mercoledì 14 dicembre 2016

il manifesto 14.12.16
Un campo di battaglia chiamato Yemen
Archeologia sotto attacco. La ricognizione è desolante: più di cinquanta i siti storici colpiti dai bombardamenti sauditi, alcuni - da Barâqish a Sada'a fino a Marib - hanno danni irreversibili. di Valentina Porcheddu

«La porta principale di Sana’a si apre sui luoghi, dove fino a pochi mesi fa – isolate nella vallata desertica – sorgevano le sue stupende mura. Ci rivolgiamo all’Unesco perché aiuti lo Yemen a salvarsi dalla sua distruzione, cominciata con la distruzione delle mura di Sana’a. Ci rivolgiamo all’Unesco perché aiuti lo Yemen ad avere coscienza della sua identità e del paese prezioso che esso è (…). Ci rivolgiamo all’Unesco perché trovi la possibilità di dare a questa nuova nazione la coscienza di essere un bene comune dell’umanità e di dover proteggersi per restarlo. Ci rivolgiamo all’Unesco in nome della vera, seppur ancora inespressa, volontà del popolo yemenita, in nome degli uomini semplici che la povertà ha mantenuto puri, in nome della grazia dei secoli oscuri, in nome della scandalosa forza rivoluzionaria del passato».
Era il 1971 quando la docile ma ferma voce di Pier Paolo Pasolini accompagnava con queste parole un breve documentario (Le Mura di Sana’a) in forma di appello all’Unesco, volto a trasmettere una speranza e una supplica: che il desiderio di progresso e le speculazioni della civiltà industriale non oscurassero per sempre la nobile poesia di un mondo autenticamente arcaico.
Quindici anni dopo, l’Unesco riconobbe le mura in terra cruda ancora preservate e i palazzi di Sana’a quali capolavori di architettura di antica tradizione. Con questi criteri – uniti all’importanza delle sue moschee per la diffusione dell’Islam nei primi anni dell’Egira – la capitale dello Yemen entrò nella prestigiosa lista del World Heritage. E se Pasolini non poté gioire di questo risultato, oggi proverebbe rammarico nel veder realizzato il suo cupo timore.
L’OPERAZIONE MILITARE «Tempesta decisiva» (nel marzo 2015) guidata dall’Arabia Saudita con l’obiettivo di respingere i ribelli sciiti Houthi dalla capitale yemenita e dal resto del paese, ha aperto ferite indelebili nella città vecchia di Sana’a. Assieme a centinaia di civili, alcuni palazzi costruiti in mattoni e pietra sono caduti sotto il peso delle bombe «intelligenti», mendaci e perversi feticci delle guerre moderne.
«In questo campo non si possono commettere errori. Si tratta, al contrario, di attacchi mirati ad annientare una struttura sociale e culturale», dice al manifesto l’architetto Renzo Ravagnan, direttore dell’Istituto veneto per i beni culturali (Ivbc) con sede a Venezia e che proprio a Sana’a – dopo un percorso decennale destinato a formare un centinaio di giovani restauratori yemeniti – ha fondato nel 2014 l’Istituto italo-yemenita per la conservazione. «Sana’a è una città senza architetti. Le case-torri (se ne contano circa 6500, ndr) sono il risultato di una concezione culturale che si è protratta nei secoli, la manifestazione fisica di un sistema abitativo che è al contempo tradizione e ricerca di creatività collettiva».
Nel giugno 2015 – a ridosso del famoso bustan (orto-giardino) di al-Qasimi – tre palazzi contigui sono stati colpiti dai raid sauditi e, sebbene il numero degli edifici storici distrutti non sia a tutt’oggi elevatissimo, la situazione resta drammatica a causa della profonda crisi umanitaria in cui versa lo Yemen. «Temo che nell’imminente futuro non ci saranno le risorse economiche per affrontare eventuali ricostruzioni» continua Ravagnan, persuaso che alla fine del conflitto lo scenario più probabile sarà quello di una spaccatura del paese in due blocchi, con la regione settentrionale in posizione di debolezza.
