenti servono a ricordare quanto sia fragile l’accordo stipulato tra Londra e Pechino nel 1997, quando la Cina ottenne di nuovo la sovranità sull’isola, rimasta fino a quel momento sotto il controllo britannico. Anzi, prima del rapimento di Xiao Pechino ha respinto in modo ancora più evidente l’idea di un autogoverno di Hong Kong. Nel novembre del 2016 due giovani candidati che avevano appena vinto le elezioni al consiglio legislativo della città non hanno ottenuto il loro seggio. Il LegCo, come viene chiamato a Hong Kong, è un organo semidemocratico composto da settanta rappresentanti eletti, che legifera e approva i bilanci e a cui il governatore della città deve rendere conto. Nessuno ha messo in discussione il fatto che i due candidati, rappresentanti di un nuovo gruppo politico indipendentista chiamato Youngspiration, avessero vinto. Per negargli i seggi è stato usato il pretesto che durante la cerimonia del giuramento i due si erano rifiutati di giurare fedeltà alla Cina e avevano usato invece la formula “al popolo di Hong Kong”. Il governatore di Hong Kong in carica allora, Leung Chun-ying, fedelissimo a Pechino, ha chiesto subito un’ingiunzione del tribunale per impedire che i candidati di Youngspiration ottenessero i loro seggi. E come se non bastasse Leung ha fatto qualcosa senza precedenti e, per molti degli abitanti dell’isola, ancora più inquietante: per evitare interventi da parte dei tribunali indipendenti di Hong Kong, si è rivolto direttamente a Pechino. Ovviamente alla fine i due giovani politici sono stati interdetti dalla carica. Dopo la transizione, Pechino non era intervenuta quasi mai in modo così diretto nella politica di Hong Kong, per questo l’indignazione si è diffusa rapidamente, soprattutto tra i più giovani. La situazione è ancora tesa. Un timore difuso Il giorno dopo il mio arrivo a Hong Kong, a gennaio, una delegazione di attivisti per la democrazia è a Taiwan, guidata dal più importante leader dell’opposizione, il ventenne Joshua Wong. All’aeroporto, poco prima della partenza, folle di manifestanti filocinesi hanno aggredito i delegati e li hanno ricoperti di insulti e minacce. Secondo molti esperti, probabilmente i manifestanti sono stati pagati dalla criminalità organizzata manovrata da Pechino. E il messaggio era che chiunque predichi la separazione dalla Cina non è visto di buon occhio dal potere cinese. Se davvero l’intenzione era quella, sembra che il messaggio sia stato recepito. Vengo regolarmente a Hong Kong dalla fine degli anni novanta, ma ora mi rendo conto che c’è un timore diffuso tra gli abitanti della città. Nelle interviste e negli incontri in affollati ristoranti di quartiere, molti confessano di aver paura che la loro città, una delle più libere e cosmopolite dell’Asia, entri in rotta di collisione con il sistema autoritario della Cina. Le libertà e la cultura democratica che hanno sempre reso Hong Kong così speciale potrebbero non sopravvivere. Come mi dice un noto avvocato: “Se c’è una soluzione al problema di Hong Kong, nessuno l’ha ancora trovata”. Gli abitanti della città aspettavano con ansia il 2017, ventesimo anniversario della partenza dei britannici, un evento considerato una pietra miliare della loro evoluzione politica. Secondo le promesse di Pechino, doveva essere l’anno in cui compiere un passo decisivo verso il suffragio universale diretto, come prevede la costituzione della città. Ma le elezioni del 26 marzo, invece di dare il via a un’era più democratica, hanno seguito il solito copione, facendo temere a molti un ritorno delle proteste e degli scontri che hanno segnato gli ultimi tre anni. Promessa non mantenuta I rapporti tra Hong Kong e il continente non sono sempre stati così tesi. All’epoca della transizione, nel 1997, l’ansia che molti dei 6,5 milioni di abitanti di Hong Kong provavano per il loro futuro sotto il dominio del Partito comunista cinese era in parte compensata da un forte moto di orgoglio. È vero che migliaia di persone emigrarono o cercarono di ottenere un secondo passaporto per difendersi dall’incertezza della nuova era, ma molte altre pensavano che con l’aumento della ricchezza dei cittadini del