Repubblica 9.12.16
Rasputin
Il monaco nero e l’Apocalisse della Santa Russia
Il
16 dicembre del 1916, avvelenato e trafitto dai proiettili, moriva a
San Pietroburgo l’uomo che si vantava di tenere “l’Impero nelle mani” Da
questo delitto, il primo atto che porterà a Lenin e alla Rivoluzione,
incomincia il viaggio di Ezio Mauro che proseguirà per tutto il 1917
di Ezio Mauro
Venuto
dalla Siberia convinse l’imperatrice Alix di poter guarire il piccolo
erede al trono. Ben presto il suo potere si estese al governo e
all’esercito
Il complotto per ucciderlo rischiò più volte di fallire
“Se muoio”, disse profetico, “morirà la famiglia imperiale”
La moglie di Nicola II lo sognerà: “Vi metteranno tutti al rogo”
Dopo la Rivoluzione il suo corpo fu bruciato e le ceneri disperse
Cronache
di una rivoluzione è anche un docufilm. La prima puntata è online da
oggi su Repubblica. it con Ezio Mauro nei luoghi della San Pietroburgo
di Rasputin
SAN PIETROBURGO Cent’anni dopo, c’è un
mazzo di garofani rossi nel punto dove tutto è incominciato. Proprio
qui. Salì la scala a chiocciola rovesciandosi sulla ringhiera, con la
pallottola nel costato, poi si fermò sul pianerottolo. Spalancò la porta
con un urlo da animale e si lanciò fuori barcollando e premendosi il
petto, correndo curvo nei due gradi e mezzo notturni del cortile
deserto. Chissà cosa riuscì a vedere nel buio, nell’agonia, nel palazzo
che dormiva, nello splendore morente della Russia imperiale. L’ultima
forza vitale lo portò verso il cancello, giù in fondo, mentre gridava il
nome del suo assassino. Due spari a vuoto, due rivoltellate, lo fecero
oscillare di terrore poi un colpo preciso alla schiena sembrò
paralizzarlo, immobile, e subito dopo un colpo alla testa lo gettò a
terra con la braccia spalancate e le mani che afferravano la neve di
Pietrogrado, quel sabato16 dicembre del 1916.
Nessuno sapeva che
l’impero aveva le ore contate nella sua capitale eppure tutti gli
spettri del caos si radunarono proprio qui, nel palazzo principesco,
mentre cominciava lentamente a schiarire tra la nebbia che saliva dalla
Mojka e sembrava come sempre fabbricata direttamente dal canale. Alla
stessa ora, oggi, “Piter” è addormentata e silenziosa come allora, non
c’è più il poliziotto Vlasjuk nella garitta che corre al primo sparo coi
suoi stivali di feltro, dalle finestrelle del seminterrato non si
allarga più nel cortile la musica americana di Yankee Doodle suonata dal
grammofono dell’inganno, se n’è andato il profumo di marsala e madera
della festa omicida. Soprattutto da cent’anni non c’è più Grigorij
Efimovic Rasputin, il “santo diavolo”, lo “starez di Dio”, il “monaco
nero” che è venuto a morire qui insieme con la dinastia imperiale,
assassinato tra un sabato e una domenica nella notte sospesa sulla
rivoluzione, in agguato alle porte della città magica.
Quel
delitto è l’antecedente di ogni cosa perché è una vendetta e una
ribellione ma anche un esercizio mistico, una specie di colpo di Stato,
un sacrificio politico. È una predizione, un’evocazione, una
rappresentazione. C’è una dinastia reale estenuata dall’autocrazia
impotente dello Zar Nicolaj II e dalla nevrastenia religiosa della
zarina, che separano la Corona dal Paese e la Corte dal suo tempo,
togliendole ogni autonomia fino allo smarrimento. C’è la tempesta
politica prossima ventura che si annuncia e ribolle nelle fabbriche e al
fronte, pronta a ideologizzare l’anima russa appassionata,
confiscandola. E c’è lui, il contadino siberiano semi-analfabeta, uomo
di Dio nell’anima e peccatore nel corpo, sedicente guaritore e
sicuramente incantatore, capace di coniugare fede lussuria e profezia
nel fanatismo settario dei monaci “flagellanti”. Ma pronto soprattutto a
raccogliere nelle sue grandi mani spalancate e negli occhi color dei
fiori di lino l’angoscia da fine-di-mondo che pesava sui sovrani e
sull’impero, intercettando il sentimento dell’apocalisse e
trasformandolo in tecnica di regno e di governo.
