Repubblica 8.12.16
Lo scrittore Massimo Carlotto, padovano: il nostro è un dialetto con infinite varianti. L’autonomia? Non siamo il Sud Tirolo
“Il mio veneto una lingua? No, il pretesto della Lega per avere vantaggi fiscali”
“Cambia tutto da città a città Solo quello parlato dagli emigrati in Argentina è vicino a quello originario”
intervista di Francesco Furlan
VENEZIA.
I veneti si autoproclamano minoranza nazionale. Martedì sera il
Consiglio regionale a trazione leghista ha approvato la Venexit, che,
Consulta permettendo ( i dubbi sulla legittimità costituzionale della
legge sono molti), vuole istituire il bilinguismo e rivendicare garanzie
tributarie incardinandole nella Convenzione quadro europea del
Consiglio d’Europa, ratificata in Italia nel 1997, per la tutela delle
minoranze storiche. Un territorio da difendere, una lingua da insegnare:
il veneto. A partire dalle scuole. «Se ne parla da sempre, ma mi sembra
una cosa senza senso, anche perché, banalmente, non c’è un dialetto
veneto unico, non ha senso imporlo», dice Massimo Carlotto, scrittore
padovano, uno delle principali voci del noir italiano.
Lei il dialetto lo parla?
«Certo,
io parlo il padovano, che come tutti i dialetti locali ha incorporato
termini italiani e li ha resi dialettali e si è modificato molto negli
ultimi anni. Ma il dialetto veneto è un dialetto che cambia da città a
città, perfino da paese a paese. Il dialetto è la lingua della
socialità, qui in Veneto lo parlano tutti».
Dalla legge approvata
dal Consiglio regionale è sparito l’articolo che prevedeva l’istituzione
di un patentino di lingua veneta. Se fosse necessario, lei supererebbe
l’esame?
«Direi di no. Già non parlo più il dialetto che sentivo a
casa quando ero bambino e che parlava mio padre. Come si fa a stabilire
qual è il dialetto veneto? E recuperare una purezza della lingua, per
esempio la lingua che usavano i Dogi, mi sembra assurdo. Tra l’altro
anche i Dogi usavano il latino per i documenti più importanti, e forse
un motivo ci sarà stato. Una certa purezza del veneto l’ho trovata solo
nella lingua delle comunità degli emigranti in Argentina, che non hanno
subito l’influenza della modernità e dell’italiano, e non l’hanno
contaminato troppo con lo spagnolo, che era la loro nuova lingua. Ma qui
da noi non si possono cancellare anni di storia».
Trova che ci sia un legame tra l’uso del dialetto e l’ispirazione autonomista di questa legge?
«Parlavamo
il dialetto anche quando eravamo fascisti, e poi felicemente
democristiani, e dell’autonomia veneta non importava niente a nessuno.
Non siamo il Sud Tirolo. L’autonomia è una rivendicazione della Lega
dettata da esigenze economiche più che culturali. Non mi sembra proprio
che questa legge sia il prodotto di un dibattito culturale che in questi
mesi ha appassionato i veneti. Si vagheggia di questa autonomia,
compresa la nascita di una macro regione con il Friuli Venezia Giulia,
la Carinzia e la Slovenia, ma non c’è un vero dibattito su questi
argomenti ».
Lei qualche volta nei suoi libri usa il dialetto.
Anche nel recente “Il turista”, ambientato a Venezia, ci sono alcune
espressioni dialettali.
«Lo uso pochissimo, anche se cerco di
fornire elementi al lettore per fargli comprendere che un dialogo si sta
svolgendo in dialetto. A volte, dopo aver fatto pronunciare una frase a
un personaggio, specifico che quella frase è stata pronunciata in
dialetto. Ho l’impressione che il dialetto veneto funzioni poco in
letteratura, sia difficile da capire».
C’è un’espressione dialettale che le piace più di altre?
«”Ostrega”, ma soprattutto “va in mona” ».
È un modo di dire che potrebbe essere usato per commentare la legge?
«Diciamo che potrebbe».