La Stampa 1.12.16
“Così gli italiani pativano la fame nei campi di lavoro nazisti”
Il ministro degli Esteri tedesco: una mostra a Berlino per ricordarli
di Frank-Walter Steinmeier
Ministro Federale degli Affari Esteri della Repubblica Federale Tedesca
«Cara
mamma, ritornerò», queste sono le parole che l’italiano Andrea Talmon
più di 70 anni fa incise sulla sua gavetta, all’interno di una baracca.
Si trattava di una semplice scodella dell’esercito italiano, ammaccata e
graffiata. Qui nel lager però queste scodelle erano più di un
recipiente. Spesso erano l’unica cosa che rimaneva agli uomini della
loro amata patria italiana. E così diventavano lo schermo di metallo su
cui proiettare nostalgie e paure. Il prigioniero Ivo Sghedoni sulla sua
gavetta scrisse due parole di forte impatto: «fame e paura».
Fame e
paura, dolore e ingiustizia, perpetrata dai nazionalsocialisti tedeschi
nei confronti degli internati militari italiani. Ne sono testimonianza
le gavette di questi uomini. E ne è testimonianza l’angosciante e al
contempo suggestiva mostra che si inaugura oggi a Berlino («Tra più
fuochi, La storia degli Internati Militari Italiani 1943-1945», presso
il Centro di Documentazione sui Lavori Forzati Nazionalsocialisti di
Berlino, ndt).
Centinaia di migliaia di italiani furono catturati
dai nazisti dopo che il Maresciallo Badoglio a settembre del 1943 firmò
l’armistizio con gli Alleati. Il patto dell’Italia con la Germania
nazista si era così spezzato. I soldati italiani, ancora impegnati nei
combattimenti al fianco dei soldati tedeschi della Wehrmacht, si
trovarono ora effettivamente «tra più fuochi». Erano i tedeschi di cui
erano stati alleati fino ad allora che adesso li stipavano nei treni
merci per deportarli nel Deutsches Reich e in Polonia, dove li
costringevano a svolgere lavori pesanti e logoranti, soprattutto
nell’industria degli armamenti. Ed erano gli ex alleati che adesso li
bandivano apertamente e a gran voce come traditori. «I bambini ci
tiravano sassi e le donne ci sputavano addosso», raccontava il soldato
italiano Settimo Bosetti. «Eravamo gente cattiva, traditori, feccia
umana. Quel disprezzo ci bruciava quasi più della fame!».
Anche le
gavette di uomini come Andrea Talmon raccontano che cosa significasse
concretamente quel disprezzo per la vita degli internati. Ad esempio
quando i nazisti introdussero la cosiddetta «alimentazione proporzionata
alla produttività», con cui le razioni vennero ridotte come perfida
punizione.
«Sono stato costretto a rompere il ghiaccio, la neve
ghiacciata per terra, a scioglierla in una gavetta e a bere quell’acqua
così com’era», ricorda l’internato Donato Esposito. «Si raccoglievano le
briciole di pane dal tavolo. Abitudine che è rimasta! Guardi, la fame è
una cosa che rimane appiccicata alla pelle...». Oltre 650.000 italiani
vennero costretti al lavoro forzato nell’industria della guerra tedesca.
Un numero quasi inimmaginabile! Più di 50.000 morirono in prigionia.
In
un posto come questo, a Schöneweide, volgiamo lo sguardo al capitolo
più buio della nostra storia comune. A una sofferenza e un dolore
indicibili. E con questo sguardo rivolto indietro nel buio, io credo che
si illumini la nostra visione del presente. Del lungo cammino percorso
dai nostri due Paesi negli ultimi settant’anni. Un cammino che ha creato
amicizia e fiducia all’interno di un’Europa unita. Questa fiducia
reciproca è stata anche il punto di partenza del nostro percorso verso
una cultura della memoria comune, così a lungo assente. [...]
Oggi
creiamo anche qui a Schöneweide un altro luogo della memoria. Chi
scende, qui nel lager, nel seminterrato della baracca 13 vi trova ancora
ben leggibili sulle pareti le scritte dei prigionieri italiani. [...]
Concluso e finito è il doloroso capitolo di storia italo-tedesca di cui è
simbolo questo lager. Ma non dobbiamo dimenticarlo e non lo
dimenticheremo. Il Passato non è una constatazione storica, è un monito.