continente ci sarebbe stata più libertà per tutti. Hong Kong non sarebbe diventata come la Cina: la Cina avrebbe cominciato a somigliare sempre più a Hong Kong. E le persone convinte di questo non avevano mai avuto un’occasione migliore per riaffermare la loro “cinesità”. Il fatto che le cose più importanti non fossero state lasciate al caso incoraggiava l’ottimismo. L’ultimo atto di decolonizzazione dei britannici, negoziato per anni, sembrava cedere il controllo della città non tanto allo stato cinese quanto alla popolazione di Hong Kong. In base all’accordo con Pechino (poi noto come “un paese, due sistemi”), Hong Kong avrebbe potuto autogovernarsi per cinquant’anni senza la minima interferenza da parte della Cina. Alcuni vedevano un errore di progettazione nell’accordo, se non addirittura un peccato originale: la popolazione di Hong Kong non Kong preoccupati per il loro futuro. Per molti osservatori, la formula “un paese, due sistemi” era anche un messaggio lanciato ai 23 milioni di abitanti di Taiwan, l’isola indipendente al largo delle coste cinesi. Riportare Taiwan tra le braccia di una Cina unificata era stato uno degli obiettivi più cari al Partito comunista in dal 1949, quando il governo nazionalista deposto da Mao era andato a rifugiarsi lì. Ora i commentatori politici di tutta la regione ipotizzavano che, se Hong Kong fosse diventata una città libera e democratica sotto la sovranità della Cina, forse anche la popolazione di Taiwan si sarebbe convinta della possibilità di legarsi al continente stringendo un accordo simile. Durante i primi anni di applicazione dell’intesa del 1997, molti osservatori internazionali attribuivano alla formula “un paese, due sistemi” buone probabilità di successo. Agli occhi di alcuni era stato addirittura uno shuang ying (un vero trionfo), come amava dire la diplomazia cinese. Se si fosse convinta anche Taiwan, avrebbe potuto diventare un trionfo assoluto: aveva avuto nessuna voce in capitolo nella discussione sui termini dell’intesa. Ma Hong Kong era così preziosa per Pechino, sostenevano gli ottimisti, che il Partito comunista cinese non avrebbe corso il rischio di intromettersi troppo. Per la Cina la città era stata la prima fonte d’investimenti di capitale, che all’inizio degli anni ottanta avevano costituito un carburante essenziale per il decollo economico. E negli anni novanta era rimasta un’importantissima fonte d’investimenti, oltre che un canale attraverso cui la Cina aveva avidamente assorbito le tecnologie e le tecniche di gestione occidentali. Inoltre, istituzioni di tipo occidentale come i tribunali indipendenti, i mercati finanziari trasparenti e la stampa libera avevano fatto di Hong Kong la piattaforma di lancio delle nascenti aziende globali cinesi. Era la sede ideale per le nuove imprese internazionali, perché offriva quella credibilità in più di cui avevano bisogno per convincere i diffidenti investitori stranieri. C’era anche un altro fattore che contribuiva a rassicurare gli abitanti di Hong avrebbe potuto riunire le tre comunità. Ma oggi, nel ventesimo anniversario del trasferimento di poteri, l’accordo tra Cina e Stati Uniti è considerato a dir poco zoppicante. Molti temono che stia per crollare del tutto, anche come operazione di facciata. La Cina è più ricca e potente di vent’anni fa, ma è anche meno paziente e disposta a cedere il controllo. Nel frattempo a Hong Kong l’idea di “un paese, due sistemi” è stata superata da un crescente desiderio di autonomia. Pechino si trova di fronte a giovani sempre più ostili e radicali, che non sono disposti a scendere a compromessi sulla democrazia e i diritti civili. Da parte sua, il Regno Unito cerca di non criticare pubblicamente Pechino mentre corteggia le aziende e gli investitori cinesi. Chris Patten, il politico conservatore e ultimo governatore coloniale della città, di recente ha dichiarato: “Siamo già venuti meno alle aspettative dei genitori di questa generazione di attivisti per la democrazia. E sarebbe una tragedia se deludessimo anche i ragazzi”. Non c’è un motivo solo che spieghi perché la situazione di Hong Kong è diventata così difficile. Ma non è possibile capire lo