giovedì 15 dicembre 2016

Repubblica 15.12.16
Se Renzi sfida 3 milioni di No
di Stefano Folli

NELLE stesse ore in cui il governo Gentiloni, ottenuta la fiducia anche al Senato, assumeva tutte le sue prerogative, il responsabile del Lavoro consegnava ai media una singolare dichiarazione, forse la più sconcertante degli ultimi tempi. Poletti prevede e di fatto auspica che le elezioni anticipate spazzino via, rinviandolo di un anno, il referendum sulla riforma del lavoro (il Jobs Act). In tal modo il ministro accredita i retroscena giornalistici che già avevano ventilato tale ipotesi, annoverandola fra le ragioni che spingono l’ex premier Renzi a correre verso le urne in primavera.
Quello di Poletti è un colpo inferto al neonato governo e ha lasciato interdetti molti osservatori. In primo luogo, perché la Corte Costituzionale non si è ancora pronunciata sul quesito. Prima di annunciare l’arma letale contro il referendum (il voto anticipato), sarebbe stato più logico esaminare le conclusioni della Consulta e verificare se in Parlamento è possibile un intervento correttivo che sterilizzi il quesito e renda inutile una nuova consultazione. Se ad esempio tutto ruotasse intorno alla questione dei voucher, forse una correzione non sarebbe improponibile. Viceversa, il grado di nervosismo è tale che il ministro del Lavoro è già pronto alle elezioni pur di scansare il referendum. Così facendo, come fa notare il presidente della Toscana Enrico Rossi, egli ignora completamente tre milioni e 300mila firme che la Cgil ha raccolto. Un gesto che in termini elettorali potrebbe essere pagato a caro prezzo dal Pd.
Se non riuscisse o non volesse modificare la legge, allora sarebbe più logico che il governo Gentiloni affrontasse il referendum. In fondo il cosiddetto Jobs Act è stato presentato da Renzi come una delle riforme più significative della sua stagione. Nessuno si meraviglierebbe se l’esecutivo si proponesse di difenderlo nelle piazze come fece Bettino Craxi nel 1985, quando sostenne il taglio dei punti di scala mobile che il Pci voleva invece cancellare. E vinse Craxi. Viceversa oggi il rinvio di un anno darebbe un segnale di debolezza, non certo di forza. La contraddizione sarebbe evidente.
Da un lato, c’è un leader politico che ritiene di avere con sé il 41 per cento degli elettori e si propone di verificare al più presto il proprio consenso con le elezioni: in nome di un progetto di modernizzazione del Paese. Dall’altro, questo stesso leader dimostra di temere una battaglia ingaggiata dal sindacato di sinistra, la Cgil, contro la riforma simbolo di tale modernizzazione. Ovvio che bisogna attendere il giudizio della Consulta, ma è chiaro che intorno al Jobs Act si gioca una partita politica molto delicata. La posta in gioco riguarda, al di là della propaganda, la reale fiducia in se stesso che il Renzi di oggi, non quello di due anni fa, possiede.
Non tutto si risolve con strappi e fughe in avanti. La riforma del lavoro è uno di quei temi su cui un certo mondo che ancora esiste nel Pd è naturalmente indotto a cercare un compromesso. Anche per non regalare milioni di voti ai movimenti populisti, pronti ad aggregarsi contro il governo nel referendum prossimo venturo. La storia si ripete e, dopo l’esperienza del 4 dicembre, dovrebbe insegnare qualcosa. Renzi è di fronte al primo bivio rilevante del post-Palazzo Chigi. Può limitarsi a puntare alle elezioni alla testa del partito personale. In tal caso, il referendum sul lavoro è solo una seccatura rinviabile. Oppure può decidere che un’ulteriore lacerazione della sinistra, quando un accordo sul Jobs Act è possibile, sarebbe contro il suo interesse anche elettorale.
Vedremo nelle prossime settimane. Non tutto quello che trapela da Largo del Nazareno in questi giorni è figlio di un’analisi lucida. Fin quando non sarà chiaro come il Pd e il Parlamento intendono affrontare il rebus della legge elettorale, se prima o dopo la decisione della Consulta, non sarà concepibile la fine del governo Gentiloni. A meno di non voler preparare un suicidio politico di massa. Il ripristino del Mattarellum è solo una delle ipotesi in campo. Un’altra è adottare senz’altro il modello scaturito dalla sentenza della Corte. Ma il Capo dello Stato ha chiesto di «armonizzare » i sistemi elettorali di Camera e Senato, un’operazione né semplice né breve. Gli impazienti hanno diritto di esserlo, ma la riforma elettorale richiede i suoi tempi.