il manifesto 4.12.16
Strindberg, scene paranoiche da un matrimonio
Scritto
in francese, «L’arringa di un pazzo», da Adelphi. L’atroce storia
dell’unione tra il drammaturgo svedese e la baronessa von Essen, da
leggersi come «caso clinico»
di Enzo Di Mauro
Chiunque
dovesse leggere L’arringa di un pazzo (Adelphi «Biblioteca», traduzione
di Francesco Bergamasco, pp. 284, euro 19,00) servendosi di una griglia
interpretativa semplicemente ideologica, e magari aggiungendovi una
spruzzatina di correttezza politica, di certo se ne sentirebbe
imbarazzato e respinto. August Strindberg lo scrisse direttamente in
francese tra il 1886 e il 1887 con quel medesimo furore, insieme
accusatorio e difensivo, che contraddistingue tutto il suo ciclo
narrativo di carattere autobiografico, da Il figlio di una serva a
Inferno, da Lui e lei a Solo e ai Diari occulti, questi ultimi due
pubblicati postumi – un lungo lavoro di scavo interiore e di
autoanalisi, ossessivo e puntiglioso, che lo impegnò dal 1885 (aveva
allora trentacinque anni) al 1903, nove anni prima della morte. Ma pure,
e non di meno, il testo in questione (ma anche l’intero ciclo) viene
squassato da una tempesta di maledizioni, da un repertorio di violente
invettive, di insulti sanguinosi, da un fiume in piena di presunti
complotti, di persecuzioni, di alleanze diaboliche ai danni di un uomo
che dice di sentirsi piagato dal destino, messo all’indice e addirittura
in croce da un consesso di misteriose divinità e, in primo luogo, al di
sopra di ogni altra sventura, azzannato dalle fauci d’acciaio di un
universo femminile ormai votato alla disubbidienza, alla rivolta,
all’emancipazione. Strindberg vede ovunque, attorno a sé e fin dentro le
mura domestiche, puttane e lesbiche ammantate di sociale santità,
elevate a protagoniste eroiche dei tempi nuovi, celebrate in quanto
emblemi di una modernità blasfema e distruttiva – un tradimento o un
attentato all’ordine del mondo, una spinta fatale verso il definitivo
trionfo del caos. Egli insomma è l’«idealista», lei una «criminale», una
«squilibrata», una «ninfomane», una «vacca», una «mezza scimmia».
L’animale morente, seppure ferito e assediato, vuole restaurare
l’armonia perduta, ricostituire un centro andato in frantumi.
Ma
L’arringa di un pazzo – la storia di un matrimonio, quello con la
baronessa Siri von Essen, sposata nel 1877 e dalla quale Strindberg
divorziò nel 1891 – andrà letto piuttosto come un «caso clinico», come
il referto di una nevrosi di carattere paranoico, come il racconto di
una esperienza innanzitutto psichica (fu Pasolini, nel 1973, recensendo
il potente e visionario Inferno nella sua prima versione italiana
completa che include Leggende e Giacobbe lotta, edizione accompagnata da
un bellissimo saggio di Luciano Codignola, a usare il termine
«esperienza», quasi a volerne sottolineare non tanto l’unicità quanto la
peculiare natura di documento, di tentativo di diagnosi autoriflessa,
introvertita, di messa in atto di un agonismo, di un antagonismo dalle
dimensioni astrali). Strindberg lo annotava, sempre in Inferno, con
sorprendente lucidità: «Vedo me stesso come l’oggetto innocente d’una
ingiusta persecuzione. Gli ignoti mi impediscono di portar avanti la
grande opera, e io dovrò infrangere gli ostacoli prima d’ottenere la
corona del vincitore». Quel resoconto così tumultuoso e dirompente –
seminato di conoscenze alchemiche, occultismo, teosofia, sincretismo
religioso, chimica, medicina, grumi swedenborghiani, disarmate
confessioni – va a collocarsi perfettamente nel clima dell’epoca, anzi
la spiega e ne viene altrettanto rischiarato. L’orizzonte è dirimente:
del 1886 è difatti la prefazione di Freud alle Lezioni sulle malattie
del sistema nervoso del dottor Charcot, datati 1892-’95 sono gli Studi
sull’isteria. E proprio negli stessi anni il presidente di Corte
d’Appello Schreber intraprende quella discesa agli inferi che più tardi,
nel 1903, si tradurrà nelle Memorie di un malato di nervi.