stato di crisi della città senza prendere atto che il continente non dipende più da Hong Kong. In realtà, potrebbe essere l’esatto contrario. Ed è un dato importante non solo dal punto di vista economico e politico, ma anche psicologico, perché sta cambiando il modo in cui i cinesi e gli abitanti di Hong Kong vedono se stessi. Inversione dei ruoli Oggi la crescita economica cinese è undici volte quella registrata ai tempi del passaggio di consegne. Invece l’economia di Hong Kong è rimasta stagnante e dipende sempre di più dalla Cina. La mobilità verso l’alto ha subìto una battuta d’arresto, e molti giovani sono pessimisti sul futuro. Quasi tutte le persone sotto i quarant’anni che intervisto vivono ancora con i genitori e non sperano in un cambiamento a breve termine. “Non c’è molta crescita economica, se non per una piccola minoranza che lavora nelle banche e nella finanza”, mi dice Alan Wong, un trentenne impiegato nella fabbrica del padre. “Non puoi comprarti una casa e hai la sensazione che tutto sia contro di te”. Nel 1997 il reddito pro capite medio di Hong Kong era 35 volte quello della Cina. E nei primi anni della nuova era, quando i pochi cinesi che ottenevano il permesso di visitare la città tornavano a casa, suscitavano l’invidia di tutti raccontando dei centri commerciali di lusso e di una popolazione ricca e cosmopolita. Il romanzo del 2008 ‘Pechino è in coma’ dello scrittore cinese in esilio Ma Jian rende bene le trasformazioni avvenute. Racconta una storia d’amore senza speranza tra una ragazza di Hong Kong e un ragazzo del continente, entrambi studenti di medicina nella Cina meridionale. All’inizio, ogni volta che torna da Hong Kong, lei gli porta Marlboro e musicassette, senza rendersi conto che lui non ha un registratore per sentirle, poi una macchina fotografica che il ragazzo dovrà vendere per pagare un anno di affitto. I genitori della ragazza non approvano la loro relazione, chiaramente per la grande differenza di reddito. A un certo punto lui racconta di quando l’ha accompagnata alla stazione al confine tra Hong Kong e la terraferma. I turisti della città che entravano nell’atrio della stazione erano “ben vestiti, pettinati e con le valigie in ordine”, si legge. “Non sembravano appartenere allo stesso pianeta delle orde arruffate dei turisti del continente, che si trascinavano stancamente a piedi nudi con le buste di plastica sulle spalle”. Oggi il contrasto non è più così netto. Lo yuan vale più di quello che un tempo era il tanto agognato dollaro di Hong Kong, e la città è una meta per milioni di turisti cinesi che, però, non sono ben visti dagli abitanti. I ricchi del continente, compresi molti dirigenti politici, comprano le case più belle di Hong Kong e sono accusati di aver reso il mercato immobiliare inavvicinabile per gli abitanti. I turisti provenienti dalla Cina sono spesso oggetto di proteste rabbiose, e a volte si parla di loro nei termini tipici dei paesi profondamente divisi per motivi razziali come “pestilenza”, “parassiti” e “orde”. Molti abitanti di Hong Kong non sopportano i modi rozzi dei nuovi borghesi cinesi, accusati di sputare in pubblico, di attraversare la strada senza badare al traffico e di lasciar fare i bisogni per strada ai bambini. Per questi turisti Hong Kong non è più una città da ammirare a bocca aperta, ma una conferma del loro successo. E somiglia sempre di più ai posti da dove vengono. “I cinesi hanno un atteggiamento molto complicato nei confronti di noi cittadini di Hong Kong, una specie di complesso”, dice un uomo sulla trentina che si occupa di marketing per una piccola azienda. “Dicono che siamo cinesi come tutti gli altri, niente di speciale. Negli anni settanta e ottanta, i ricchi di Hong Kong investivano molto in posti come Shenzhen, si comportavano come grandi magnati. Ora i cinesi sono ricchi e noi siamo i loro schiavi. Quando vengono qui si comportano come se la città fosse una loro colonia. Non gli importa cosa pensiamo, fanno quello che vogliono perché il governo glielo permette. È Pechino che controlla tutto”. Più di qualsiasi statistica economica, è l’inversione dei ruoli a sconcertare molte persone. E l’atteggiamento