Corriere 8.12.16
Gramsci sulle orme di Fozio
Due prigionieri che si prodigarono per ottenere i libri con cui studiare
di Luciano Canfora
«Vorrei
avere questi libri: 1° la Grammatica tedesca che era nello scaffale
accanto all’ingresso; 2° il Breviario di linguistica di Bertoni e
Bartoli che era nell’armadio di fronte al letto; 3° gratissimo le sarei
se mi inviasse una Divina Commedia di pochi soldi, perché il mio testo
lo avevo imprestato».
È Antonio Gramsci che scrive a Chiara
Passarge, sua padrona di casa a Roma (via G.B. Morgagni 25), pochi
giorni dopo l’arresto, avvenuto a Roma l’8 novembre 1926. In quel
momento, sul fondamento dell’assoluta illegittimità del suo arresto,
Gramsci è portato a pensare che resterà in carcere solo per breve tempo.
Scrive infatti, poco oltre nella stessa lettera: «Se la mia permanenza
in questo soggiorno durasse a lungo, credo ella debba ritenere libera la
stanza e disporne». Anche sua cognata Tania Schucht era convinta che
l’inverosimile arresto fosse di breve durata: e così scrisse in famiglia
a Mosca. La lettera in cui essa così si esprime è stata pubblicata in
anni recenti.
La lettera di Gramsci alla Passarge non giunse mai a
destinazione perché sequestrata dalla polizia. Perciò quei tre libri
non poté averli. Dopo vicende che sono ormai ben note (confino ad
Ustica, nuovo arresto e trasferimento «ordinario» a San Vittore a
Milano, «processone» durante il quale Gramsci è a Regina Coeli, condanna
a 20 anni di carcere nel giugno 1928, trasferimento definitivo a Turi
di Bari), Gramsci poté, non senza incontrare resistenze
politico-burocratiche, domandare penna, calamaio, e libri di studio. A
parte la disponibilità dei libri — spesso inutili o bizzarri — della
biblioteca delle varie carceri in cui fu ristretto. Fu una vera e
propria lotta, nel corso della quale Gramsci non esitò a scrivere
direttamente al «capo del governo», cioè a Mussolini, lettere
argomentate e vigorose per difendere il diritto alla lettura. Una
battaglia alla quale dobbiamo la nascita dei Quaderni del carcere .
In
una lettera alla moglie del 2 maggio 1927 (dal 9 febbraio era ristretto
a San Vittore e in marzo delinea un programma di studio, il celebre für
ewig ) scrive di aver letto «ottantadue libri» della bizzarra
biblioteca carceraria e di avere con sé «una certa quantità di libri
miei, un po’ più omogenei, che leggo con più attenzione e metodo.
Inoltre leggo cinque giornali al giorno e qualche rivista». Ancora:
«Studio il tedesco e il russo e imparo a memoria, nel testo, una novella
di Puškin, la Signorina-contadina ». Ma — commenta — «mi sono accorto
che, proprio al contrario di quanto avevo sempre pensato , in carcere si
studia male, per tante ragioni, tecniche e psicologiche».
Le
liste dei libri, opuscoli, riviste, di cui Gramsci poté via via disporre
negli anni di detenzione (dalla condanna definitiva del giugno 1928 al
trasferimento in clinica a Formia il 7 dicembre 1933; dall’ottobre 1934
egli è in libertà «condizionale») sono state pubblicate, dapprima in un
bel saggio di Giuseppe Carbone (sulla rivista «Movimento operaio»,
luglio-agosto 1952) e poi in appendice al IV volume dell’edizione
paleografica dei Quaderni del carcere a cura di Valentino Gerratana
(Einaudi, 1975). Celebri sono gli episodi del settembre 1930 e
dell’ottobre 1931, quando, da Turi, Gramsci scrive reiteratamente a
Mussolini e non solo critica le limitazioni arbitrarie alla lettura, ma
chiede — e ottiene — un’ampia serie di volumi, che vanno — nel 1930 —
dal Satyricon di Petronio al volume di Fülop-Müller sul bolscevismo all’
Autobiografia di Trotskij, e — nel 1931 — da «Critica fascista» a
«Civiltà cattolica», da «Labour Monthly» alla «Nouvelle Revue
Française», dalle opere complete di Marx ed Engels (edizione francese)
alle Lettere di Marx a Kugelmann con prefazione di Lenin. Opere che
tutte si ritrovano sia nella lista ricostruita da Carbone (p. 669) che
in quella di Gerratana (pp. 3.062-3.063).
Gramsci era dotato di
una notevolissima memoria, ed è istruttivo osservare come la esercitasse
per esempio mandando a mente novelle di Puškin. (i pedagogisti del
nostro tempo inorridiscano pure nella loro infantile ostilità allo
sforzo mnemonico). Ma è evidente che solo l’accesso ad una così grande
quantità di libri e riviste (ne abbiamo citato solo una minima parte)
poté render possibile il grande lavoro dei Quaderni , le cui pagine
partono molto spesso da uno spunto di lettura. Che si possa lavorare
scientificamente in assenza di libri e fondandosi unicamente su ciò che
si ha ancora in mente è un mito. È leggenda, ad esempio, che Diderot,
incarcerato nel castello di Vincennes, abbia tradotto la platonica
Apologia di Socrate perché ne ricordava a memoria il testo. Del resto,
lo stesso Diderot scrivendo, anni dopo (1762) a Sophie Volland, dirà:
«Avevo con me il mio Platone tascabile».
Il più grande
intellettuale del IX secolo, il patriarca Fozio, pur ristretto in
cattività perché deposto e condannato su impulso dell’imperatore Basilio
I in quel momento incline a dare un’offa al papa di Roma, non si
arrende e denuncia, scrivendo all’imperatore, la confisca dei libri che
lui e la sua cerchia leggevano e sistematicamente chiosavano. La sua
lettera all’imperatore ci è giunta e si può considerare un remoto
antecedente delle lettere del detenuto Gramsci a Mussolini. Anche
Basilio dovette accondiscendere, almeno in parte, alla richiesta del
grande detenuto. E dalla resti-tuzione a lui di una parte almeno dei
materiali che la «cerchia» aveva prodotto nacque il più importante,
ancorché labirintico al pari dei Quaderni gramsciani, libro del Medioevo
greco: la cosiddetta Biblioteca di Fozio.