Corriere 8.12.16
Gli strappi da evitare
di Massimo Franco
Le
dimissioni formali di Matteo Renzi vanno salutate come un atto di
responsabilità. Tirarla per le lunghe dopo la sconfitta al referendum
del 4 dicembre avrebbe gettato un’ombra sulla sincerità del suo passo
indietro; e probabilmente irritato un’opinione pubblica che si è
espressa con nettezza contro le riforme istituzionali. Da oggi, la crisi
passa nelle mani del presidente della Repubblica. Ma non si può pensare
di scaricare sulle sue spalle il peso di una situazione nata da
un’analisi superficiale della società italiana e dei suoi umori più
profondi; e della quale l’origine ma anche buona parte della soluzione
rimanda ai tormenti del Pd.
Ormai è chiaro che la legislatura è
agli sgoccioli. E sarebbe bene andare alle elezioni. Il problema è farlo
senza precostituire le premesse di un’Italia ingovernabile: per
capirsi, senza perpetuare le risse della campagna referendaria, quasi le
elezioni politiche fossero il semplice prolungamento dello scontro
degli ultimi mesi. Tra voto presto, auspicabile, e voto affrettato, da
evitare a tutti i costi, esiste una differenza sostanziale. Il primo
arriverebbe dopo avere raffreddato le tensioni tra i partiti; cercato di
riconciliare il Paese; e approvato una riforma elettorale che tenga
conto delle indicazioni della Corte costituzionale e armonizzi il
sistema alla Camera e al Senato.
I l secondo avverrebbe sull’onda
di una lettura emotiva e strumentale del referendum. Porterebbe alle
urne un Paese più spaccato che mai. E soprattutto riconsegnerebbe un
Parlamento a rischio di illegittimità, plasmato da una campagna
elettorale dominata dai revanscismi e da una sorta di condanna al
populismo di tutti. Tra l’altro, al Pd sarebbe difficile spiegare che si
debbono sciogliere subito le Camere, quando ieri la manovra finanziaria
ha ricevuto al Senato una larga fiducia. Dire che non esiste più la
maggioranza è qualcosa che l’opinione pubblica faticherebbe a capire. Il
passo indietro di Renzi ha valore se è un gesto di disponibilità a
facilitare la soluzione della crisi.
Può essere lui a guidare la
coda della legislatura, se lo ritiene. O può essere un altro esponente
del Pd indicato dal premier uscente, se non se la sente di tornare sui
suoi passi dopo avere annunciato che se ne andava perché era stato
battuto dal responso popolare. Quello che il Paese e il capo dello Stato
non capirebbero, sarebbe la tentazione di Renzi di mettersi di
traverso. E cioè rifiutarsi di assumere la responsabilità di un nuovo
incarico, troppo in contraddizione con quanto ha dichiarato la sera del 4
dicembre; e al tempo stesso impedire che qualunque altro candidato
entri a Palazzo Chigi in questa legislatura. L’enfasi con la quale il
segretario del Pd rivendica e esalta i voti ricevuti, quasi fossero
l’emblema di una «sconfitta vittoriosa», fa pensare che esiti a prendere
atto della nuova situazione. Ma su un punto Renzi va compreso. Teme che
sostenere da solo il peso di un governo di fine legislatura comporti un
logoramento potenzialmente fatale per il suo partito. Per questo invoca
una responsabilità anche degli altri, pur sapendo che sarà molto
difficile coinvolgerli. Lamenta di avere pagato il prezzo della
solitudine, senza però chiedersi quanto l’abbia lui stesso alimentata
intorno al Pd.
Forse, abbassando i toni e le pretese,
contribuirebbe a svelenire un’atmosfera impregnata ancora dai veleni
referendari e dalle accuse di arroganza. E probabilmente avrebbe
maggiori possibilità di succedere a se stesso, per guidare l’Italia alle
elezioni nella primavera del 2017 o, se la situazione lo richiedesse,
alla fine naturale della legislatura nel 2018. Il modo migliore per
abbassare la febbre della quale Movimento 5 Stelle e Lega sono i
principali interpreti e beneficiari, non sono accelerazioni e strappi
successivi. È il recupero di un rapporto forte, credibile, con l’Italia
profonda e con l’Europa.
Dopo una sconfitta così bruciante,
l’antidoto migliore per recuperare la spinta perduta è l’umiltà: insieme
a un raccordo stretto con il Quirinale di Sergio Mattarella, che Renzi
ha contribuito in modo decisivo a eleggere. Incrinare i rapporti col
capo dello Stato per tentare di imporre un voto affrettato sarebbe
l’ultimo regalo a Beppe Grillo.