intransigente, perino aggressivo, di Xi Jinping peggiora le cose. Xi ha dimostrato di essere il leader cinese più forte da decenni. Dall’inizio della sua presidenza, nel 2013, la stessa società civile cinese è continuamente sotto attacco. Avvocati impegnati nella difesa dei diritti umani finiscono sotto processo, e le università devono rispettare una rigida linea ideologica. In questo clima, il movimento per la democrazia di Hong Kong è accusato di essere strumentalizzato dall’occidente, il cui scopo ultimo sarebbe sovvertire la Cina e minacciare la sua stabilità incoraggiando il liberalismo. Futuro distopico Xi Jinping è stato quasi altrettanto aggressivo a livello internazionale, soprattutto in Asia: ha rafforzato la marina militare, ha avviato la costruzione di isole artificiali nel mar Cinese meridionale e ha lanciato ambiziosi progetti continentali. Iniziative di politica estera così audaci contribuiscono a renderlo molto popolare, ma a Hong Kong come a Taiwan suscitano più timore che orgoglio. “Nessuno si aspettava che la Cina crescesse tanto in dieci anni né che il declino di altre potenze fosse così rapido. E le sorprese continuano con Donald Trump alla guida degli Stati Uniti”, dice Lam Waiman, docente all’Open university di Hong Kong. “Siamo abbastanza ottimisti per il futuro economico della Cina, ma non per quello politico”. Nel 2012 molti a Hong Kong hanno giudicato l’insediamento del governatore Leung, oggi estremamente impopolare, un attacco premeditato contro i movimenti democratici della città. La cerimonia d’insediamento, organizzata con grande cura e quasi certamente approvata da Pechino, è stata condotta interamente in mandarino, la lingua ufficiale della Cina poco usata a Hong Kong (la lingua locale, il cantonese, è una componente importante dell’identità cittadina). Durante il giuramento Leung non ha mai pronunciato la parola “Hong Kong”, attirandosi molte critiche e una richiesta d’impeachment. Alla fine del 2015 nei cinema della città è uscito ‘Ten years’, un film rivoluzionario che immagina come sarà Hong Kong nel 2025. È costituito da cinque storie ambientate in un futuro distopico, ognuna diretta da un regista diverso. Nella prima, Extras, sicuramente la più pessimista, i partiti politici tradizionali propongono un’ideologia basata sull’obbedienza e su un insensato materialismo a un pubblico formato da persone anziane o di mezza età. Ma con i giovani le esortazioni a stare tranquilli, lavorare sodo e accontentarsi del proprio destino non funzionano. Sembra che Pechino stia perdendo la sua presa sulla città. La soluzione, ideata da un inviato del governo cinese, è far scoppiare una crisi da usare come pretesto per prendere il controllo della città. “Più si diffonde il panico meglio è”, dice l’inviato. Due piccoli criminali vengono reclutati per sparare a due consiglieri della città. L’episodio si conclude con una schermata nera su cui scorrono i complimenti alla polizia per la sua pronta reazione all’attacco terroristico promosso da “potenze straniere ostili”, la dichiarazione che i sospettati sono stati uccisi sul posto e l’annuncio che, per mantenere l’ordine in città, entrerà immediatamente in vigore una nuova legge per la sicurezza nazionale. La forza di Extras era che faceva immaginare i metodi sinistri che Pechino potrebbe usare per garantirsi il controllo di Hong Kong. Meno di un anno dopo ha cominciato a diffondersi il sospetto che qualcosa di simile potesse succedere sul serio. Molti gruppi di studenti che lottano per la democrazia, per esempio, dicono che tra loro ci sono degli infiltrati pronti a provocare un incidente su ordine di Pechino, che lo userà per giustificare un suo intervento. L’attuale situazione di crisi permanente della città è in parte la conseguenza inattesa di una decisione presa con le migliori intenzioni dal Regno Unito, da Hong Kong e perfino da Pechino di concederle un periodo di autogoverno di cinquant’anni. Ma anche dell’inflessibilità di un sistema politico ottuso e fondamentalmente insicuro di fronte a un cambiamento generazionale e a una richiesta di vera democrazia. È più facile capire i rapporti tra Hong Kong e Pechino