domenica 30 aprile 2017

Internazionale 28.4.2017 
La grande regressione
Quindici intellettuali fanno il punto sui danni politici e sociali causati dai nuovi populismi
di Nicolas Truong, Le Monde, Francia  

Chiusura in se stessi, affermazione di demagoghi autoritari, diffusione su scala mondiale di una specie di sessantotto alla rovescia: il mondo sembra sprofondato in una grande regressione. Il momento che attraversiamo è così critico che un giovane editore tedesco ha avuto l’idea di mobilitare quindici intellettuali di tutto il mondo per offrire degli strumenti di riflessione su questa situazione e per cercare di trovare dei rimedi: Arjun Appadurai, Zygmunt Bauman, Donatella Della Porta, Nancy Fraser, Eva Illouz, Ivan Krastev, Bruno Latour, Paul Mason, Pankaj Mishra, Robert Misik, Oliver Nachtwey, César Rendueles, Wolfgang Streeck, David Van Reybrouck e Slavoj Žižek. Tutti hanno cercato di capire le ragioni della regressione per rianimare una sinistra smarrita di fronte all’egemonia della destra. Redattore dal 2006 presso Suhrkamp, famosa casa editrice berlinese che pubblica i più importati pensatori tedeschi, Heinrich Geiselberger è l’artefice di questo libro collettivo che è uscito quasi in contemporanea in tredici lingue (in Italia sarà pubblicato da Feltrinelli l’11 maggio con il titolo La grande regressione). L’idea è nata dopo gli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi, a partire da domande semplici ma profonde, spiega il curatore: “Come siamo arrivati a questa situazione? Quale sarà la nostra situazione fra cinque, dieci o vent’anni? Come mettere fine a questa regressione globale e come sviluppare un movimento inverso?”. Ancora traumatizzata, la sinistra intellettuale cerca di mobilitarsi, di leccarsi le ferite e di avere nuove idee, perché quello che stiamo attraversando non è solo un periodo di “deglobalizzazione” ma anche un processo di “decivilizzazione”, assicura Oliver Nachtwey, sociologo dell’università di Darmstadt. Ovunque la sublimazione delle pulsioni, cioè quella capacità di controllare gli affetti che permette a una civiltà di costruirsi e distinguersi dalla barbarie, sta scomparendo, tanto nelle piazze quanto sui social network. A forza di essere declassati, emarginati, trascurati e soprattutto abbandonati a se stessi in un universo sociale devastato, gli sconfitti della globalizzazione hanno accumulato un immenso risentimento nei confronti dei profughi o delle minoranze, che ai loro occhi sono trattati meglio. Così il capitalismo sta evolvendo verso una “modernizzazione regressiva”, continua Nachtwey. Di fronte all’aumento delle disuguaglianze e al sentimento di perdita dei punti di riferimento e d’identità, “il risentimento si è trasformato in un’epidemia globale”, scrive l’indiano Pankaj Mishra. Questa grande regressione non è solo un sentimento passeggero di isolamento né una semplice fase negativa, ma un vero e proprio cambiamento, secondo il politologo bulgaro Ivan Krastev: “Stiamo assistendo alla distruzione del mondo che era stato edificato all’indomani della caduta del muro di Berlino nel 1989”. Il timore di essere sommersi dalle ondate migratorie e di scomparire nella spazzatura della storia ha reso “l’opinione pubblica occidentale che un tempo era movimento progressista e rivoluzionario, una forza reazionaria”. L’Europa come rifugio Come può oggi un impiegato o un operaio essere internazionalista se la globalizzazione è sinonimo di lussi finanziari e perdita di sovranità? È probabilmente uno dei molti punti significativi del libro, il cui carattere collettivo comporta tuttavia delle ripetizioni: gli autori hanno voluto capire prima di giudicare. E tutti sono d’accordo sull’interpretazione dei fatti. Recep Tayyip Erdoğan in Turchia, Narendra Modi in