il manifesto 4.12.16
Così disse Céline ai suoi manutengoli
Carteggi.
Oltre duecento «Lettere agli editori» scelte da Quodlibet tra quelle
che l’autore del «Voyage» invia, fra il ’32 e il ’61: rigurgiti di odio
verso quelli che considera «infami pescecani»
di Massimo Raffaeli
L’epistolario
di Louis-Ferdinand Céline non è una didascalia né una integrazione dei
romanzi ma ne è, viceversa, la traccia itinerante così come il banco di
prova. Non è un caso che il suo maggiore studioso, Henri Godard, abbia
nel 2009 curato per la Pléiade, in collaborazione con Jean-Paul Louis,
il volume delle Lettres (1907-1961) che pur costituendone una scelta
consta di qualcosa come duemila pagine.
Esoso e sorprendente
bilancio per un individuo bollato di tetraggine, di preconcetta ostilità
agli umani e di inguaribile misantropia, il suo epistolario si profila
come uno sfogatoio e, insieme, come una necessaria barra di appoggio,
quasi una violazione del silenzio che intanto incuba il rancore, vero e
proprio soundtrack della sua vita quotidiana e di una ispirazione che si
manifesta per rigurgiti dell’odio. Scrisse infatti al momento
dell’esordio, rendendo omaggio a Zola, tra i pochi cui riconoscesse
l’onestà dello sguardo e una parola veridica, che la musica del suo
stile, un argot da piccola gente, era potuta scaturire soltanto
dall’odio.
Il risentimento, il rancore, una aggressività che non
trova requie e ha bisogno di mutare bersaglio di continuo (come sanno i
lettori del Viaggio al termine della notte, di Morte a credito e della
terminale Trilogia del Nord, per tacere ovviamente dei pamphlet anni
trenta, razzisti e antisemiti) insomma tutto il repertorio di una
proclamata disumanità o comunque di una primitiva diffidenza nei
riguardi degli uomini è la musa di Céline. O piuttosto, negli eccessi e
negli improperi che non vogliono risparmiare nessuno, lì si celano i
parafarnalia di una sensibilità ferita ab origine, di una condizione di
minorità sociale e culturale (il figlio della merlettaia e di un modesto
impiegato, l’autodidatta e il medico di banlieue) mai riscattata e in
ogni caso mai accettata.
L’epistolario ci dice che Céline è un
uomo incapace di ricevere un dono e, anzi, di concepirlo perché sempre
sospetta nel dono una truffa, un raggiro. Le sue lettere ci dicono
altresì che per lui è inimmaginabile la gratuità dell’amore, se non
nella forma di un inganno da adolescenti, se persino la forma del patto e
la nuda natura dello scambio gli inducono sospetto e acrimonia.
Va
da sé che outsider per vocazione ed elezione, anarchico e indocile,
incapace di fedeltà se non al fragore invasivo del suo genio, Céline ha
maltrattato e vituperato, o peggio sistematicamente diffamato, i propri
editori quali manutengoli, profittatori e infami pescicani, come
attestano appunto le sue Lettere agli editori (Quodlibet, pp. 250, €
19.00), una selezione annotata e accuratamente tradotta da Martina
Cardelli, che trasceglie dall’invaso delle Lettres ma specialmente dai
Cahiers Céline (editi da Gallimard fin dagli anni settanta) e da diversi
carteggi monografici . Le lettere sono circa duecento (solo per
eccezione sono incluse missive dei corrispondenti), e vengono ordinate
per cronologia, fra il ’32, l’anno in cui esplode il Voyage, e il ’61,
l’anno in cui muore lo scrittore.
Tre sono i principali
destinatari: prima Denoel, colui che lo pubblicò battendo sul tempo un
consulente di prestigio della N.R.F. (l’esteta e diplomatico di carriera
Benjamin Crémieux); quindi, negli anni della fuga da Parigi e
dell’esilio danese, Pierre Monnier, che fu tanto suo editore clandestino
quanto un agente decisivo per la rentrée a seguito dell’amnistia e del
ritorno in Francia nel ’51; infine Gaston Gallimard (col suo maggiore
editor, il critico Jean Paulhan) che acquisisce Céline in via
definitiva, lo rilancia e lo immette addirittura vivo nella prestigiosa
Bibliothèque de la Pléiade.
Tuttavia, Céline non si smentisce
perché può variare l’occasione ma il tono delle lettere rimane uno e
cioè la lamentela vittimistica. Dice di sentirsi un operaio sfruttato e
depredato dei diritti d’autore, declama una panoplia di atti di accusa,
perché costoro, gli editori, a vario titolo sarebbero incapaci di
stampare un libro comme il faut, negati a valorizzarlo se non in
presenza di paccottiglia commerciale, invischiati come sono tutti quanti
da problemi di cocktail, di mondanità e di eterne vacanze. Qui
l’invettiva arriva regolarmente al diapason, l’aggressività si libera in
un grottesco che colpisce l’interlocutore/vittima nello stesso momento
in cui sembra blandirlo o irretirlo.
Chi legge deve sentirsi
necessariamente inadeguato, in colpa, ma nel frattempo lusingato dal
fatto di venire omaggiato dai colpi di cotanto scrittore. Eloquente è il
caso di Gaston Gallimard (e del suo povero assistente Paulhan detto
Loukoum, insomma «Leccalecca»), il quale lo ha redento dalla condizione
di paria, lo ha ripubblicato in blocco, gli ha versato consistenti
anticipi, gli ha affiliato un consulente capace e affettuoso (il giovane
romanziere Roger Nimier, l’autore di Le spade), lo ha «pléiadizzato»
eppure si sente dare dell’ipocrita e del mentitore, del «cioccolataio» e
del vecchio insatirito.
A lui scrive per esempio il 2 aprile del
’55 e a proposito della pubblicazione in volume dei Colloqui con il
Professor Y, il solo testo di poetica che Céline abbia ufficialmente
scritto in vita sua, costretto a redigerlo per motivi che oggi si
direbbero di visibilità mediatica: «Lei è Compare Alibi, ha sempre la
risposta pronta, evasiva o sbagliata ma sempre pronta! Certo che
funzionerà se si danno da fare, se glielo ordina in quanto Papa della
Sinagoga ‘N.R.F., rosso-frocio-gaullista’. Ridicola questa tiratura di
6.000 copie Vuol farmi crepare! Mi strangola! Papa rosso, frocio,
gaullista! Viva Israele! Viva il ghetto N.R.F.,
frocio-gaullista-partigiano! E il suo Papa!»
C’è solo da
aggiungere che l’invettiva per Céline non procede tanto o solo dalla
intemperanza del carattere quanto dalla necessità di dare un volto e un
nome agli assassini del pauvre Ferdinand, che è la maschera terminale e
il personaggio essenziale, la vittima per eccellenza, della sua arte
visionaria.
Basta leggere le prime cinquanta pagine di Da un
castello all’altro (’57) dove Gaston nella sua scuderia tiene le fila
del complotto o andare al baricentro di Pantomima per un’altra volta
(’52), il romanzo del ritorno, in cui Ferdinand si vede linciato e
sotterrato dagli autori della scuderia medesima, mentre i suoi nemici
giurati (Sartre, Mauriac, Aragon) gli urinano addosso dall’orlo della
fossa: è lì che alla faccia di lui se la ride Gaston, le vieux cochon,
il vecchio porco naturalmente.