mercoledì 7 dicembre 2016

Internazionale 2.12. 2016
Nella testa di chi studia una seconda lingua
di Angela Grant, Aeon, Regno Unito

Perché alcune persone sembrano più portate per le lingue di altre? Capire meglio i processi di apprendimento linguistico potrebbe aprire a nuovi metodi d’insegnamento
Vi ricordate l’ultima volta che avete seguito un corso di lingua straniera? Che fosse in un’aula o online, intensivo o di traduzione, scommetto che alla fine del corso le vostre competenze linguistiche erano diverse da quelle degli altri studenti. Le differenze tra le persone esistono in ogni ambito, dalla matematica all’atletica. Nel mio campo, la psicologia dell’apprendimento di una seconda lingua, la causa di queste differenze non è ancora chiara: perché per alcuni imparare una lingua è più facile che per altri?
Nel tentativo di capirlo, la neuroscienziata Xiaoqian Chai e i suoi colleghi della McGill university di Montréal usano la risonanza magnetica funzionale a riposo (che misura l’attività cerebrale seguendo il lusso d’ossigeno quando si è svegli ma non si svolge alcun compito). Esaminando gli studenti di un corso intensivo di francese di dodici settimane hanno rilevato enormi differenze nei progressi dei partecipanti.
Per lo studio, pubblicato dal Journal of Neuroscience, i ricercatori hanno sottoposto a risonanza magnetica il cervello dei madrelingua inglese prima di un corso che prevedeva un’immersione nel francese di sei ore al giorno per cinque giorni a settimana. Tutto questo avveniva nel contesto bi- lingue di Montréal, in Québec, ideale per imparare in fretta una lingua straniera.
Invece di affidarsi ai voti o alle autovalutazioni, l’équipe di McGill ha raccolto dati spontanei di parlato (chiedendo per esempio agli studenti di raccontare una giornata al mare) e campioni di lettura, sia in francese sia in inglese, prima e dopo il corso. Dalla risonanza è emerso che le differenze nei progressi di ciascuna competenza erano legate a preesistenti differenze della connettività cerebrale di ogni studente. Il lusso d’ossigeno nel cervello a riposo, cioè, per- metteva di prevedere il progresso di precisi aspetti delle competenze.
I ricercatori sono partiti da alcune ipotesi sulla relazione tra attività cerebrale funzionale e competenze linguistiche. Grazie a studi precedenti, infatti, sapevano che la lettura canalizza il flusso d’ossigeno nell’area cerebrale dedicata alla forma visiva delle parole e che, invece, il parlato sollecita la circonvoluzione frontale inferiore media. Basandosi su queste aree, hanno quindi calcolato le connessioni con il resto del cervello e studiato la mappa della connettività di ogni studente rispetto ai progressi nella lettura e nel parlato.
Come si aspettavano, hanno scoperto che ogni competenza dipende da connessioni funzionali diverse: la lettura dalle connessioni tra la circonvoluzione temporale superiore media e l’area per la forma visiva delle parole. Il parlato, invece, dipende dalle connessioni tra la corteccia cingolata anteriore e la circonvoluzione temporale superiore posteriore con la circonvoluzione frontale inferiore media. Per entrambe, la maggiore connettività precedente al corso corrispondeva a migliori risultati dopo il periodo intensivo.
Connessioni virtuose
Questi risultati sollevano altre domande: se la connettività prevede l’apprendimento, come si prevede la connettività? Cosa possono fare scienziati e insegnanti per agevolare queste connessioni?
Un’idea è scavare più a fondo nelle competenze della prima lingua. La ricerca sui bilingue negli Stati Uniti indica che una lingua madre forte è essenziale per imparare bene una seconda lingua, soprattutto nei bambini. È quindi possibile che certe differenze di connettività si spieghino con competenze linguistiche preesistenti: quanto si legge, o si parla, nella lingua madre.
Un altro interrogativo è: cos’è successo dopo il corso? Gli studenti meno bravi hanno manifestato aumenti di connettività (perché, per così dire, hanno avuto più spazio per crescere) o riduzioni (perché c’è un rapporto più diretto tra connettività e resa)? Ancora non si sa, perché pochi studi sono riusciti a seguire i volontari a lungo, complici i costi di queste ricerche e l’alto tasso di abbandono scolastico.
Comprendere meglio i meccanismi dell’apprendimento linguistico potrebbe permettere di trovare nuove tecniche che sfruttino i punti di forza di ognuno. La prossima generazione di preadolescenti entrerà in un mondo sempre più globalizzato e avrà bisogno di tutto il nostro aiuto.

Angela Grant è dottoranda in psicologia all’università della Pennsylvania.