Repubblica
Le lacrime di Matteo «Mi hanno mandato a casa»
A
Palazzo Chigi sfogo con Lotti e Sensi: “Se così tanti votano significa
che il Paese vuol mandarmi a casa”. Però i voti sono 2 milioni in più
del 2014. “E allora potremmo ripartire da qui”
La solitudine del premier “Sotto assedio io non ci sto piuttosto via dalla politica”
di Goffredo De Marchis
ROMA.
La tentazione di mollare tutto, Palazzo Chigi e segreteria del Pd,
tornare veramente a casa a Rignano, lasciare la politica come disse un
anno fa nella conferenza stampa di fine anno lanciando la lunghissima
campagna referendaria. Tensione al massimo, tutti pendono dalle labbra
di Matteo Renzi. La parola tocca a lui, il resto della truppa ha il
volto paonazzo di chi ha preso una brutta botta.
Renzi è chiuso
nella sua stanza al primo piano della sede del governo. Ha rischiato e
si è rotto l’osso del collo, come ama dire. L’aria è pesantissima e i
dati sull’affluenza danno la reale dimensione di un capitombolo,
lasciando intravedere la sentenza più inaspettata: «Se tante gente va a
votare e vince il No, vuol dire che il Paese intende mandarmi a casa».
Un responso elettorale, quindi, una rivolta contro di lui. E il Paese
profondo non sta nelle condizioni sociali ed economiche immaginate dalla
sua narrazione.
All’amico ritrovato Matteo Richetti, qualche
giorno fa aveva confessato: «Sono stanco, stanchissimo ». Non solo del
lungo viaggio per l’Italia, delle notti in bianco, delle maratone in tv.
Ma del non essere stato compreso in uno sforzo, secondo Renzi,
sovrumano. «Per riportare l’Italia al vertice dello scenario europeo e
mondiale, al suo posto». Questo pensava di aver fatto nei mille giorni
di governo. Parole confidenziali tra amici, che oggi assumono un altro
significato: la resa e la consapevolezza di una sconfitta bruciante, una
freccia conficcata nel cuore del renzismo. «Non posso fare finta di
niente, davvero non sono come gli altri».
Il modello è il Prodi
che torna a Bologna dopo essere stato sfiduciato dal Parlamento. Ma lì
c’erano i giochi di palazzo, i tradimenti, le coltellate alle spalle.
Qui invece il voto degli elettori. Lo andranno a cercare fin su le
colline del Valdarno sapendo che è l’unico leader della sinistra in
grado di vincere le elezioni, presto o tardi che siano? Ma il suo
orizzonte forse non è quello di David Cameron che dopo la Brexit è stato
immortalato su una banchina a mangiare fish and chips. Ma non è ai
precedenti che Renzi pensa chiuso nel suo ufficio a Palazzo Chigi. Con
Luca Lotti, il portavoce Filippo Sensi, il fotografo Tiberio Barchielli,
la squadra instancabile della corsa al vertice. Altri ministri,
compresi Maria Elena Boschi e Dario Franceschini, sono a Largo del
Nazareno, nella sede del Partito democratico.
Il futuro della
politica italiana è un rebus che il premier non risolve stanotte. Oggi
pensa a sè e all’amaro della sconfitta. Con zero segnali positivi anche
se nella war room renziana qualcuno mostra a “Matteo” alcuni dati. Se
l’affluenza sfiora il 70 per cento anche con il 40 per cento di Sì,
Renzi intercetta 13 milioni di voti. Sono due in più di quelli presi nel
2014 alle Europee quando il Pd conquistò mil 41 per cento. E con il 45
per cento i consensi sarebbero adirittura 15 milioni. «Ripartiamo da
qui», suggerisce qualcuno nella stanza di Renzi.
Si può fare.
Tenere la segreteria, dare le carte per un nuovo governo fotocopia che
conduca in porto la legge di bilancio e i decreti di fine anno, pilotare
la legge elettorale e sfidare subito i nemici interni convocando il
congresso dem rimanendo in sella. Dipende dal dato finale. Con un Sì
attestato al 45 per cento o sopra, Renzi organizzerà la rivincita, una
nuova sfida combattendo «l’accozzaglia». Ma con il 40 per cento, sarà
tutto più difficile. «Comincerà un assedio dentro il Pd, la minoranza e
le correnti chiederanno di cambiare tutto, non solo il segretario. Basta
primarie aperte, voto solo per gli iscritti, un’ offensiva rispetto al
Partito della Nazione. Al grido: mai più gli elettori di Cosentino e
Verdini ai gazebo del Pd. Li conosco».
Gli alleati per tenere
almeno la segreteria non mancheranno. I franceschiniani, i giovani ì
turchi, insomma una maggioranza solida per affrontare il congresso e
rivincerlo. Ma a quali condizioni? Cedendo su cosa? Già nelle prossime
ore, confida il presidente del Pd Matteo Orfini, verranno convocati gli
organismi del partito, ovvero una direzione. Potrebbe partire subito il
percorso congressuale, prima che si saldi un’asse tra la minoranza e
altre componenti. Pier Luigi Bersani, qualche settimana fa, era stato
chiarissimo: «Cambiamo le regole del congresso, apriamoci alle
associazioni e immaginiano anche un segretario che non venga dal gruppo
dirigente dem». Dario Franceschini è come al solito l’ago della
bilancia. Ai suoi ha raccomandato: «Ricordatevi come si comportavano i
vecchi democristiani. Non si fanno mosse azzardate, calmi con le
dichiarazioni fino a quando la crisi non si manifesta nella sua
pienezza». Il clima rischia di virare al brutto anche dentro il Pd.