Repubblica 2.12.16
Kamasutra
Ci sono gli dèi dietro i segreti dell’erotismo
L’antico testo indiano non è solo una guida ai comportamenti sessuali
Per alcuni versi è un trattato politico per altri un repertorio romanzesco
Ma il vero gusto dell’opera si coglie risalendo alla cornice divina di schermaglie amorose
di Roberto Calasso
Universalmente
noto come repertorio di posizioni erotiche, talvolta passabilmente
acrobatiche e tali da mettere in soggezione un certo numero di amanti
occidentali, timorosi di essere poco inventivi, il “Kamasutra” di
Vatsyayana è anche, e forse soprattutto, un eccellente canovaccio
romanzesco, sotto specie di trattato ossessivamente classificatorio. Ma
per scoprirlo occorre una guida adatta — e nessuna potrebbe essere
migliore di Wendy Doniger, unica — per quanto so — fra i grandi indologi
viventi che sia anche un’autorità sui B-movies di Hollywood, nonché sui
vertiginosi intrecci di storie che possono svolgersi intorno e dentro
un letto, come ha dimostrato in un sostanzioso volume — “The Bedtrick” —
di qualche anno fa. Così la sua edizione
annotata del Kamasutra,
pubblicata in collaborazione con Sudhir Kakar nel 2002, è diventata
subito — e rimarrà — il testo di riferimento per questo classico che è
stato a lungo troppo famigerato per essere letto con la dovuta
attenzione.
Le reazioni sono state subito vivaci e, nel corso dei
quattordici anni successivi, Wendy Doniger ha avuto più volte occasione
di tornare sul tema, inserendo il Kamasutra nella trattatistica indiana,
che costituisce un immane corpus di testi. E soprattutto su uno di
questi trattati si è appuntata la sua indagine: l’Arthashastra, che è il
supremo compendio politico dell’India, considerato da molti di gran
lunga più spietato e spregiudicato del Principe di Machiavelli. E
Doniger infierisce ancora, scrivendo che «Kautilya fa sembrare
Machiavelli come Madre Teresa». Anche se un parallelo trattato cinese,
il Libro del Signore di Shang, che conosciamo grazie alla sapiente
edizione di J.J.L. Duyvendak, può far apparire in paragone miti — anche
se non proprio da Kindergarten — sia Kautilya sia Machiavelli. L’arte
erotica esposta nel Kamasutra sarebbe dunque un ramo specifico di
quell’arte degli stratagemmi e degli inganni che Kautilya tratta
magistralmente. Dopotutto, spie, infiltrati e mezzani possono rivelarsi
indispensabili per conquistare una città come per sedurre una donna. E
il Kamasutra lo dimostra con dovizia di esempi. Il rapporto è
indiscutibile e Doniger lo illumina puntualmente, anche se — come sempre
in India — è disperante stabilire una sequenza temporale rigorosa in
cui situare i testi.
Ma una volta accertata la matrice
trattatistica entro cui il Kamasutra è nato e va considerato, per il
lettore di oggi il fascino — e anche il sottile divertimento —
dell’opera è tutto nella straripante materia romanzesca di cui è
intriso. Il libro può essere letto, da cima a fondo, come un repertorio
delle situazioni erotiche in cui può venirsi a trovare un certo
personaggio — e delle reazioni che può provocare nelle sue controparti
femminili. Ma chi è questo personaggio? È il nagaraka, il man- about-
town, come la lingua inglese concede di tradurre la parola, con perfetta
corrispondenza idiomatica ( nagara vuol dire “città” in sanscrito).