NEL 2015 SAREBBE dovuto partire, sempre a cura dell’Ivbc, il progetto di restauro della moschea di Muzaffar a Ta’izz, lavoro attraverso il quale i tecnici formati da Ravagnan avrebbero potuto svolgere un ruolo da protagonisti nella salvaguardia del patrimonio storico dello Yemen. Tuttavia, laddove scarseggiano i beni di prima necessità, la sopravvivenza della popolazione viene prima di qualsiasi monumento. Emblematica in questo senso è la storia di Selma Hasan, giovane yemenita originaria di Sana’a, diplomatasi in restauro a Venezia e ora costretta a rifugiarsi in Italia senza poter mettere a frutto nella terra natia le competenze acquisite.
AD ESSER DEVASTATA da una guerra che malgrado i silenzi della stampa ha ormai assunto portata internazionale non è soltanto Sana’a. Come riferisce l’archeologa Sabina Antonini – dal 2011 direttrice della Missione archeologica italiana nello Yemen – la lista con le coordinate dei monumenti e dei siti da risparmiare, compilata dalle missioni archeologiche operanti nello Yemen e fornita dall’Unesco alla Coalizione, non è servita a nulla. «Il fatto che nelle maggiori città dello Yemen ci siano musei archeologici ed etnografici, dimostra che gli yemeniti sono molto orgogliosi della loro eredità storica. La distruzione delle testimonianze del loro passato vuole privarli dell’identità», afferma Antonini.
Il bilancio delle perdite, che la studiosa ci aiuta a stilare, è desolante. Secondo le ultime informazioni sarebbero circa una cinquantina i siti archeologici e storici colpiti finora dai bombardamenti sauditi con la complicità degli alleati (anche occidentali), i quali forniscono armi e munizioni.
LA CITTÀ DI SADA’A, uno tra i più antichi centri religiosi sciiti della Penisola araba e fulcro della rivoluzione degli Houthi, è stata rasa al suolo. Danni irreversibili si registrano anche a Barâqish, luogo simbolo del regno carovaniero di Ma’in: qui la Missione archeologica italiana – col sostegno finanziario del Ministero degli affari esteri e dell’associazione Monumenta Orientalia – aveva condotto scavi estensivi e restaurato i templi dedicati alle divinità ’Athtar dhu-Qabd e Nakrah (VI secolo a. C. – I secolo d.C.).
Gravemente danneggiata è Marib, capitale dei Sabei e oggetto di ricerche da parte dell’Istituto archeologico germanico (Dai). Punto d’incontro di importanti rotte commerciali dell’Arabia interna, il regno di Saba controllava il lucroso commercio d’incenso e mirra, prodotti apprezzati sia nel Mediterraneo che in Mesopotamia.
La cinta muraria di Marib conteneva magnifici complessi cultuali e palazzi mentre i giardini che le davano lustro erano irrigati dall’omonima diga, spettacolare esempio di ingegneria idraulica anch’esso colpito dall’aviazione saudita. Una sorte ugualmente funesta è toccata a Sirwah, altro celebre sito sabeo che si distingueva per il santuario consacrato al dio Almaqah.
SCAVATO E RESTAURATO dal Dai, il maestoso tempio provvisto di propilei ha subìto pesanti danni in seguito alle battaglie di terra svoltesi al suo interno. Letteralmente polverizzata, invece, è la preziosa collezione di reperti del museo archeologico di Dhamar, che contava dodicimila manufatti sia di epoca pre-islamica che di periodo islamico. Più recentemente è stato abbattuto il museo storico che era il palazzo dell’ultimo imam a Ta’izz, dove erano custoditi, tra l’altro, antichi manoscritti. E se i media denunciano raramente la ferocia delle operazioni militari che persistono nello Yemen, esponenti della comunità internazionale provano a tenere alta l’attenzione sul paese e a sensibilizzare l’opinione pubblica.
È il caso dell’Istituto veneto per i beni culturali, distintosi per aver promosso un padiglione sullo Yemen alla XV Esposizione internazionale di architettura – Biennale di Venezia. Il medesimo istituto, di concerto con la Missione archeologica italiana nello Yemen e Monumenta Orientalia, ha organizzato al Museo d’arte orientale di Venezia una mostra con pannelli fotografico-descrittivi inerenti all’archeologia sudarabica e un ciclo di conferenze che terminerà il 16 dicembre con un convegno internazionale nell’ambito del progetto Yemen, patrimonio dell’umanità. Archeologia, arte e architettura.