martedì 13 dicembre 2016

L'Espresso 5.12.2016  
Metti un sadico agli effetti speciali 
colloquio con Gabriele Mainetti 
di Oscar Cosulich ´

Il mio primo amore cinematografico è stato 'Le iene' di Tarantino, poi mi sono laureato in Storia e Critica del Cinema con una tesi sulle mutazioni nella rappresentazione dei morti viventi dopo l'11 settembre, si chiamava 'Rebranding the Dead'. Oggi considero Spielberg il modello più grande di approccio al cinema e alle sceneggiature'. Si presenta così Gabriele Mainetti, il regista di 'Lo chiamavano Jeeg Robot', (ilm con una scena di tortura già celebre). L'Espresso gli chiede perchè la narrazione cinematografica contemporanea è sempre più affascinata da rappresentazioni dettagliate di violenze e torture. Mainetti, come spiega l'escalation di scene di violenza e tortura nei film? ´Per prima cosa non si deve dimenticare che il cinema è 'racconto' e non c'è racconto senza conflitto. La via più semplice per narrare il conflitto è mettere a rischio la vita del protagonista. Partendo da questo presupposto è inevitabile passare rapidamente alla tortura. Del resto, non appena inizi a scrivere una sceneggiatura, sai già che deve sempre morire qualcuno. Anche se in tutto questo non c'è nulla di reale: è bene ricordarlo sempre'. Vuol dire che la narrazione implica la finzione? ´Precisamente! Il cinema è solo un possibile racconto della realtà, ma non è mai 'reale'. Noi facciamo cinema per cercare di capire la realtà, perchè se non avessimo più storie da raccontare sarebbe la fine, però quella cinematografica è sempre finzione. Nemmeno i documentari raccontano la realtà'. Eppure è quello che i documentaristi sostengono, no? ´Nel momento stesso in cui si decide quale debba essere il taglio dell'inquadratura con cui mostrare il mondo e il montaggio con cui alternare le sequenze girate, già si perde l'ambiguità della realtà. Sullo schermo si può portare sempre e solo la visione del regista, con l'inevitabile parzialità delle sue scelte, che sono sempre 'narrazione'. C'è un modo diverso di affrontare la violenza e la tortura nel cinema americano, rispetto a quello europeo? ´C'è un intero mondo di differenza. L'America è un paese violento per definizione. Loro 'se devono menà!', per dirla alla romana: fa parte del loro Dna. » un posto faticoso, dove la natura non è amichevole: in certi luoghi, se non fai attenzione, i coyote possono mangiarti il cane e puoi trovare i serpenti a sonagli nel giardino di casa. Non hanno il mare, ma l'oceano con tutta la sua violenza. Negli americani c'è lo spirito della vecchia frontiera che tende sempre a riemergere'. E per questo sono più violenti anche al cinema? ´Certo, però la loro violenza è quasi sempre più 'fumettistica': è diretta ed esteriore, e per questo meno angosciante. Gli europei, invece, riescono a raccontare l'istinto violento che c'è dietro le apparenze. La violenza americana è sempre legata alla punizione: il buono è giustificato quando fa a pezzi i cattivi. Nel cinema europeo invece i cattivi ci sono e non ci sono, quindi rimane solo la crudeltà'. Ci fa qualche esempio? ´Un film come 'La pianista' di Michael Haneke è terrificante. Quando Isabelle Huppert si taglia non vedi praticamente nulla, ma ti senti male; quando mette i pezzi di vetro nella tasca della giacca della ragazza, senti solo l'urlo di lei, ma basta per suscitare orrore. Gli esempi più violenti di cinema 'americano', invece, vengono da un regista che non è statunitense come il canadese David Cronenberg'. Parla di 'A History of Violence'? ´Sì: quel film è persino più scioccante del successivo 'La promessa dell'assassino', di cui pure ricordiamo tutti la violenza della scena nella sauna'. Molto si deve a Viggo Mortensen, protagonista di entrambi i film, no? ´Certo. Pensiamo alla prima esplosione di violenza: sappiamo che i due rapinatori in arrivo nel suo locale sono assassini perchè, anche se non li abbiamo visti uccidere, hanno lasciato una scia di morti. Viggo, fino a quel momento, è ritratto come l'uomo simbolo del buon padre di famiglia, l'incarnazione del più confortevole sogno americano in una placida città di provincia: gentile, educato, pacato. Ma mentre la tensione sale lui, dal nulla, uccide in un attimo i rapinatori. C'è un'inquadratura di violenza quasi pornografica: un rapinatore è a terra con la mascella aperta e l'osso di fuori, prima che Viggo gli spari in testa. Il tutto non dura più di tre secondi. » E’ fproprio questa subitaneità inaspettata che traumatizza. Avessimo visto una scena più lunga, ci saremmo 'abituati' e non avrebbe avuto lo stesso effetto scioccante. Per ritrovare traumi simili si deve andare su altri territori, come quelli percorsi da Gareth Evans in 'The Raid - Redenzione''. Che film è? ´Evans è un giovane regista gallese. Prima ha girato un documentario sul Pencak Silat, che è un'arte marziale indonesiana. Poi ha arruolato uno dei lottatori, Iko Uwais, come attore per questo ilm d'azione, dove la violenza è tanto estrema da mostrare coltellate in fronte riprese in primo piano'. Scene come queste sono rese possibili dagli effetti. Crede che le nuove tecnologie, che permettono maggiore realismo anche nelle scazzottate, abbiano aumentato la richiesta del pubblico di vedere di più? ´Un effetto speciale, quando è fatto bene, cambia certamente l'approccio visivo alla violenza, ma gli effetti speciali costano. 
Questo vuol dire che gli unici ilm che oggi potrebbero davvero permettersi un aumento esponenziale dal punto di vista visivo di orrore, violenza e torture, sono solo quelli prodotti dalle Major. Però le Major si rivolgono a un pubblico molto vasto: non possono certo rischiare budget miliardari in ilm che metterebbero in fuga una larga fetta di spettatori. Per questo ancora oggi troviamo orrore e violenza più nel linguaggio cinematografico che negli effetti speciali'. 