Quando entrò nel
palazzo degli imperatori Rasputin aveva 36 anni, la barba arruffata, i
capelli lunghi, sporchi e scuri, pantaloni e stivali da contadino,
giubba di tela legata con un cordone. Ma la fama del taumaturgo gli aprì
le porte di una reggia abituata a trasformare la fede in superstizione
devota, in un Paese in cui spesso le chiese nascono sui siti degli idoli
pagani e San Basilio sorge nel luogo dove regnava Perùn terribile, dio
del fulmine e del tuono. La Corte è il punto di congiunzione dei misteri
e delle premonizioni che li anticipano nell’angoscia, perché è il luogo
dove regna questa sospensione magica e sacra della realtà, nell’attesa
di un vaticinio perenne, soprattutto da quando Alix, l’imperatrice
Aleksandra Fedorovna, non riesce a dare alla Russia un pretendente
maschio ma solo femmine, quattro, Olga, Tatjana, Marija e Anastasija.
Ecco
allora che arrivano nell’appartamento della zarina l’idiota beato
Mitja, chiaroveggente scalzo, Matrjona profetessa stracciona, Darja
santa pazza e bestemmiatrice, il curatore tibetano Badmajeff, monsieur
Philippe occultista cristiano che quando si mette il cappello diventa
invisibile, ma produce solo una gravidanza isterica, nonostante regali
alla zarina un’icona coi campanelli che suonano quando si avvicina uno
spirito maligno. Solo dopo un pellegrinaggio di tutta la famiglia col
treno imperiale all’eremo di Sarov per pregare davanti alle reliquie di
San Serafim, lunedì 30 luglio 1904 all’1,15 del pomeriggio nasce
Aleksej, lo zarevic, erede al trono dei Romanov.
Segue nelle pagine successive
Col
parto atteso da tutta la Russia Alix ha salvato la dinastia ma ha
condannato suo figlio, perché gli ha trasmesso l’emofilia tedesca di
famiglia, allora incurabile, tanto che la malattia dello zarevic viene
subito circondata da un segreto di Stato malinconico e cupo protetto dal
marinaio Derevenko che lo segue ad ogni passo per prevenire cadute,
urti, ematomi e lividi capaci di degenerare. Finché Rasputin
nell’autunno del 1907 entra nella stanza del bambino imperiale senza
luce elettrica, si inginocchia come in chiesa sotto i lumi delle icone,
accarezza la mano del piccolo zarevic, lo calma raccontandogli la storia
siberiana del cavallo gobbo e del cavaliere senza gambe e infine
annuncia ai sovrani che crescendo Aleksej guarirà completamente,
vincendo la malattia. Per la prima volta Alix, l’imperatrice, si inchina
a baciare la mano del santo contadino.
«Ho fatto la conoscenza
d’un Uomo di Dio, di nome Grigorij, della provincia di Tobolsk»,
scriverà lo Zar il giorno dopo, ed è la prima traccia di un affidamento
al taumaturgo delle due anime regnanti ma smarrite, e di un
impossessamento graduale ma impetuoso di una sovranità esausta da parte
del monaco, che in pochi anni dalle faccende familiari passerà alle
questioni religiose, agli affari di Stato, alle vicende diplomatiche,
alle scelte di guerra, alle nomine dei vescovi e dei ministri. Salito al
trono senza essere preparato, il sovrano regna senza passione («gli
manca qualcosa nel ventre», dice l’aristocrazia pietroburghese)
rifiutando i riti di Corte, cercando rifugio e sollievo solo nella
famiglia che vive ormai quasi sempre nel palazzo Aleksandr a Zarskoe
Selo, dove Alix e Nikolaj erano rimasti soli per la prima volta dopo le
nozze, dove lei ogni sera nel budoir tra i fiori freschi avvertiva il
suo arrivo nel corridoio quando il lampadario incominciava a tintinnare.
