La Stampa 7.12.16
Il Pd
Nel partito si cerca un equilibrio difficile
di Marcello Sorgi
Di
tutte le mosse, forse una rispecchia di più lo spirito dello scontro
con le fazioni dei dissidenti e la vis pugnace di Renzi: far sapere che
se si andrà al voto in tempi brevi, come prevede sempre il piano A, cioè
a fine marzo, non ci sarà spazio per congresso, gazebo e primarie.
Dunque il leader resterà lui, come prevede la norma dello statuto che
identifica la figura di segretario con quella di candidato premier. «Non
ci sarebbe tempo per il congresso anticipato in una situazione di crisi
come questa», spiegano i suoi uomini. Il che vuol dire che le liste
elettorali le scriverà Renzi con la sua maggioranza congressuale,
«tenendo fuori tutti i traditori, dei compagni che ci hanno fatto la
campagna contro qui non entrerà più nessuno», garantisce uno del cerchio
magico. Bersani non ci sta: «Chi ha votato No non si senta traditore
del Pd».
Ma come si farà questo blitz? Con un voto che conferisce
all’Assemblea nazionale del Pd il potere di approvare le liste delle
candidature, senza convocare i congressi provinciali, nazionale, nè le
primarie per la premiership. Azzerando tutte le aspettative di
visibilità dei vari capicorrente, possibili candidati se pure di
minoranza. Del resto, il film di un Renzi accerchiato da mille tentacoli
che cercano di avvolgerlo per frenarne i bollenti spiriti va in scena
fin dalla mattina. Nella parte della piovra gigante Dario Franceschini,
con il quale Renzi ingaggia una lotta muscolare a tattica, con Ettore
Rosato e Lorenzo Guerini nelle vesti di mediatori. «Guarda Dario, che
nei gruppi parlamentari è un conto, ma in Direzione Matteo ha la
maggioranza da solo e quindi bisogna accordarsi», fanno notare i
fedelissimi. Gli stessi che dicono ai renziani che «Matteo deve superare
queste paranoie, Dario non vuole andare a Palazzo Chigi...». Alla fine
il leader della corrente che al Senato dispone di trenta e passa voti in
grado di bloccare tutto, stretto interlocutore del capo dello Stato, si
convince a non mettersi di traverso: la tregua viene siglata con la
scelta di concedere ai frenatori la disponibilità ad un governo
istituzionale con dentro tutti o una buona parte di quelli, come
Berlusconi, Salvini e Grillo, pronti a rosolare Renzi chiedendo urne
anticipate e urlando che il Pd vuole tenersi le poltrone. Un’apertura
che serve a gettare la palla tra le gambe di Berlusconi, ma pure a
sedare gli animi di un Pd lacerato: dove nessuno smania per andare al
voto, nè la sinistra leale, nè i turchi, nè i mattarelliani, tantomeno
quelli della sinistra di Bersani.
Le correnti si riuniscono e
tutti temono un altro frontale con il popolo italiano, ma si accodano a
Renzi, tranne Bersani e compagni, perché non hanno alternative e altri
leader in grado di scalzare Matteo dal podio del partito. «Si deve
votare dopo aver fatto una legge elettorale in Parlamento», dicono in
coro Damiano, Fioroni, Speranza. Ma Renzi sospetta di tutti, teme che il
suo piano A sia travolto da una manovra a tenaglia di Franceschini con
la sponda del Colle. Non si fida di un governo che nasca senza orizzonte
temporale. Anche se oggi in Direzione si voterà per un governo
istituzionale, dato che le opposizioni già hanno detto no, si andrà alle
urne anticipate. Quando? Due mesi dopo la pronuncia della Consulta,
nella testa del premier c’è già una data, il 26 marzo. Ma i renziani
temono che possa vincere Franceschini: se Mattarella non procederà con
lo scioglimento delle Camere a fine gennaio, se il Parlamento dovesse
procedere a uniformare i sistemi elettorali non limitandosi a recepire
le sentenze della Consulta, allora si andrebbe a votare in estate o in
autunno, come chiede Bersani, «una cosa che per Matteo è il male
assoluto...». Ma che centinaia di parlamentari agognano, scattando per
quelli di prima nomina il diritto alla pensione il 1 ottobre 2017...