India, Vladimir Putin in Russia o Donald Trump negli Stati Uniti, che ha promesso “ai bianchi di ridiventare la classe dominante della nazione”: è “la perdita di sovranità economica che provoca ovunque una reazione basata sull’idea di sovranità culturale”, spiega l’antropologo indiano Arjun Appadurai. Il neoliberismo globale provoca un “etnonazionalismo” che è il marchio di fabbrica di tutti i populismi. Per questo motivo bisogna uscire dall’alternativa tra “neoliberismo progressista” e “populismo reazionario”, osserva la filosofa statunitense Nancy Fraser. Secondo lei, gli elettori di Donald Trump hanno rifiutato in massa proprio questo: l’alleanza fra il multiculturalismo e la Silicon valley, fra l’antirazzismo e Wall street, fra la difesa dei diritti lgbt e Hollywood – così caratteristica del “progressismo” di Bill e Hillary Clinton negli Stati Uniti. Per Nancy Fraser il “neoliberismo progressista” è colpevole di aver disprezzato la popolazione più umile, paragonata da Hillary Clinton a un “branco di miserabili” e di aver provocato la “rabbia legittima” dei sostenitori di Trump. Bisogna però fare attenzione alle conclusioni frettolose. Per contenere questa regressione mondiale, la sinistra deve da un lato continuare ad accogliere gli stranieri e a proteggere i diritti sociali, e dall’altro farla finita con un pensiero di sinistra da campus universitario completamente scollegato dalla realtà. Contro la presunta vox populi della destra una “moltitudine democratica” deve reinventare una grande storia emancipatrice “postliberista”, afferma Arjun Appadurai. “Il fallimento narrativo del neoliberismo”, confermato dalle varie insurrezione elettorali, è evidente, osserva il giornalista britannico Paul Mason, che propone una delle letture più personali e illuminanti delle ragioni dell’attuale deglobalizzazione. La sinistra dovrà farla finita con la sua “retorica difensiva” (basata sui diritti sociali e sullo stato assistenziale), spiega lo scrittore austriaco Robert Misik, perché la migliore difesa è l’attacco, cioè “il coraggio della speranza”. Contro il “panico migratorio” che s’impadronisce di una parte della popolazione, bisognerà “mantenere il sangue freddo, avere nervi d’acciaio e molto coraggio” per puntare sul dialogo tra civiltà e non sullo scontro tra culture, insiste in uno dei suoi ultimi scritti Zygmunt Bauman, il sociologo inglese di origine polacca morto lo scorso gennaio. “La democrazia liberale tedesca non potrà sopravvivere in mezzo a un oceano di populismo autoritario europeo”, fa notare Appadurai. L’Europa può diventare un “rifugio”, assicura il sociologo francese Bruno Latour. Un rifugio per gli esiliati ovviamente, ma anche per tutti coloro che rifiutano le tendenze autoritarie, un riparo certo per chi ha ormai la Terra intera come unica patria. In questo libro il termine “regressione” non è usato per psicologizzare la politica, ma perché l’economia influenza i corpi, e in questi tempi di smarrimento è importante parlare sia al cuore sia alla mente.    (gloria) Internazionale 18.4.2017 La ricerca in marcia Fisici, biologi, matematici: gli scienziati hanno manifestato a Washington per difendere la ricerca e il valore delle prove scientifiche. Una mobilitazione senza precedenti di Ed Yong, The Atlantic, Stati Uniti  Sabato 22 aprile, mentre migliaia di persone partite dal monumento di George Washington cominciavano a sfilare verso est, gli slogan che di solito accompagnano le manifestazioni si sentivano appena: “Sapere è potere”, gridavano sei entusiasti senza suscitare alcuna reazione. “Cosa vogliamo? La ricerca scientifica! Quando la vogliamo? Dopo la peer review!” (cioè dopo la revisione fatta da esperti del settore) , gridava un’altra manciata di manifestanti. Negli Stati Uniti gli scienziati di