Nel
castello rimbalzano le voci dei miracoli dello starez nei villaggi e
nei campi, durante il pellegrinaggio che lo ha portato a Pietrogrado: ha
espulso il diavolo da una monaca, ha guarito le mandrie, ha sospeso la
pioggia per tre mesi. La zarina ha bisogno di sentirlo vicino, di
chiamarlo quando il figlio sta male, di affidargli l’angoscia per un
destino che sta declinando, di decifrare la catastrofe sconosciuta che
li sta sovrastando. Quando lo Zar diventa comandante in capo
dell’esercito in guerra con la Germania, lei gli affida una striscia di
stoffa che l’uomo di Dio ha impregnato col suo fluido. Quando Nikolaj
deve avere un colloquio delicato, gli ricorda di passarsi tra i capelli,
prima, il pettine che gli ha regalato Rasputin. E attorno al castello
crescono i sospetti, le invidie, le maldicenze, soprattutto adesso che
lo Zar sta al quartier generale militare di Mogilev e gli affari di
Stato finiscono nella stanza della zarina, con il parere, i veti e il
visto di padre Grigorij.
«Tra queste dita — si vantava Rasputin —
io tengo l’impero russo». E aveva ragione. Come in una corte stregata,
un monaco analfabeta dall’istinto animale decideva di cambiare il capo
del governo, di sostituire il ministro dell’Interno, di nominare il
direttore della polizia, di selezionare i candidati alle cariche
pubbliche scrutandoli negli occhi, di suggerire le scelte dello Zar:
«Quest’uomo è amato da Dio, puoi procedere». «Fermati e caccialo, sento
puzza di diavolo». Con il deperimento della sovranità regale, i rovesci
dell’esercito in guerra, una serie di governi che procedevano come nella
favola russa il cigno, il gambero e il luccio — l’uno verso l’alto, uno
indietro, uno verso il fondo — la capacità di scelta e di decisione del
monaco di Dio diventava l’unica certezza. Ecco perché ogni mattina,
tornando da messa ad Afonskoje Podvorje il contadino trovava
l’anticamera piena di soldati, ragazze, banchieri, politici, infermi
venuti fin qui in via Gorochovaja 64, passati davanti al gabbiotto della
portiera Gurolevna con le spie dell’Okhrana attorno al samovar di
stagno nero, saliti al secondo piano per bussare alla porta dell’interno
20 (rossa oggi come allora) con una supplica, una raccomandazione, una
benedizione, la speranza di un incontro mistico e sessuale, di una
guarigione.
Alle 10 suonava il telefono che troneggiava
nell’ingresso come nelle case dei ricchi (numero 646/46) e c’era una
lunga conversazione col palazzo imperiale. Intanto il monaco distribuiva
biscotti neri che le donne portavano via come reliquie sante nei
fazzoletti di seta, insieme con la biancheria di padre Grigorij che
volevano lavare personalmente, e lui le baciava tre volte sulla bocca.
Poi si chiudeva con una di loro nello studio, sul divano di ferro con la
spalliera sfondata e coperto da una pelliccia di volpe, davanti a una
sola finestra, un tavolo con due sedie, le lampadki accese sotto le
icone. Qui prendeva un bigliettino con la croce dal mucchio già pronto
sulla scrivania («Fate quel che vi chiede, Cristo è risorto ») e lo
consegnava alla supplicante come passepartout nel potere, in cambio di
baci, carezze, sesso, denaro: o anche gratuitamente. Alle visitatrici
dava appuntamento per domani, per il pomeriggio, per la sera, nelle
salette riservate dell’hotel Astoria, di Villa Rodè, del Donon o di Jar o
di Strelna dove la notte finiva all’alba con orge, bevute e le romanze
cantate dagli zingari, immancabili. Ubriaco, ballava e raccontava la sua
intimità con i sovrani, svelando quel potere arcano, superstizioso e
materiale che lo faceva definire dal popolo “lo zar sopra lo Zar”.
