sabato 3 dicembre 2016

Repubblica 3.12.16
Il rapporto Censis e quel muro fra le generazioni
di Guido Crainz


INIZIA con un’impressionante serie di pessimistici “mai così” la parte generale sulla società italiana del Rapporto annuale del Censis. Mai così pochi i nuovi nati, mai così dilatata la componente demografica di anziani, mai così depressa la condizione economica dei giovani che “vivono nella frontiera paludosa fra formazione e lavoro”, e mai così alti i muri fra le generazioni. Ora è una dolorosa e fondata certezza, si aggiunge, quella sensazione che da un ventennio almeno ha incrinato visioni di futuro e coesione sociale.
LA SENSAZIONE cioè che i figli non vivranno meglio dei loro padri, tutto al contrario (ed era stato questo, invece, il cemento più solido dei primi decenni della nostra storia repubblicana). E ancora, mai tanta liquidità ferma nei conti correnti (il suo aumento negli ultimi dieci anni ha superato il Pil dell’Ungheria), nel contemporaneo stagnare della propensione agli investimenti: effetto inevitabile della “pervasiva percezione di uno smottamento delle condizioni di vita” e dell’incertezza di futuro. A questa “bolla della liquidità” si assomma poi la “bolla dell’occupazione a bassa produttività”, la moltiplicazione dei “lavoretti” precari e “quasi regolari”: in uno scenario in cui il deperire del lavoro accresce l’erosione della classe media e della componente operaia e artigiana, mentre i processi di digitalizzazione incidono in maniera sempre più rilevante nei settori impiegatizi. Un quadro desolante, se a questi dati ci si arrestasse, ed è esplicito nel rapporto l’interrogarsi sugli effetti di lungo periodo di una crisi internazionale di cui pure l’anno scorso si avvertiva l’esaurirsi. Si segnalava allora il delinearsi di una “società dello zero virgola” (dello sviluppo stentato e quasi invisibile), espressione richiamata anche quest’anno: una differenza positiva, in realtà, rispetto al più drastico pessimismo di qualche tempo prima (“dopo anni di trepida attesa la ripresa non è arrivata e non è più data per imminente”, si annotava alla fine del 2014).
Corre sotterraneamente nel Rapporto un’altra domanda, intimamente connessa: cosa significa oggi “ripresa”, in uno scenario drasticamente mutato? Quali sono i suoi indicatori, inevitabilmente differenti da quelli del passato? Saranno più vicini allo “zero virgola” o al “più 5-6%” dell’ “età dell’oro” dell’Occidente”, segnata da un ruolo dello Stato nel favorire sviluppo e distribuzione del reddito oggi inimmaginabile? La risposta non è difficile, naturalmente, e con questa consapevolezza il Rapporto suggerisce il delinearsi di una “seconda era del sommerso”: un “sommerso post-terziario” radicalmente diverso da quello “pre-industriale” che proprio il Censis aveva visto prender corpo negli anni Settanta. Più fragile e segnato da quelle stesse tare colte allora nella “economia del cespuglio” (perdita di diritti, evasione di obblighi fiscali e contributivi, e così via) ma comunque un’ “onda” fondamentale per la tenuta del Paese. Non più un sommerso di impresa e di lavoro ma un “sommerso di ricerca di più redditi”, in cui rientra la crescita stessa della liquidità (talora con contiguità o compenetrazioni con l’area dell’illecito). E in cui confluiscono le attività più differenti: dall’uso del patrimonio immobiliare come fonte di reddito (a partire dall’esplosione dei bed and breakfast) alle attività di cura (non solo di anziani e bambini), dall’enogastronomia ai consumi culturali. Un “insieme di macchine molecolari” cui si aggiungono i perduranti successi nelle filiere collaudate del made in Italy e in altre ancora, o le start up innovative. Un “insieme” i cui limiti e i cui possibili “vizi” appaiono forse altrettanto rilevanti della loro capacità di aiutare il paese a “reggere”, e i cui contorni sono più evocati che tratteggiati nelle loro dimensioni concrete.
Si innesta qui però l’elemento più profondo della nostra crisi: una frattura fra società e politica, con “reciproci processi di rancorosa delegittimazione”, che sembra giunta al suo apice e di cui proprio il Censis aveva colto precocemente le origini. Già all’inizio dei “dorati anni Ottanta”, ad esempio, segnalava i “sempre più evidenti rinserramenti della società nel proprio particulare interesse” in una crescente distanza dalle forze politiche “nelle loro usurate dialettiche e nelle loro usurate persone”. Aveva origine proprio allora la crisi di quel sistema dei partiti, e nemmeno dopo il suo crollo quel nodo troverà risposte. Si è aggravata così quella frattura, quella reciproca delegittimazione che è il vero alimento dei populismi, annota il Censis, e che non trova più nelle istituzioni il necessario luogo di mediazione e di superamento. Eppure, si conclude, l’unica via d’uscita sta proprio nel rilanciare la loro qualità, la loro dignità e la loro funzione di cerniera.