solito non hanno grande familiarità con la militanza politica. La maggior parte se ne tiene alla larga, preferendo limitarsi alla ricerca. Ma per molti questa distanza storica è sparita con l’elezione di Donald Trump. La sua amministrazione ha negato il cambiamento climatico, corteggiato gli avversari dei vaccini, tentato di mettere il bavaglio agli scienziati del settore pubblico, proposto tagli che rischiano di “creare una generazione perduta della scienza statunitense” e spinto per una legge che farebbe arretrare la tutela ambientale e la sanità pubblica, favorirebbe la discriminazione genetica ed eliminerebbe le evidenze scientifiche dai processi decisionali. Percependo un’aggressione su più fronti – al posto di lavoro, ai fondi, al valore stesso dell’empirismo – gli scienziati hanno cominciato a fare politica. “Quando in tutto il mondo si protesta per la scienza, allora qualcosa non va”, ha detto ai manifestanti il neuroscienziato della Rockefeller university Erich Jarvis. Insieme ad altri 610 eventi organizzati in tutto il mondo, migliaia di persone – forse decine di migliaia – si sono riunite a Washington in una giornata cupa e piovosa. Indossavano cappellini di lana a forma di cervello, camici di laboratorio, spillette con la scritta “i fatti contano”, costumi da squalo e, soprattutto, impermeabili. Com’era prevedibile, esibivano strani cartelloni con equazioni, freddure incomprensibili ai profani, parole scritte usando le sigle degli elementi chimici della tavola periodica e tantissime battute. “Rendi di nuovo grande la barriera corallina”. “Se non sei parte della soluzione, sei parte del precipitato”. “Ecco il mio seno” (con l’immagine di una sinusoide). Malgrado l’insistenza degli organizzatori sul fatto che l’evento non fosse di parte, l’ostilità verso Trump si percepiva chiaramente. Una signora aveva scritto “Al diavolo Trump” in codice binario. Altri scherzavano sul fatto che “Trump è come un atomo: crea di tutto”. Obiettiva, non neutrale Il rischio che la manifestazione divida ulteriormente l’opinione pubblica statunitense, presentando la scienza come qualcosa di sinistra e riducendone l’obiettività, ha segnato l’evento in dall’inizio. “La scienza è obiettiva, ma non neutrale”, ha però precisato Kellan Baker, collaboratore transgender della Johns Hopkins Bloomberg school of public health che ha parlato dal palco. Tra le altre 54 persone che hanno preso la parola davanti alla folla, c’era Georges Benjamin, consigliere delegato dell’American public health association, secondo cui “dobbiamo assicurarci che a guidare le decisioni politiche siano i dati e le prove, non l’ideologia disinformata”. “Bisogna sostenere anche la ricerca che non sembra avere un’importanza immediata”, ha detto la biologa Lydia Villa-Komarof, che negli anni settanta dimostrò, insieme ad altri scienziati, come dai batteri si potesse ricavare l’insulina aprendo la strada alla terapia oggi usata da chi soffre di diabete. Dovremmo “ritenere responsabili di fronte alle legge i funzionari pubblici” per la riduzione delle norme che garantiscono aria e acqua pulite, ha affermato Mustafa Santiago Ali, dimissionario dal programma per la giustizia ambientale dell’agenzia per l’ambiente (Epa) di cui era a capo. Erich Jarvis ha invitato i due principali partiti a continuare a sostenere la ricerca scientifica: “La scienza ha sempre ricevuto il sostegno bipartisan del congresso e io sono l’esempio di come questo sia importante”. Afroamericano cresciuto in un quartiere povero di New York, Jarvis ha usufruito dei programmi governativi a sostegno delle minoranze. “Mi hanno permesso di diventare scienziato e dare un contributo alla società. In quattro anni senza finanziamenti perderemo tempo prezioso per formare gli scienziati di domani”.