Ciò
che restava del potere istituzionale finì per ribellarsi. La famiglia
Romanov era passata in pellegrinaggio da Nikolaj chiedendo inutilmente
di liberare la Corona dall’umiliazione di Rasputin, la sorella della
zarina, Ella, fu accompagnata in silenzio alla carrozza per aver osato
criticare il Santo. Ma ormai lo scandalo di una reggia plagiata e
sottomessa divampava ben oltre la corte. Disegni osceni della sovrana
con Rasputin, chiacchiere, allusioni inquietano l’Imperatrice Madre.
Fino al primo giorno di ottobre, quando alla Duma va in scena
l’indicibile: «Il nome della zarina viene ripetuto sempre più spesso
insieme a quello di delinquenti che la accompagnano — accusa il deputato
d’opposizione Pavel Miljukov — Che cos’è, stupidità o tradimento? »
Ancora più pesante l’attacco del deputato Puriskevic, monarchico, il 19
novembre: «Porto ai piedi del trono l’amarezza delle masse russe e dei
soldati al fronte per i ministri diventati marionette in mano a Rasputin
e all’Imperatrice, che è rimasta tedesca sul trono russo, estranea al
Paese e al popolo».
Frastornato, braccato, il contadino prova a
rassicurare lo Zar con un biglietto: «Dio vi darà forza, vostra è la
vittoria, vostra la nave, nessuno ha il potere di salire a bordo». Ma lo
Zar sente la pressione esterna, e anche quella interna alla famiglia
dove il “Nostro Amico”, come lui e Alix lo chiamano, pesa sempre di più.
«Tutti ti ingannano — gli dice in quel mese il Granduca Nikolaj
Michailovic — anche tua moglie ti ama appassionatamente ma sbaglia per i
perfidi inganni di chi la circonda, e quel che esce dalle sue labbra è
frutto di un’abile mistificazione, non di verità». Il 10 novembre
l’Imperatore vede il suo nuovo primo ministro, Aleksej Trepov, fischiato
dalla Duma in piedi. Decide di sacrificare l’odiato ministro
dell’Interno Protopopov, protetto da Rasputin. Scrive alla moglie che il
cambiamento è ormai indispensabile: «Solo ti prego di non coinvolgere
il Nostro Amico. La responsabilità è mia e desidero essere libero nella
mia scelta». Ma Alix resiste, a difesa della santità dell’Intermediario e
del suo cerchio ristretto di potere: «Ricorda ancora una volta che hai
bisogno dell’acume, delle preghiere e dei consigli del Nostro Amico. Ah
caro, prego con fervore Dio perché ti illumini e ti faccia capire che
lui è la nostra salvezza». Il ministro resterà al suo posto, nelle mani
del contadino.
Ma ormai circolano piani governativi,
ecclesiastici, parlamentari con un unico obiettivo: uccidere Rasputin
per salvare la Russia. Strangolarlo o avvelenarlo? Rapirlo e poi
pugnalarlo in auto? Assalirlo a casa di una delle sue amanti?
Narcotizzarlo, sopprimerlo e seppellirlo nella neve? Usare le rivoltelle
di mariti gelosi e farli irrompere in casa, com’è già avvenuto? Intanto
il colonnello Komissarov porta sul tavolo del ministro cinque diverse
polveri velenose e ne sceglie una letale, dopo averla sperimentata su un
gatto. La corda che lega insieme Zar, governo, Dio e il monaco è tesa
fino all’inverosimile, sta per spezzarsi. «Finché vivrò io, vivrà anche
la famiglia imperiale — prova a esorcizzare la catastrofe Rasputin, e
non si accorge che è una profezia — Ma con la mia fine perirà
anch’essa». E il nodo si scioglie a metà novembre, quando proprio
dall’interno della famiglia imperiale nasce il progetto di morte che
diventa realtà. È infatti un principe- conte direttamente imparentato
con lo Zar la mente dell’assassinio. Feliks Jusupov aveva trent’anni,
secondo la zarina assomigliava a un bellissimo paggio, discendeva da
dignitari del Khan Tamerlano e dal camerlengo di Pietro il Grande, ma
soprattutto aveva sposato Irina Aleksandrovna, nipote dello Zar.
