Corriere 5.12.16
Il castigo (senza il delitto ). E Anna salvò Dostoevskij
di Pietro Citati
I debiti e gli impegni di lavoro; l’epilessia, la depressione e l’amore
Tra il 1866 e il 1867 lo scrittore vive una stagione fondamentale
Ne
ll’autunno del 1866 Fëdor Dostoevskij aveva un impegno con l’editore
Stellovskij. Entro il dicembre doveva consegnare un nuovo romanzo: se
non l’avesse consegnato, avrebbe perduto i diritti sulle sue opere, che
diventavano proprietà dell’editore. Volle scorciare i tempi della
stesura, e si rivolse a una stenografa, Anna Grigorievna Snitkina, che
aveva appena compiuto vent’anni. Il padre aveva infuso nella figlia uno
straordinario amore per Dostoevskij: Anna aveva divorato, piangendo e
appassionandosi, le Memorie dalla casa dei morti e Umiliati e offesi .
Era grave, seria, tenace, capace di consacrarsi completamente alla
persona amata: possedeva uno straordinario dono di osservazione; e
nessuna civetteria. Scriveva tutto ciò che le accadeva nei suoi
minuziosissimi diari, che ci hanno conservato con precisione la storia
della sua vita con Dostoevskij.
Quando si svegliò, la mattina del 4
ottobre 1866, Anna era felice: l’idea di aiutare lo scrittore che amava
la riempiva di gioia; e raccontò tutto alla madre, con una emozione che
le impedì di dormire. Alle 11.30 entrò nella casa di Dostoevskij: era
grande, composta da una quantità di piccoli appartamenti, e le fece
pensare a quella di Raskolnikov, in Delitto e castigo . L’appartamento
di Dostoevskij le fece un’impressione penosa: lui le sembrò vecchio; ma
appena cominciò a parlare, le sembrò più giovane, come se non avesse più
di trentacinque anni. Un occhio di lui era bruno: l’altro era così
dilatato che la pupilla era invisibile; questa asimmetria dello sguardo
gli dava un’espressione enigmatica. Camminava avanti e indietro per la
stanza: fumava una sigaretta dopo l’altra, che spegneva in una scatola
di sardine vuota. Aveva l’aria stanca e malata.
Dostoevskij fu
molto sincero: le confidò subito che soffriva di epilessia, e che poco
prima aveva avuto un attacco. Ora domandava ad Anna il suo nome: ora
riprendeva a camminare nella stanza, come se avesse dimenticato la sua
presenza. Le disse che, in quel momento, dopo la crisi, gli era
assolutamente impossibile dettare il nuovo romanzo; e le propose di
tornare la sera, alle venti. La sera le chiese di mettersi al suo tavolo
di lavoro, dove sarebbe stata più comoda. Anna fu assalita da un
orgoglio immenso: sedere al tavolo sul quale era stato scritto Delitto e
castigo , le pareva inaudito. Non sorrise nemmeno una volta. Questa
gravità incantò Dostoevskij, che fu di nuovo indotto a parlare di sé. Le
raccontò l’episodio dominante della sua vita: la condanna a morte,
quando pensava che gli restassero solo cinque minuti di vita, che per
lui rappresentavano un’eternità. «Come desideravo vivere, mio Dio — le
disse —. Come la vita mi sembrava cara! Quanto bene avrei potuto fare!».
Anna comprese la ragione della sua franchezza: quell’uomo era solo,
assolutamente solo, rifiutato ed escluso da tutti. Dostoevskij dettò per
un’ora: era inquieto, saltava da un argomento all’altro, dimenticava il
nome di lei, e poi lo dimenticava un’altra volta.
Il lavoro
continuò. Ogni giorno Anna arrivava alle dodici, e ripartiva alle
sedici. Dostoevskij la chiamava: «mia cara», «mia colomba», «mia buona
Anna Grigorievna»; le mostrò la fotografia della prima moglie morta, che
sembrava quella di un cadavere; e Anna discorreva liberamente con lui,
come se fosse stato suo zio, o un vecchio amico. Gli chiese: «Perché mi
raccontate soltanto sventure? Raccontatemi una cosa felice». Lui
rispose: «La felicità non l’ho mai conosciuta! Ma l’aspetto!». Le
dettava Il giocatore : condivideva la passione del protagonista; e le
disse che ci voleva una grande forza di carattere, per vincere in sé
l’impulso del gioco.
