sabato 3 dicembre 2016

il manifesto 3.12.16
Il millennial è finito al tappeto
Rapporto Censis. Mai redditi così bassi per gli under 25, che riescono a trovare solo «lavoretti»: è il post-terziario. Dilagano i voucher, mentre le famiglie dell'ultima generazione guadagnano poco più della metà di quelle più anziane
di Roberto Ciccarelli


L’economia dei «lavoretti» è il presente. Giovani, e meno giovani, non lavorano tutti attraverso le piattaforme digitali o pedalando come i ciclo-fattorini di Foodora, ma sono in molti (1 milione e 380 mila persone) a essere stati pagati almeno una volta con un voucher, ad avere guadagnato uno scampolo di reddito da quella che il 50esimo rapporto del Censis – presentato ieri a Roma al Cnel – definisce il «sommerso post-terziario».
IL JOBS ACT, l’inesausta richiesta di flessibilità e bassi redditi imposti dalle imprese, l’abbattimento dei costi previdenziali ai danni dei precari stanno alimentando un’economia delle occupazioni neo-servili, junk work, o occupazioni tradizionali a basso contenuto professionale reinventate nei nuovi canali del taylorismo digitale. Per Giuseppe De Rita – giunto all’ultima presentazione del rapporto, così ha detto al termine della sua relazione – siamo entrati nella «seconda era del sommerso post-terziario». Non un «sommerso di lavoro», né un «sommerso di impresa» ma un «sommerso dei redditi» dove proliferano figure labili e provvisorie, soprattutto tra i giovani che vivono sulla soglia tra formazione e lavoro, tra precariato e impieghi gratuiti.
È IN QUESTO CONTESTO che il Censis parla di «Ko economico dei millennials» che hanno «un reddito inferiore del 15,1% rispetto alla media dei cittadini» e una ricchezza familiare che, per i nuclei under 35, è quasi la metà della media (-41,2%). Nel confronto con venticinque anni fa, rispetto ai loro coetanei di allora, gli attuali giovani hanno un reddito inferiore del 26,5% (periodo 1991-2014), mentre per la popolazione complessiva il reddito si è ridotto solo dell’8,3% e per gli over 65 anni è aumentato del 24,3%. La ricchezza degli attuali «millennials» è inferiore del 4,3% rispetto a quella dei loro coetanei del 1991, mentre per gli italiani nell’insieme il valore attuale è maggiore del 32,3% rispetto ad allora e per gli anziani è maggiore dell’84,7%.
In realtà, parlare di «millennials» – ovvero i nati a cavallo dell’inizio del millennio – non coglie l’ampiezza della crisi. Come dimostrano i dati Inps o Istat, la crisi occupazionale e dei redditi ha colpito la fascia anagrafica dei lavoratori under 49 e di certo non risparmia gli over 50 dove tuttavia cresce l’occupazione. Il lavoro povero si è allargato, a macchia d’olio, alle generazioni, a tutte le forme di lavoro, autonomo o dipendente, mentre evaporano le differenze tra i redditi tra ceti medi e classi lavoratrici. L’assenza di un welfare universalistico, oltre che lavori precari e redditi intermittenti, è stata riempita con la rendita familiare, per chi la possiede, e con le pensioni di nonni e genitori. 4,1 milioni di pensionati «hanno prestato ad altri un aiuto economico».
I NUOVI PENSIONATI sono più anziani e possono contare su redditi mediamente migliori come effetto di carriere contributive «più lunghe e continuative». Tra il 2004 e il 2013 è quadruplicato chi è andato in pensione di anzianità con più di 40 anni di contributi (dal 7,6% al 28,8%). Nell’abbandono della politica, e dello Stato, il «corpo sociale finisce così per assicurarsi la sua primordiale funzione, quella di “reggersi”, anche senza disporre di strutture politiche o istituzionali». Si spiega così il distacco tra «elite» e «popolo», sempre più rinchiusi in se stessi. «Sono destinati a una congiunta alimentazione del populismo», si legge nel rapporto.
IN UN PAESE «RENTIER» che non investe sul futuro, anche perché le politiche di austerità e i tagli alla spesa pubblica non lo permettono si comincia la sharing economy. L’uso e la condivisione dei beni, soprattutto quelli dei trasporti ormai carissimi, permette di soddisfare l’obiettivo prioritario di contenimento delle spese. Stesso discorso vale per la casa e il ricorso diffuso al bed&breakfast «affittato» su Airbnb. Si allarga il divario di classe: tra le famiglie a basso reddito il 58% deve risparmiare, il 28% vorrebbe spendere qualche soldo in più sui consumi.
TRA LE FAMIGLIE BENESTANTI le percentuali sono al 34% e al 46%. La crisi non ha fermato gli acquisti di televisori, smartphone e computer: questi ultimi sono aumentati tra il 2007 e il 2015 del 191,6% e del 41,4%. Grazie a questi strumenti hanno aumentato il loro potere individuale di disintermediazione. Sono gli stessi strumenti che servono per lavorare, come gig-workers nell’economia on demand, o come lavoratori precari o autonomi. O per i consumi: e-commerce (+5,3% rispetto all’anno scorso), home banking (il 3,8%), sharing mobility con le macchine prenotate via app in città o crowdfunding.
La «disintermediazione» permessa dalle nuove tecnologie si coniuga con la ricerca permanente di «redditi». Per il Censis, questo fenomeno è diverso da quello degli anni Settanta che apriva a «una saga di sviluppo industriale e imprenditoriale», quello del capitalismo «molecolare», dei distretti o delle partite Iva nel terziario avanzato. La ricerca, e l’accumulo di redditi poveri e intermittenti, oggi costituisce un’«arma di pura difesa».
La struttura sociale ha subito un dimagrimento delle fonti di reddito, ma anche una contrazione delle professioni. Si svuotano le figure intermedie esecutive, nel settore impiegatizio (-5,1%), la componente operaia, degli artigiani e degli agricoltori (-14,2%).
ALLA BASE DI QUESTE dinamiche, osserva il Censis, esiste una «bolla dell’occupazione a bassa produttività». Più che una bolla, sintomo di eccezionalità, si tratta di una struttura del mercato del lavoro. Al tempo del Jobs Act i contratti a termine sono la maggioranza (il 63,1% sostiene il Censis). I nuovi occupati dall’inizio del 2015 sono associati a una produzione di ricchezza di soli 9.100 euro pro-capite. In mancanza di reddito, è difficile trovare una casa, e si fanno sempre meno figli. In un sondaggio contenuto nella ricerca risulta che per l’83,3% la crisi economica ha avuto un impatto sulla propensione alla natalità rendendo più difficile la scelta di avere figli anche per chi li vorrebbe.