Questo
uomo di mondo innanzitutto è ricco e non ha obblighi di
alcun genere. La sua unica mira è espandere e acutizzare i suoi piaceri,
in numerose direzioni, anche se l’eros spicca fra tutte. È devoto
soltanto al kama, al “desiderio”. Non intende accrescere il suo “potere”
e i suoi “interessi” (sfera dell’artha). Quanto al
dharma,
“ordine” o “legge”, lo rispetta e lo ignora. Come il giovane Ovidio a
Roma due secoli prima, frequenta i riti e le feste religiose perché sono
ottime occasioni per individuare donne belle, passibili di diventare un
giorno oggetto di conquista. La sua vita è al tempo stesso variegata e
altamente ripetitiva. Ma tale non è forse anche quella di un uomo
d’affari, di un cortigiano o di un religioso? Se il culmine e
coronamento di ogni sua attività è l’atto sessuale — così come lo era il
concubitus per il giovane Ovidio dell’Ars amatoria -, l’uomo di mondo
sarà tenuto ad addestrarsi anche nelle «sessantaquattro arti che deve
imparare chiunque (maschio o femmina) tratti in modo veramente serio il
piacere ». E qui è solo una delizia scorrerne l’elenco, che include la
capacità di ritagliare sagome dalle foglie, fare musica sugli orli di
bicchieri d’acqua (come il Mozart dei pezzi per Glasharmonika),
preparare letti, mescolare profumi, insegnare a parlare a pappagalli e
gracule, praticare la stregoneria, conoscere lessici e dizionari di
sinonimi, essere esperti di presagi e delle scienze strategiche. Infine,
al sessantaduesimo posto, appaiono “le buone maniere”. Entrambi gli
amanti devono gareggiare in tutte queste arti — e la loro pratica,
secondo il “Kamasutra”, non fa che accrescere l’esaltazione erotica. Le
stesse conoscenze appartengono all’educazione di una cortigiana di
lusso. La quale, se ne è esperta, «ottiene un posto nel consesso
pubblico». Nulla è arbitrario o accidentale: alle sessantaquattro arti
corrispondono le sessantaquattro varianti dell’amplesso. Che non
differiscono molto, per pure ragioni anatomiche, da quelle suggerite
dalle massime autorità occidentali in materia, che rimangono l’Aretino e
l’autore dei dialoghi di Aloisia Sigea.
E qui si impone una
glossa: l’Occidente ha prevalentemente affidato la dottrina delle
posizioni erotiche a voci femminili: i Ragionamenti dell’Aretino e i
dialoghi di Aloisia Sigea sono conversazioni fra donne che sanno molto
della vita sessuale o sono avide di saperne di più. Mentre l’unico
trattato dell’antichità classica paragonabile al Kamasutra (e ahimè
perduto) era attribuito a una certa Elephantis, il cui nome — secondo la
Pauly-Wissowa — «può essere situato nel folto gruppo di nomi di etère
che sono derivati da animali». Nulla rimane di tale testo, tuttavia
sappiamo da Suetonio che le sue tabellae — ovvero illustrazioni —
vennero fatte copiare dall’imperatore Tiberio sulle pareti della sua
villa a Capri, come manuale di istruzioni per i suoi ospiti e per se
stesso.
Ma, più che nell’elenco delle
veneris figurae o modi
coeundi — come si usava dire a Roma -, la peculiarità del Kamasutra sta
nella sistematicità e nella implacabile precisione del dettaglio. Come
anche nel fatto che questa puntigliosa cronaca fisiologica e psicologica
include in sé sia una descrizione dell’orgasmo femminile quale nessun
autore occidentale avrebbe azzardato sia un elenco degli accorgimenti
con cui una cortigiana può liquidare un amante molesto. Lettura in-
cantevolmente profana, che al tempo stesso non può comunque fare a meno
di richiamarsi all’antichità vedica e, di là da essa, alla vita degli
dèi. Perché di fatto già nel Rigveda si diceva che «il desiderio, kama, è
il primo seme della mente». Così veniamo a sapere che Vatsyayana è solo
il tardo redattore di un trattato di materia erotica che nel corso del
tempo si era sempre più ridotto e semplificato. Suo primo autore era
stato il mite toro Nandin, che vegliava sulla porta della camera da
letto dove Shiva e Uma erano congiunti in un interminabile coito, durato
mille anni degli dèi. Insieme guardiano, voyeur e scriba, Nandin aveva
annotato il sapere erotico che un giorno anche gli uomini avrebbero
dovuto apprendere, sebbene parzialmente, essendo incapaci di applicarlo
nella sua interezza. Procedimento usuale nell’India classica,
presupponente all’inizio una conoscenza sterminata, che si contrae e
inaridisce nel tempo, fino alle bassure del Kali Yuga, in cui viviamo.