in termini di accelerazione dei cicli. Appena i politici progressisti si mostrano un po’ accomodanti nei confronti di Pechino vengono screditati e sostituiti da colleghi più giovani e più radicali, la cui in capacità di ottenere risultati provoca impazienza e porta a un’ulteriore radicalizzazione. La radice di tanta insofferenza è soprattutto il desiderio di quella vera autonomia che era stata promessa nel 1997. Qualcuno ormai è così frustrato da invocare l’indipendenza, cosa che non era prevista dall’accordo tra Londra e Pechino. Vero patriottismo Il primo e più lungo di questi cicli concise con la lenta ascesa, a partire dagli anni settanta, di un gruppo di progressisti che combinavano attivismo per la democrazia, sentimento patriottico nei confronti della Cina e lotta alla corruzione. Quando negli anni ottanta i britannici introdussero i primi elementi di democrazia rappresentativa nella colonia, molti di loro ottennero incarichi politici e, una volta stabiliti i termini del trasferimento di poteri, si mostrarono ottimisti sul futuro della città. Erano avvocati, studiosi e professionisti intenzionati a dimostrare a Pechino che la città poteva essere non solo un centro economico ma anche una sorta di laboratorio di virtù civili. Lavorando con pazienza dall’interno del sistema, erano sicuri di poter ottenere il suffragio universale e rendere gradualmente Hong Kong più autonoma dalla Cina. Nei primi anni dopo il passaggio di consegne del 1997, molti appartenenti a questa coalizione pandemocratica erano convinti che con il loro esempio, e grazie all’impegno dei cittadini che investivano in aziende del continente, la città avrebbe potuto ottenere dalla Cina maggiori libertà. Per alcuni diventò un credo legato alla loro stessa identità: fare da catalizzatori del nuovo progressismo nel continente era loro dovere di cittadini della Grande Cina. Era l’esatto contrario del separatismo che il regime comunista tanto temeva. Era vero patriottismo. Ma con il passare del tempo i pandemocratici cominciarono a essere giudicati troppo accomodanti nei confronti di Pechino. Nel 2009 le autorità di Hong Kong annunciarono il progetto di collegare la città all’alta velocità ferroviaria in costruzione sulla terraferma. I pandemocratici si opposero al progetto, ma il consiglio legislativo lo approvò. Nacque immediatamente un movimento di protesta che comprendeva non solo le comunità direttamente coinvolte, ma anche molte altre persone che lo consideravano un tentativo subdolo di Pechino per inglobare la città. Andando indietro nel tempo, molti considerano le proteste contro la ferrovia un punto di svolta nella cultura politica di Hong Kong, il momento in cui si cominciò a pensare che i pandemocratici fossero inconcludenti e che l’unico modo per difendere i diritti della città fosse manifestare. La grande svolta è arrivata nel 2010, quando il governo cinese ha cercato d’introdurre nuovi manuali di storia improntati al nazionalismo. La riforma dei libri di testo, o “campagna per l’educazione morale e nazionale”, si legava al timore che a Hong Kong stesse emergendo un forte senso d’identità locale che avrebbe potuto alimentare il separatismo, com’era accaduto a Taiwan. Ma era una mossa sbagliata e si è ritorta contro Pechino. “I libri dicevano che quando si alzava la bandiera dovevamo piangere per dimostrare il nostro amore per il paese”, racconta Ng Sin Hang, un ragazzo di 21 anni dai capelli ricci e l’aria solenne che quando ha cominciato a partecipare alle manifestazioni di protesta contro i libri di testo era appena adolescente. “Come molte persone, pensavo che quei manuali fossero un tentativo di fare il lavaggio del cervello. Non puoi costringere qualcuno a provare un’emozione, ma quei libri dicevano che dovevamo amare il nostro paese indipendentemente da quello che faceva o aveva fatto”. Il movimento contro i manuali di storia s’ingrandì. Il 29 luglio del 2012, davanti al palazzo del governo, si riunirono circa centomila manifestanti. Erano guidati da Joshua Wong, un ragazzo di 17 anni dall’aspetto minuto, gli occhiali con la montatura spessa e i capelli a scodella, che stava diventando il leader dell’opposizione più importante della città: era a capo del gruppo Scholarism, che poi si sarebbe sciolto. Alla fine Pechino fu costretta a fare un passo indietro.  