il manifesto 15.12.16
Non basterà il sapone di Aleppo
di Tommaso Di Francesco
Non
basterà il sapone di Aleppo – ormai introvabile per effetto della
guerra – a lavare le responsabilità dell’Occidente e le post-verità,
raccontate negli ultimi cinque anni sulla Siria.
Del resto è già
capitato per le guerre nell’ex Jugoslavia: sotto una foto che dimostrava
come i crimini fossero commessi da tutte la parti, si preferiva una
didascalia menzognera. Così sotto una fotografia, in bella mostra su un
settimanale di grido, che mostrava un miliziano musulmano con tanto di
berretto afghano e in mano il trofeo di tre teste tagliate di nemici,
veniva scritta la didascalia: «Atrocità delle milizie serbe»; era in
realtà un mujaheddin già allora cortocircuitato con altre migliaia in
Bosnia dall’Afghanistan grazie a Usa, Iran e Arabia saudita. E le teste
tagliate appartenevano, come emerse, a tre miliziani serbi.
Adesso accade la stessa cosa.
Perché
il fermo-immagine era quello di armeni, kurdi e cristiani in festa in
tutta Aleppo, con migliaia di rifugiati in cammino per raggiungere
l’ovest della città. Certo prima dell’attuale stallo, con gli ultimi
civili bloccati nell’evacuazione perché deve avvenire insieme ai
combattenti jihadisti, mentre riprendono i micidiali raid aerei
governativi e russi e i lanci di razzi dei «ribelli» che hanno provocato
sei vittime nel quartiere Bustan al Qasr da poco riconquistato dai
governativi.
Ora la foto vera dello stallo siriano sono gli
autobus, con le insegne governative, che avrebbero dovuto portare a
termine l’ultima evacuazione, fermi e vuoti ad Al Ramusa, con colonne di
civili che si sono avvicinate per poi allontanarsi di nuovo.
Di
fronte alla tragedia di Aleppo, sfigurata per sempre nell’orizzonte
delle sue rovine, i media occidentali sembrano divertirsi a gridare alla
«strage di civili», quasi augurandosela.
Ma di stragi di civili
ce ne sono state a centinaia e nell’indifferenza generale, se è vero che
i morti di Aleppo sono più di 100mila e più di 200mila nel Paese ormai
dilaniato, con 1 milione di feriti e con circa 7 milioni tra profughi e
rifugiati interni. Questa è la strage che più o meno dovrebbe stare
sotto i nostri occhi tutt’altro che innocenti.
Perché i Paesi
europei, gli Stati uniti con la Turchia e le petromonarchie del Golfo
(Arabia saudita in testa) hanno tentato con coalizioni internazionali
come gli «Amici della Siria» e con un intervento militare indiretto –
fatto di forniture di armi, finanziamenti e addestramento militare fin
nelle basi della Nato nella confinante Turchia – di destabilizzare la
Siria esattamente come avevano fatto già con successo in Libia con
Gheddafi.
Certo sulla scia della repressione di Assad contro una
rivolta interna che era scoppiata, ma che più che movimento di
«primavera» fu quasi subito armata e con un ruolo centrale dello
jihadismo islamista (dai salafiti, ad Al Nusra-Al Qaeda, a formazioni
legate all’Isis) e invece con una presenza subito marginale
dell’«opposizione democratica», anch’essa armata. Un’area politica,
quella jihadista, dilagata dai santuari libici in tutta la regione fino a
costituirsi in «Stato islamico» in metà della Siria e in due terzi
dell’Iraq, qui grazie ai disastri provocati di ben tre guerre americane.
Questa
tragedia strategica dell’Occidente, segnatamente sia delle destre che
delle sinistre al governo, è un’ombra che sarà difficile rimuovere.
Nonostante
– ha recentemente notato anche Paolo Mieli sul Corriere della Sera – il
dispendio di manicheismo politico-giornalistico. Per il quale ci
sarebbero i bombardamenti aerei dei «buoni», quelli Usa che su Mosul
sgancerebbero caramelle – e invece anche lì è strage di civili – e
dall’altra i raid aerei dei «cattivi» del nemico finalmente ritrovato,
la Russia di Putin. Che, è bene ricordarlo, torna sullo scenario siriano
una prima volta nel 2013 quando impedisce l’attacco Usa per un presunto
raid governativo al gas nervino – che inchieste indipendenti e il New
Yorker dimostreranno inventato – insieme alla preghiera di papa
Francesco. Che in questi giorni ha inviato una lettera che auspicava la
fine della guerra «contro ogni violenza» proprio ad Assad in qualche
modo criticando i suoi metodi ma anche accreditandolo come
interlocutore; poi Putin ritorna a fine 2015 quasi chiamato da Obama che
lo incontra nel «vertice del caminetto» alla Casa bianca, di fronte al
fallimento della strategia militare occidentale e all’esplodere del
bubbone Turchia, con le rivelazioni sui rapporti diretti, in armi e
traffici petroliferi, tra il Sultano atlantico Erdogan e lo Stato
islamico.
Ora Aleppo est è liberata dalle milizie jihadiste e dei
pochi combattenti dell’opposizione democratica che però per esistere si
sono ormai coordinati con salafiti e qaedisti, dopo l’ennesimo
insuccesso degli Stati uniti – per ammissione della stessa Cia – che
hanno provato ad organizzarli.
Ma la guerra non è finita, anzi.
Con la Turchia impegnata a massacrare i kurdi e a demolire le autonomie
del Rojava ai suoi confini, e con l’Isis che resta forte a Idlib e
Raqqa. Dove affluiscono tutti i jihadisti scampati da Aleppo e quelli in
fuga dall’Iraq.
La nuova battaglia infatti che si apre, e che
punta a decretare la pericolosa spartizione della Siria, è quella delle
«vie d’uscita» jihadiste.
Con chi stare in questo caos sanguinoso? Solo con i civili
Con
chi stare in questo caos sanguinoso? Solo con i civili, in fuga in
milioni e in centinaia di migliaia arrivati nel cuore dell’Europa e
sostanzialmente da noi respinti. Con i civili, anche adesso che servono a
far durare la battaglia di Aleppo.
Ma è naturalmente
politicamente scorretto dire per Aleppo quello che è narrazione corrente
per Mosul: e cioè che sono sequestrati come scudi umani. Se escono loro
devono uscire anche i miliziani jihadisti.
Questa è la trattativa
sul campo, quello che l’inviato dell’Onu Staffan De Mistura chiede da
due mesi appellandosi alle milizie anti-Assad perché abbandonino le
posizioni evacuando sotto supervisione Onu.
Della foto di questo
stallo la didascalia che suggeriamo è: «Ecco il fallimento della guerra
umanitaria dell’Occidente che ha avvantaggiato Putin richiamandolo a
ruolo egemone nell’area, permettendo alla nuova destra nazionalpopulista
americana di ergersi addirittura a garante della pace».
La
rappresentante Usa all’Onu Samantha Power ha accusato Russia-Iran e Cina
di «sponsorizzare la barbarie», invitandoli a «vergognarsi».
Ma
non dovrebbero vergognarsi per primi proprio gli Stati uniti e i governi
europei impegnati nella scellerata «amicizia» con la Siria?