L’otto novembre 1866 fu il giorno più
memorabile della vita di Anna. Quando Dostoevskij sentì la sua voce, le
andò incontro nell’anticamera. Era molto commosso. Sembrava più giovane.
Anna gli chiese: «Vi è accaduto qualcosa di piacevole?». «Sì — rispose
lui —. Questa notte ho fatto un sogno meraviglioso. I sogni significano
molto per me. Vedete Anna Grigorievna, questa cassetta di palissandro:
ci metto i miei manoscritti, e i ricordi che mi sono cari. Ora, ecco
che, in sogno, ho veduto tra le carte della cassetta un oggetto
brillante che scintillava come una stella, e ora appariva ora
scompariva. Scoprii un brillante piccolo, luminosissimo». Raccontò ad
Anna un romanzo, di cui era protagonista un pittore: «Nel momento
decisivo della sua esistenza — continuò Dostoevskij — incontrò una
ragazza della vostra età, che chiamerò Anna, intelligente, buona, piena
di tatto». Continuò con la voce tremante: «Supponiamo che quel pittore
sia io, che vi rivelo il mio amore, e vi domando di essere mia moglie.
Dite, cosa mi rispondereste?». Anna rispose, con una decisione
improvvisa: «Vi risponderei che vi amo, che vi amerò per tutta la vita».
Dostoevskij rispose: «Anna, so cosa è diventato il mio piccolo
brillante». E aggiunse: «Tu sei tutto il mio avvenire — fede, speranza,
felicità, beatitudine». Per Dostoevskij fu un rischio: un grandissimo
rischio; ma egli viveva soltanto di rischi.
Nei mesi successivi,
Dostoevskij fu felice: non c’erano più tracce del suo umore cupo; ed
ebbe pochissimi attacchi di epilessia. Un giorno per la strada, un
organetto attaccò un’aria famosissima del Rigoletto , «La donna è
mobile»: Dostoevskij smise di dettare e si mise a cantare, sostituendo
le parole italiane con il nome di Anna; aveva una piacevole voce di
tenore, un po’ soffocata. Tre mesi dopo, Anna Grigorievna e Dostoevskij
si sposarono: lui lo scrisse ad Apollinarija Suslova, la sua amante di
anni prima, come se nemmeno in quel momento potesse liberarsi dal suo
tremendo legame: «La differenza di età è spaventosa (venti,
quarantaquattro), ma sono sempre più convinto che lei sarà felice. Ha
cuore e sa amare».
Presto Dostoevskij e Anna Grigorievna partirono
per la Germania: prima Berlino, dove giunsero il 18 aprile 1867, e due
giorni dopo Dresda, dove si fermarono due anni. Dostoevskij pensava di
sconfiggere sia i creditori sia la sua epilessia. Visitarono la
galleria, ammirando specialmente la Madonna Sistina di Raffaello,
davanti alla quale Dostoevskij, commosso restava incantato per ore: egli
comprò per la moglie un cappello di paglia guarnito di rose, con un
velluto nero, che cadeva sulle spalle e allora veniva chiamato
«seguitemi». Nel parco ascoltarono l’orchestra: Dostoevskij amava
Beethoven, Mendelssohn, Rossini, soprattutto l’ouverture del Don
Giovanni di Mozart, ma non sopportava Wagner. A volte cantava insieme ai
cantanti, dividendo le parole con la moglie: «Fed’ka, mio caro
perdonami», e lui rispondeva: «No, no, no, per nulla al mondo». Quando
passavano davanti alle vetrine illuminate dei negozi, Dostoevskij
osservava i gioielli che, se avesse potuto, avrebbe comprato per Anna.
Ogni tanto usciva dall’albergo per fare delle commissioni, e tornava
carico di pacchetti di formaggi e di candele.
Scriveva di notte:
non andava mai a letto prima delle tre del mattino: allora svegliava la
moglie; c’erano lunghe conversazioni, parole tenere, risate, baci;
«Questa mezz’ora o ora — scriveva lei — è il momento più ispirato e
felice della giornata». Quando usciva dall’albergo, dopo le quindici,
Dostoevskij andava a sedersi in un caffè, dove leggeva giornali russi.
