Corriere 5.12.16
Gli errori e la partita finale del rottamatore
di Aldo Cazzullo
Renzi
si è mosso come se l’Italia fosse ancora quella del 41% alle Europee.
Ha sopravvalutato il proprio consenso e ha sottovalutato il disagio
sociale.
E alla fine Matteo Renzi si ritrovò come in una vecchia
puntata del Costanzo Show : solo contro tutti. A duellare con
Zagrebelsky e con De Mita, a sfidare invano Grillo e D’Alema; se Maciste
si fosse schierato per il no, avremmo visto Renzi contro Maciste. Da
Napolitano aveva ottenuto l’incarico di governo dietro l’impegno di fare
le riforme istituzionali, riportando al tavolo Berlusconi,
ricompattando il partito democratico, ridimensionando Grillo. Invece
Berlusconi si è sfilato dall’accordo — come ha sempre fatto da quando è
in politica —, la sinistra Pd dopo aver detto per sei volte sì in
Parlamento ha sostenuto il no, e Grillo non è mai stato così forte.
Missione incompiuta, anzi fallita, anche al di là dei suoi demeriti.
Non
era impossibile prevederlo. Qualsiasi governo che abbia sottoposto la
propria linea agli elettori si è sentito rispondere no, in qualsiasi
contesto e latitudine, da Londra a Bogotà a Budapest. L’errore di Renzi
non è stato soltanto personalizzare il referendum sulle «sue» riforme; è
stato proprio farlo, o meglio chiederlo. Non è inutile ricordare che il
referendum non era obbligatorio: la Costituzione non lo impone, lo
consente qualora sia mancata la maggioranza dei due terzi e ne facciano
domanda un quinto dei membri di una Camera, 500 mila elettori o cinque
assemblee regionali. Renzi non ha atteso che fossero le opposizioni a
sollecitare il responso popolare; l’ha sollecitato lui stesso, per
sanare il vizio d’origine, il peccato originale di non aver mai vinto
un’elezione politica. Ma un conto è difendere il proprio lavoro da forze
contrapposte che ne chiedono la cancellazione; un altro conto è
chiamare un plebiscito su se stessi.
Il presidente del Consiglio
si è mosso come se il Paese fosse ancora quello del 41% alle Europee. Ha
sopravvalutato il proprio consenso e ha sottovalutato il disagio
sociale. Gli va riconosciuto il merito di aver tentato di restituire
agli italiani fiducia nel loro Paese e nel futuro. Ma per tre anni ha
ripetuto un solo discorso: l’Italia che torna a fare l’Italia, l’Italia
che può fare meglio della Germania, l’Italia che diventa locomotiva
d’Europa. Ha recitato un mantra che avrebbe dovuto essere supportato da
una robusta ripresa economica; che non c’è. Renzi può rivendicare di
aver riavviato la crescita, di aver trovato un Paese con il segno meno e
di lasciarlo con il segno più. Ma all’evidenza non è sufficiente; o
almeno questo è stato il responso della netta maggioranza degli
italiani.
Gli va dato atto anche di aver riconosciuto subito la
sconfitta. I discorsi di accettazione gli vengono bene: era già successo
anche nel dicembre 2012, quando Bersani lo sconfisse alle primarie. La
prospettiva del passo indietro tattico è superata dai fatti. Più
realistica una traversata del deserto, che non sarà lunghissima — alla
scadenza naturale della legislatura manca poco più di un anno — ma è
certo irta di pericoli. Renzi può ancora cercare una rivincita. Ma dovrà
mettersi in gioco almeno due volte. Prima nelle nuove, inevitabili
primarie del Pd, che non saranno scontate come potevano apparire ancora
poco tempo fa. E poi in elezioni politiche che non saranno risolutive
come vagheggiava: «Voglio un sistema elettorale in cui la sera del voto
si capisca chi ha vinto e chi ha perso», amava ripetere. Ma con il
proporzionale vincono sempre quasi tutti, e quasi nessuno perde mai per
davvero. Renzi ha ancora la forza di impedire un ritorno al passato? La
collaborazione con Berlusconi è una carta di riserva che non è mai
uscita davvero dal mazzo, o rappresenta una resa, da far gestire a
qualcun altro?
Ci saranno giorni per discuterne. Chi sogna un
Renzi addomesticato, riflessivo, quasi mansueto, non conosce il
personaggio. Può cambiare strategia; non natura. Può ancora avere una
chance; ma una fase si è chiusa definitivamente. Con una sconfitta. Non
soltanto non è riuscito a prosciugare Grillo o a prendere i voti di
Berlusconi; l’alta partecipazione al voto, che nelle previsioni avrebbe
dovuto rafforzare il governo, segna anche un rigetto personale nei
confronti del premier. Nella campagna referendaria Renzi ha tentato di
tornare il rottamatore della casta; ma dopo tre anni di Palazzo Chigi
non è risultato credibile.
Una cosa è certa: Grillo ha ragione di
esultare; Berlusconi può rallegrarsi; ma la soddisfazione della sinistra
Pd rischia di avere vista corta e breve durata. Gli oppositori di Renzi
non hanno un vero leader, né un candidato pronto a sfidarlo. Sono uniti
dal rancore personale verso l’usurpatore, e da poco altro. Alla fine
hanno fatto miglior figura i Letta e i Prodi, che si sono espressi per
il sì senza entusiasmo, rispetto ai Bersani e ai D’Alema, che si sono
battuti per un no destinato a far cadere un governo di centrosinistra,
in una fase in cui un vento di destra soffia su tutti i Paesi del mondo.