Repubblica 6.12.16
Troppe culle vuote l’Europa non investe sul capitale umano
Lo scarto tra figli avuti e desiderati dimostra che le scelte di fecondità potrebbero essere aiutate dalle politiche
di Chiara Saraceno
Il tasso di natalità cresce dove l’occupazione femminile è alta e i servizi sono più generosi
Eccetto che in Francia, il tasso di natalità in Europa è sotto la media di due figli per donna
L’analisi
di Chiara Saraceno, sociologa esperta in studi sulla famiglia e sulla
questione femminile, è stata pubblicata da Lena, Leading European
Newspaper Alliance, l’alleanza di sette giornali europei di cui fa parte
“Repubblica”
NESSUN PAESE europeo, a eccezione della
Francia, ha un tasso di fecondità tale da consentire il mantenimento
dell’attuale volume della popolazione, pari a 2 figli per donna. Vi è
prossima anche l’Ir-landa, che ancora negli anni Novanta aveva il tasso
di fecondità più alto tra tutti i paesi dell’Europa occidentale, ma è
oggi in fase discendente, con un tasso di 1,96. La distanza dalla soglia
che garantisce la stabilità della popolazione è tuttavia molto diversa
tra Paesi. Ci sono quelli, come Regno Unito e Svezia, che hanno tassi
superiori all’1,8 figli per donna e soprattutto stabili, se non in
aumento, rispetto agli anni Novanta. Lo stesso vale per paesi, come
l’Olanda, con un tasso più basso, attorno all’1,7, ma sempre superiore a
quello degli anni Novanta e Duemila. All’estremo opposto ci sono i
paesi che i demografi definiscono a bassa fecondità, inferiore a 1, 5
figli per donna, tra cui vi sono quasi tutti i Paesi mediterranei,
escluso Cipro e inclusa l’Italia, e un buon numero dei Paesi dell’Est
europeo, ma anche, benché vicina alla soglia dell’1,5, la Germania.
Va
osservato che si deve spesso agli immigrati se questi tassi non sono
ancora più bassi, dato che in generale le popolazioni immigrate hanno
tassi di fecondità mediamente più alti di quelli degli autoctoni, anche
se nel tempo tendono a convergere con questi. Si può discutere se la
popolazione europea abbia bisogno di crescere o almeno di rimanere
stabile, o invece se una diminuzione sia opportuna, se non altro per
ridurre il consumo di risorse ambientali. Ma non si può ignorare che una
popolazione con una fecondità al di sotto del livello di riproduzione è
una popolazione che inesorabilmente invecchia, provocando squilibri
nella spesa sanitaria e pensionistica che gravano sempre più sui
giovani. Inoltre, con tutta la saggezza e competenza che possiamo
riconoscere agli anziani, se questi prevalgono nella popolazione è più
difficile che una società sia capace di innovazione culturale,
scientifica, tecnologica. Infine, non va dimenticato che in società
democratiche le scelte di fecondità sono scelte di libertà. Ciò
significa offrire l’opportunità di avere o non avere figli e di averne
nel numero desiderato.
Il fatto che in tutte le società europee, e
in modo accentuato in quelle a più bassa fecondità, ci sia uno scarto
tra numero dei figli desiderati e numero di figli effettivamente avuti
segnala che vi sono vincoli alle scelte di fecondità che potrebbero
essere allentati dalle politiche. In questa prospettiva, le differenze
tra Paesi offrono indizi importanti. Confermando un trend già emerso
alla fine del secolo scorso, e contrariamente a quanto avveniva fino
agli anni Settanta, i tassi di fecondità più alti si riscontrano nei
paesi in cui il tasso di occupazione femminile è più alto, modificare il
proprio impegno lavorativo più facile e reversibile, i sostegni al
costo dei figli tramite servizi e/o trasferimenti monetari più generosi.
Viceversa, nei Paesi, come l’Italia, in cui un basso tasso di
occupazione femminile si accompagna a un sostegno al costo dei figli
ridotto, frammentato e a servizi insufficienti, la fecondità non solo è
bassa, ma tende a diminuire. Allo stesso tempo, l’incidenza della
povertà minorile è elevata. Lo stesso avviene in alcuni Paesi dell’Est
Europa, dove l’occupazione femminile è comparativamente alta, ma servizi
e trasferimenti economici sono ridotti. Nella misura in cui oggi la
maggior parte delle donne si aspetta, e desidera, stare nel mercato del
lavoro e investire in una professione, la possibilità di avere strumenti
per conciliare questo con la maternità diventa decisivo per le scelte
di fecondità.
Non è tuttavia possibile individuare un pacchetto
omogeneo di politiche efficaci. I Paesi nordici privilegiano la
flessibilità lavorativa, con congedi lunghi e ben pagati, coinvolgendo
anche i padri, seguiti da servizi per l’infanzia quasi universali. È un
modello cui si è ispirata negli ultimi anni anche la Germania. La
Francia, invece, privilegia i trasferimenti economici accanto a una
buona dotazione di servizi. Il Regno Unito è molto meno generoso, ma il
suo mercato del lavoro rende agevoli i rientri dopo le uscite.
Dietro
a queste differenze sono all’opera anche modelli culturali diversi
relativi ai bisogni dei bambini, alla parità di genere, al ruolo dello
Stato. Per questo, e non solo perché non rientra nelle sfere di
competenza dell’Unione Europea, è difficile proporre una politica
europea a sostegno della fecondità.
Le politiche europee in
direzione delle pari opportunità tra uomini e donne, la direttiva sui
congedi di maternità e genitoriali (che mentre ha reso obbligatorio il
primo in tutti i Paesi membri, ha reso illegittimo riservare il secondo
solo alle madri), la definizione di obiettivi di copertura minimi per i
servizi per l’infanzia, e l’adozione del discorso sull’investimento
sociale hanno contribuito a riformulare le politiche a sostegno della
fecondità come politiche insieme di pari opportunità e di investimento
sociale. Ma per sviluppare queste politiche occorre che i Paesi abbiano a
cuore il proprio capitale umano, maschile e femminile, autoctono o
immigrato, investendo su di esso. E occorre che i giovani abbiano
prospettive sufficientemente positive. Entrambe queste condizioni sono
particolarmente fragili in molti dei paesi a più bassa fecondità.