L’aristocrazia frustrata dal monaco-contadino, il suo successo in
società, la vergogna delle sue orge sessuali, il pervertimento della
fede cristiana, la sottomissione indecente degli Imperatori, tutto si
congiungeva per Felix in un piano eroico di ribellione, vendetta e
riscatto: bisognava eliminare Rasputin. Il principe cercò il nemico
pubblico dello
starez, il deputato Periskevic, che lo odiava per
non essere diventato ministro e lo aveva attaccato alla Duma. Trovarono
facilmente un’intesa, e il parlamentare arruolò il medico polacco
Lazovert e l’ufficiale di cavalleria Suchotin. Il principe portò
nell’operazione il suo migliore amico, il Granduca Dmitrij Pavlovic,
luogotenente nel terzo reggimento di cavalleria della Guardia, in modo
di garantire all’intero complotto quella speciale immunità che
discendeva dai membri della Casa imperiale, svincolati dalla giustizia
ordinaria, soggetti solo allo Zar.
Andarono in giro per
Pietroburgo di notte e di mattino, cercando un luogo per gettare poi il
corpo facendolo scomparire, trasformarono lo scantinato di palazzo
Jusupov — che ancora oggi ha lo stesso pavimento di pietra, il soffitto a
volta, due finestrelle basse — in una sala da pranzo con lanterne dai
vetri colorati, un tavolo e un armadio intarsiato (con gioco di specchi,
colonne, cassetti segreti) e un salotto con tappeti persiani, ricche
tende e una pelle d’orso. Coi guanti di caucciù il dottore fece in
polvere il cianuro di potassio e infarcì i petit four rosa, poi versò da
una fiala il veleno in due calici di vino su quattro. Feliks aveva da
tempo avvicinato Rasputin, fingendo di avere dolori al petto e
lasciandosi imporre le mani, e soprattutto gli disse che sua moglie
Irina — probabilmente la donna più bella di tutta la capitale — voleva
finalmente conoscerlo. Tutto era ormai pronto. A mezzanotte del 16
dicembre il dottor Lazovert si vestì da chaffeur e portò il principe
imbacuccato in una lunga pelliccia di renna e un berretto nero a
prendere il santo contadino. Salì al buio dalla scala di servizio, lo
trovò vestito con una camicia di seta azzurra con disegni di fiordalisi,
probabilmente regalo della zarina. Scesero nel buio e Rasputin si
appoggiò al braccio del suo assassino. Alle loro spalle, nello stipite
della porta del monaco divino adesso è infilato un ritratto della
famiglia imperiale, incrociando quei destini lungo tutto il secolo.
Irina
era rimasta in Crimea, terrorizzata dal piano che la voleva come esca.
Mentre il principe Feliks e lo starez scendevano dalla scala a
chiocciola nello scantinato, i quattro complici al primo piano
azionarono il grammofono parlando a voce alta, fingendo la coda di una
festa con gli invitati che stavano per andarsene. Aspettando Irina,
Grigorij prese dal vassoio del principe i pasticcini avvelenati, bevve
due coppe di madera col cianuro. Forse le dosi erano sbagliate, forse i
tempi erano calcolati male. Terrorizzato, Feliks lo guardava bere e
mangiare senza crollare, cominciava a credere nelle leggende
stregonesche, non riusciva a reggere lo sguardo del Santo e trovò una
scusa per salire al piano di sopra. Prese la rivoltella del Granduca e
scese tenendola dietro la schiena. «Sto guardando questo strano
armadio», stava dicendo Rasputin in piedi di spalle. «Faresti meglio a
guardare il crocefisso e dire una preghiera», gli rispose il principe
puntando l’arma. Il contadino si voltò, in tempo per urlare mentre
Jusupov sparava e poi cadde a terra sulla pelliccia d’orso.