Però la violenza nei James Bond con Sean Connery non è paragonabile a quella dello 007 interpretato da Daniel Craig. ´Certo, ma quando si vedeva un pugno finto preso da Connery, per lo spettatore dell'epoca era vero esattamente come oggi ci sembra vero quello che colpisce Craig. Il cinema contemporaneo ritrae più fedelmente la violenza, ma solo perchè l'occhio dello spettatore è più sofisticato di un tempo. L'effetto di questa violenza sul pubblico di oggi però, è lo stesso di quello sul pubblico di allora. Il bello della finzione è proprio questo: io ho descritto sparatorie che non ho mai visto, nessuno di noi sa cosa sia davvero tagliare una testa. Il cinema dà suggestioni immaginarie, usando i mezzi che ha. Oggi persino l'uso della colonna sonora è più sottile'. In che senso? ´Basti pensare a un grande autore come John Williams e ai suoi 'temi' musicali legati a ogni personaggio, da 'Indiana Jones' a 'Star Wars'. Oggi non serve più sottolineare in quel modo l'ingresso in scena dell'eroe o del cattivo, la colonna sonora è più rarefatta, suggerisce, anzichè imporsi'. Come ha fatto lei, che di ´Jeeg Robot' ha scritto anche le musiche. Però nel suo film ha scelto di rappresentare la violenza in modo prevalentemente cartoonistico, perchè? ´'Jeeg' nasce da un contesto cartoonistico, è vero, ma mentre nei ilm di genere la divisione tra 'buoni' e 'cattivi' è netta, qui abbiamo un 'cattivo' che diventa eroe, mentre il vero cattivo fa trasparire molte fragilità, come l'ansia di apparire. Questa ambiguità ha permesso di girare anche due sequenze estremamente disturbanti: quella della violenza sessuale e la scena della tortura, con lei soffocata dal cattivo e l'eroe inchiodato al letto'. Seguirà questo percorso anche nel suo secondo film? ´Continuerò ad utilizzare il 'mash-up' di generi cinematografici diversi. Però questa volta il ilm sarà più 'tosto' (e spero più poetico) di 'Jeeg'. Ho il bisogno di alzare il livello della sfida, ma è ancora presto per parlarne'. Almeno ci dica a che punto è con la preparazione. ´ E’ un anno che penso al film e tre mesi che stiamo lavorando sui personaggi. Al momento abbiamo completato la stesura del primo atto: il film sarà più strutturato e complicato di 'Jeeg'. Le riprese cominceranno nel 2017, ma solo quando sarò soddisfatto della sceneggiatura'.