Chiari avvertimenti Per quanto sorprendente, è stato l’ultimo successo dei movimenti contro l’establishment di Hong Kong. Per paura di proteste come quelle di piazza Tiananmen del 1989, i leader cinesi sono particolarmente diffidenti nei confronti dei movimenti studenteschi e non vogliono fargli altre concessioni. Dal 2012 hanno un atteggiamento di maggior fermezza, e lasciano intendere che qualsiasi richiesta d’indipendenza sarebbe considerata un tradimento. In mancanza di valvole di sfogo, stanno succedendo due cose. Gli abitanti di Hong Kong, soprattutto i giovani, partecipano sempre di più a tutte le iniziative contro il governo, e hanno anche deciso che i pandemocratici fanno ormai parte dell’establishment. Spesso li mettono sullo stesso piano dei politici filocinesi e li chiamano old seafood (pesci vecchi), con un malizioso gioco di parole, perché il suono di seafood è molto simile a quello della parola cantonese che significa “stronzi”. “I pandemocratici si sentono cinesi, ritengono Hong Kong parte della Cina e credono che possiamo avere un governo pienamente democratico pur rimanendo cinesi e sotto il controllo di Pechino”, dice Lewis Lau, un noto blogger e scrittore che definisce Hong Kong una colonia cinese. “Ci stanno portando nella direzione sbagliata. Odiano l’idea dell’indipendenza, e se Pechino si arrabbia non ci darà mai la democrazia. Ma secondo noi non ce la concederebbe comunque”. I localisti L’aumento delle persone che la pensano come Lau rilette la rapida radicalizzazione dei cittadini sotto i quarant’anni. Questo netto cambiamento nell’opinione pubblica è emerso chiaramente alle elezioni del settembre 2016 per il rinnovo del consiglio legislativo, quando più del 20 per cento degli elettori ha votato per candidati che chiedevano una maggiore autodeterminazione o addirittura l’indipendenza. Appena quattro o cinque anni fa, la percentuale di quelli che avanzavano richieste simili era insignificante. “Io sono di Hong Kong, e penso che la città dovrebbe avere una sua sovranità, un suo governo e i suoi confini”, dice Lau. “Quando andiamo all’estero dobbiamo scrivere sui moduli dell’ufficio immigrazione che siamo di nazionalità cinese, e ogni volta mi fa uno strano effetto, perché non mi sento cinese. Vivo qui. Ho passato tutta la mia vita qui e non ho nessuna familiarità con la Cina. Non sono in sintonia con niente di quello che vedo in Cina”. Lau è uno degli esponenti più eloquenti di un movimento che è stato chiamato Localismo, ma che nel corso del tempo si è molto frammentato. Alcuni dei suoi rappresentanti vorrebbero la totale indipendenza, mentre altri invocano solo una maggiore autonomia e più difesa della cultura di Hong Kong, compresa la riduzione del turismo dal continente e misure di salvaguardia contro la sostituzione del cantonese con il mandarino. Una fazione, guidata dal noto professore di studi cinesi Chin Wan-kan, considera Hong Kong un’incarnazione della Cina più vera della Cina stessa (quest’anno il contratto di Chin Wan-kan all’università dove lavorava non è stato rinnovato, secondo molti per motivi politici). Altri gruppi, ancora più piccoli, sostengono addirittura che Hong Kong dovrebbe tornare sotto il controllo britannico. I giovani dei movimenti hanno ottenuto il loro massimo successo nel 2014, quando per 79 giorni nelle strade del distretto commerciale si sono svolte le più straordinarie proteste che la città abbia mai vissuto. A scatenarle era stato il fatto che i pandemocratici non erano riusciti a ottenere la riforma del sistema elettorale. Quelle manifestazioni, che poi hanno preso il nome di Occupy central with love and peace, sono diventate famose non solo per le decine di migliaia di persone che vi partecipavano ogni giorno, ma anche perché tutti portavano un ombrello giallo, all’inizio per difendersi dai lacrimogeni e dagli attacchi della polizia con i manganelli (da qui il soprannome di Movimento degli ombrelli). Il leader di Occupy central era lo stesso Joshua Wong che nel 2012 aveva alimentato le proteste contro i programmi di storia. All’inizio le manifestazioni spinsero molti cittadini, anche anziani, a credere che con la forza del popolo Hong Kong avrebbe potuto finalmente vincere la sua lotta per una vera democrazia.