Scesero
tutti, guardarono il vero padrone di Pietrogrado che agonizzava,
spensero la luce e chiusero la porta a chiave. Ma poi il principe scese
di nuovo, tastò il polso al monaco e con orrore vide aprirsi l’occhio
sinistro, quindi il destro, fissi su di lui. E improvvisamente Rasputin
balzò in piedi con la bava alla bocca cercando di afferrare il suo
assassino per la gola, fino a quando strappò una spallina dalla giacca
del principe, cadde a terra, si trascinò carponi sulla scala a
chiocciola rantolando. Feliks gridò chiedendo aiuto, tutti uscirono,
Puriskevic esplose i primi due colpi fallendo il bersaglio, poi due
proiettili (forse del Granduca, esperto di armi) centrarono lo starec
alla schiena e alla testa. Incredibilmente, Rasputin era ancora vivo e
allora il principe lo colpì più volte con uno sfollagente pesante, in
una furia parossistica che sembrava riunire sul cadavere tutte le
maledizioni di tutti i nemici per anni impotenti del monaco santo.
Lo
avvolsero in un telo, legato con la fune, lo caricarono sulla limousine
Delaunay-Belleville del Granduca, a ogni curva il cadavere sembrava
sobbalzare e uno di loro si sedette sopra fino al ponte Petrovskij
(ancora oggi poco illuminato e deserto a quell’ora) dove lo gettarono in
un buco aperto nel ghiaccio, insieme con uno stivale che si era sfilato
dal corpo in macchina. Lo trovarono tre giorni dopo. Prima una
sovrascarpa, che le figlie dello starec riconobbero. Poi il cadavere
gonfio con la camicia ghiacciata nella Malaja Nevka, le mani gelate
verso il cielo. Ci fu un funerale segreto davanti alla famiglia
imperiale, con la bara di zinco sepolta nella crociera della chiesa in
costruzione a Zarskoe Selo, dedicata a San Serafim che aveva previsto
sangue e disgrazie per l’inizio del secolo russo. Oggi una croce di
legno ricorda il posto, una piccola custodia di ferro piegato a mano
ripara dalla neve i lumini che sembrano ardere da allora. «Che cosa
posso fare? Solo pregare e pregare — dirà la zarina al marito — Anche il
Nostro caro Amico dall’aldilà prega per te. Quindi è ancora più vicino a
noi. E tuttavia che voglia ho di sentire la sua voce rasserenante e
incoraggiante…». La sentirà in sogno con l’ultima terribile profezia:
«Vi bruceranno sul rogo».
La storia e la leggenda si contendono il
finale. Finché il capitano Klimov dopo la rivoluzione porta i suoi
uomini nella cappella: scoperchiano la tomba, aprono la bara cercando
preziosi, trovano un’icona con la firma della zarina e delle principesse
e la mandano al Soviet della capitale. Poi il cadavere di Rasputin con
le braccia in conserta viene trasportato in treno a Pietrogrado,
camuffato nell’imballaggio da pianoforte. Un camion porta la bara sulla
carrozzabile fuori città, nei boschi tra Lesnoe e Peskarjova lo posano
su una catasta di legna, lo cospargono di benzina e lo bruciano tra le
sette e le nove, disperdendo le ceneri nella neve e nel vento.
Ho
cercato il posto del fuoco, dove l’onnipotenza del monaco diventa cenere
della rivoluzione. Non riuscivo a trovarlo, la campagna russa incolta
sembra tutta uguale, sul limitare indistinto del bosco che mi avevano
indicato veniva il buio, interrotto dal bianco delle betulle. Poi è
passato un contadino seduto sul bordo di un carro tirato da una coppia
di buoi che tornavano a casa. Si è tolto il cappello, ha fatto tre volte
il segno della croce. Lui sapeva, cent’anni dopo. Il santo diavolo era
lì per sempre, come la Russia eterna.