Concezione specularmente opposta a quella evoluzionistica occidentale,
che presuppone all’inizio una successione di bruti inarticolati, che poi
si innalzano fino alle sommità della Ragione.
Il vero gusto del
Kamasutra non si coglie se dalle sue minuziose descrizioni di
schermaglie e trappole erotiche, dove graffi e morsi ricordano sempre
che l’eros è comunque un duello — e talvolta mortale -, non si risale a
quella remota cornice divina. Perché in India, fin dall’origine e fin
dai riti esposti nei Brahmana, l’eros è ubiquo e onnipresente. Non meno
illuminante di Nandin è il secondo autore leggendario del
Kamasutra:
Shvetaketu, colui che ridusse i mille capitoli scritti da Nandin a quei
cinquecento destinati a essere poi, nel corso del tempo, ulteriormente
ridotti, fino a diventare i centocinquanta di Babhravya del Panchala e i
trentasei di Vatsyayana.
Chi era Shvetaketu? Lo vediamo apparire, a ventiquattro anni, nella Chandogya Upanishad.
Dopo
dodici anni di studi, si presenta al padre come «contento di sé, fiero
delle sue conoscenze, orgoglioso ». Il padre gli dice che ancora nulla
sa, anche se aveva studiato tutti i Veda. Ora gli sarebbe toccato andare
oltre. E a questo punto il padre di Shvetaketu avviava una sequenza
rapinosa di pensieri, che culminava con l’atman, il Sé, e si condensava
in tre parole: Tat tvam asi, “Ciò tu sei”. Quelle tre parole sono il
grano di senape che schiude l’immensità vedica. E a noi sono giunte in
quanto parole dette a questo giovane brahmano, il quale — in un momento
successivo della sua vita — avrebbe redatto una versione abbreviata
della dottrina erotica di Nandin. Così Shvetaketu era stato un anello
fra gli anelli da cui è nato il Kamasutra. A dimostrazione del fatto
che, se c’è stato un luogo dove tout se tient, tale era l’India vedica.
In Occidente sarebbe difficile immaginare una leggenda che facesse
risalire a Parmenide il trattato erotico dell’etèra Elephantis.
Wendy
Doniger ha finalmente reso giustizia al Kamasutra, innanzitutto
traducendolo in modo adeguato, senza i malintesi e le superfetazioni
stilistiche di Burton, e ricollocandolo in una posizione eminente nella
trattatistica indiana. Utile contravveleno a quelle «pratiche pervasive e
spesso violente di polizia morale » che hanno attanagliato una parte
dell’India e della diaspora indiana in questi ultimi anni, soprattutto
dopo il ritorno al governo del Bharatiya Janata Party, con le sue
squadre di fondamentalisti indù del Bajrang Dal, che intervengono
brutalmente per impedire i festeggiamenti per San Valentino, considerati
un esempio di “capitalismo pornografico”. Giustamente, come
considerazione finale, Doniger ha ricordato che il dio Kama, ovvero
Desiderio, dopo esser stato incenerito da Shiva, venne a trovarsi
infuso, con le sue particelle, «in un certo numero di altre sostanze,
che facevano agire la magia di Kama in modo ancora più efficace — la
luce lunare, le sopracciglia arcuate delle donne belle e così avanti». E
Shiva stesso è contraddistinto dalla più vasta oscillazione fra estremi
che conosciamo. Lo dice anche il titolo di un libro prezioso che
Doniger pubblicò nel 1973: Shiva. L’asceta erotico.
Ma quell’oscillazione vale anche per l’India in genere. Di Kama nessuno sarà in grado, per fortuna, di sbarazzarci.
From The New York Review of Books © 2016 by Roberto Calasso