Ma alla fine non hanno portato a nulla, e improvvisamente Wong e gli altri organizzatori si sono ritrovati a essere considerati degli ingenui romantici che portavasi illudevano di poter vincere con il metodo della non violenza di Gandhi come i pandemocratici si illudevano che bastasse avere pazienza e procedere gradualmente.
“Visto che avevano funzionato, le proteste contro l’istruzione patriottica erano considerate un modello da seguire, come Davide che si ribellava contro Golia”, dice Alan Lai, un trentenne che ha contribuito a organizzare varie manifestazioni. “Ma quando con Occupy central non siamo riusciti a cambiare niente, molti hanno cominciato a dire che eravamo solo un branco di hippy che si illudevano di poter far cambiare idea a Pechino”. Per reazione alcuni manifestanti si sono ulteriormente radicalizzati. Nel 2016, durante le tradizionali celebrazioni per il nuovo anno, hanno lanciato mattoni e altri oggetti contro la polizia. “Forse non è ancora arrivato il momento, ma non possiamo escludere la violenza”, dice un attivista che si fa chiamare Johnny. Altri provano uno strisciante senso di apatia, che è probabilmente quello in cui spera Pechino. “Stiamo provando qualcosa di simile alla generazione cinese del dopo Tiananmen”, dice un attivista di nome Xeron Chen. “Puoi vivere bene, ma se pensi sempre alla democrazia ti deprimi, perché tutte le informazioni che riesci ad avere ti portano alla conclusione che non puoi fare nulla. La cosa più spaventosa non sono i poliziotti con le pistole, ma le persone che perdono la speranza”. Resistenza Chen, che è stato un esponente dello Scholarism fino a quando il movimento non si è sciolto, si lamenta del fatto che i movimenti più recenti, come Youngspiration, sembrano non sapere come realizzare i cambiamenti politici che vorrebbero. Da parte sua, Chen ha deciso di predicare la democrazia strada per strada e di cercare di conquistare i cuori e le menti parlando tutti i giorni con le persone. “Invocare il cambiamento senza idee concrete è solo demagogia”, dice. Ma altri giovani attivisti considerano le riforme politiche una battaglia generazionale che non finirà mai. “Dobbiamo amare Hong Kong”, dice uno di loro che si fa chiamare Greg. “È la nostra patria. Dobbiamo difenderla, ed è per questo che abbiamo scelto di non andare a vivere altrove. Dobbiamo lottare per i nostri diritti. Se non lo facciamo, il governo del continente ci porterà via tutto, una cosa alla volta. Ci vorrà tempo, forse trenta, sessanta, cent’anni per ottenere quello che vogliamo. Ma è importante lottare per queste cose, per la nostra Hong Kong”.  Da sapere La storia dell’isola - 1842 Dopo la prima guerra dell’oppio la Cina cede al Regno Unito l’isola di Hong Kong. - 1941 Il Giappone occupa Hong Kong. - 1946 Il Regno Unito ristabilisce un governo civile dell’isola. - 1981 Regno Unito e Cina cominciano a parlare del futuro dell’isola. - 1984 Londra e Pechino firmano una dichiarazione congiunta che prevede il passaggio di Hong Kong alla Cina nel 1997. L’accordo stabilisce che l’isola farà parte del paese comunista, ma sotto la formula “un paese, due sistemi” manterrà un’economia di tipo capitalistico per i cinquant’anni successivi al 1997. - 1997 Hong Kong passa dall’amministrazione britannica a quella cinese. - 2007 Pechino annuncia che permetterà agli abitanti di Hong Kong di eleggere direttamente il loro governatore nel 2017 e i deputati del consiglio legislativo nel 2020. - 2014 Il 90 per cento delle 800mila persone che votano in un referendum non ufficiale chiedono che i cittadini abbiano più voce in capitolo nella selezione dei componenti del comitato incaricato di eleggere il governatore nel 2017. Pechino non riconosce il risultato e più di centomila persone occupano il centro di Hong Kong per settimane, senza però ottenere alcuna concessione. - 2017 A marzo Carrie Lam diventa la nuova governatrice di Hong Kong. Bbc