Occupandosi,
com’è noto, proprio di questa mirabolante escrescenza psichica in un
celebre saggio del 1910, Freud offre una decisiva chiave di lettura per
meglio comprendere anche Strindberg e la sua nevrosi. «Per difendersi da
una fantasia di desiderio omosessuale», scrive Freud, «il paziente
reagisce precisamente con un delirio di persecuzione di un certo tipo»,
ovvero e ancora «nel delirio di persecuzione la deformazione consiste in
una trasformazione dell’affetto. Ciò che doveva essere sentito
interiormente come amore è percepito come odio proveniente
dall’esterno».
Che questa sia la dinamica su cui si regge la lunga
teoria di opere in forma di confessione, di autodifesa e di vendetta di
Strindberg appare evidente. Delirio di redenzione, fantasia di
evirazione, frustrazioni, complesso di inferiorità (figlio della serva
appunto: «Il figlio del popolo ha conquistato la donna dalla pelle
candida, il plebeo ha ottenuto l’amore di una giovane di nobili natali,
il guardiano di porci ha mescolato con quello della principessa»), acute
tendenze schizofreniche (evidenziate in un saggio di Jaspers): ecco gli
elementi che rendono la lettura, nello specifico, dell’Arringa di un
pazzo fors’anche imbarazzante, ma di sicuro perturbante per come viene
investita da quella «terribilità» su cui, in una pagina di diario del
1915, mise l’accento già Kafka, il quale (occorre rammentarlo)
considerava La stanza rossa (1879) un libro fondamentale della propria
formazione.
E dunque, alla luce di una simile perizia, non sembra
strano che Strindberg assuma la donna per propria antagonista. Né poteva
essere più chiaro ed esplicito di quanto lo sia stato nell’introduzione
a La signorina Julie, l’atto unico del 1888 che gli diede fama
mondiale, laddove afferma: «La mezzafemmina è un tipo che si spiana la
strada, che oggi si vende per il potere, le onorificenze, distinzioni e
diplomi, come in passato per soldi, ed è un sintomo di degenerazione.
Non è un buon elemento perché non ha resistenza, anche se purtroppo si
perpetua con la sua pochezza; pare, infatti, che i degenerati sovente la
preferiscano a livello inconscio, permettendole di riprodursi,
generando esseri incerti che penano a sopravvivere e fortunatamente
infine periscono, ora incapaci di adeguarsi alla realtà ora a causa
dell’ineluttabile affioramento degli istinti repressi ora per la
disperazione di non poter raggiungere il maschio».
Il maschio è il
«vero signore della creazione, colui che ha creato la civiltà, la
cultura portatrice di benefici, il creatore dei grandi sistemi di
pensiero, delle arti, dei mestieri, di tutto», e volerlo detronizzare a
favore delle donne, «bestie immonde», è una pura e semplice
«provocazione», una bestemmia. Siri von Essen, nel romanzo, diventa
Maria, forse non a caso. Poiché, per Strindberg, la tragedia, lo
schianto, il cupio dissolvi, l’abisso è quando la Madonna si sveste di
santità per indossare gli abiti della donna, così sottraendogli il
«piacere della venerazione, del sacrificio, della sofferenza» e del non
possesso di natura carnale. L’infedeltà, la perfidia della donna
risiede, per lui, precisamente in questo movimento di approssimazione,
di terrestrità: trasformarsi, in altri termini, in oggetto non più da
adorare nella sua celeste e astratta lontananza, bensì da desiderare,
umanamente.
Come ogni romanzo a tesi, anche Le Plaidoyer d’un fou –
questo il titolo originale – non ammette sorprese né strappi. Esso
corre – da Stoccolma a Parigi e alla Svizzera – inseguendo un approdo
già deciso in partenza e percorrendo una strada obbligata, a suo modo
coerente. Le scene da un matrimonio, sebbene molte volte comiche e
grottesche, non riescono a negare al libro quel carattere che potremmo
chiamare programmatico a cui l’autore teneva più di ogni altra cosa. E
bisogna riconoscere a Strindberg di avere scritto in effetti, come egli
dice in premessa, «un libro atroce». Ma sicuramente, date cause e
premesse, meno atroce dell’infame libercolo dello psichiatra tedesco
Moebius intitolato L’inferiorità mentale della donna, pubblicato nel
1900, proprio ad apertura di secolo. Non sappiamo se il commediografo
svedese lo abbia letto. Certo lo avrebbe sottoscritto.