Leggeva tre giornali russi ogni giorno: fino all’ultima riga, frugando
fra le notizie politiche, la cronaca nera e i resoconti giudiziari. Per
tutta la vita egli adorò i giornali: adorava è a dir poco perché erano,
per lui, il mezzo privilegiato attraverso il quale conoscere la vita,
che altrimenti restava inattingibile.
Poi scesero verso il sud.
Sulla strada che portava a Ginevra si fermarono a Basilea, per visitare
il museo. In primo luogo c’era un quadro di Holbein: con il Cristo,
staccato dalla croce, che aveva appena sofferto una morte terribile: il
corpo era scheletrico, le ossa sporgenti, le mani e i piedi feriti e
gonfi: il viso atrocemente sfigurato dai colpi, tumefatto, con tremendi
lividi sanguinanti e gonfi: gli occhi non vedevano e non esprimevano
nulla; il bianco dell’occhio, aperto e scoperto, brillava di un riflesso
vitreo e cadaverico. Dostoevskij rimase a lungo davanti al quadro, il
suo viso aveva la stessa espressione spaventosa che la moglie aveva già
osservato in lui prima delle crisi di epilessia.
Dostoevskij disse
alla moglie: «Un simile quadro può far perdere la fede». In quel
momento egli conobbe una tentazione: la più grande e angosciosa della
sua vita. Forse Cristo non era risorto dal sepolcro: «Se Cristo non è
resuscitato», aveva detto San Paolo, «allora è vana anche la nostra
predicazione, è vana pure la nostra fede». Se Cristo era soltanto quel
cadavere livido, tutto quello che egli aveva sperato e sognato era
inutile. La storia del mondo, e la sua stessa vita e i suoi libri, erano
un fallimento. C’era solo la natura. Ma se Cristo non era risorto, la
natura era una grande bestia: un enorme scorpione, oppure un grande
ragno, o una tarantola ripugnante. O, peggio ancora, la natura era una
macchina di nuova costruzione, sorda e insensibile, che dominava la
storia, e «aveva afferrato, maciullato e inghiottito un Essere sublime e
inestimabile».
Quando Dostoevskij fu a Ginevra, le crisi di
epilessia si moltiplicarono. Temeva la noia, perché viveva in un
isolamento completo, come su «un’isola disabitata», disse a un amico.
Scriveva L’idiota : l’idea lo attrasse moltissimo, perché il principe
Miškin, che soffriva di mal caduco, avrebbe dovuto essere l’uomo
«assolutamente buono»; ma l’esecuzione del libro lo deluse. Le crisi
ripresero, crisi come a Pietroburgo. Di solito lo aggredivano nel sonno,
verso il mattino, quando egli era più indifeso, o subito dopo che era
andato a letto. Il viso si sconvolgeva: i denti stridevano, gli occhi
guardavano storti: convulsione e spasmi correvano per tutto il corpo; e
poi c’era il grido — il grido spaventoso, subumano, che a Dostoevskij
sembrava giungere da qualcun altro acquattato dentro di lui. Quando la
crisi era finita, per quattro, cinque, otto giorni aveva una dolorosa
oppressione al petto, la testa confusa e nebbiosa, la memoria
indebolita: emicranie, eccitazione nervosa, tristezza ipocondriaca;
mentre una sfumatura color rosso-sangue, avvolgeva le cose, come se
fosse già giunta l’Apocalisse. Provava un acutissimo senso di colpa:
temeva di diventare pazzo; temeva di morire e supplicava la moglie di
non lasciarlo solo, sperando che la presenza di lei allontanasse la
morte.
Spesso Dostoevskij esaltava l’inizio delle crisi:
all’improvviso il cervello si accendeva e tutte le forze vitali si
tendevano in uno slancio straordinario. In quei brevi istanti, lo spazio
di un lampo, le sensazioni vitali e la coscienza di sé decuplicavano.
Una luce illuminava l’intelligenza e il cuore: l’euforia lo avvolgeva:
le sensazioni erano di una tale intensità e di una tale dolcezza, che
avrebbe dato la vita intera per conservarle; tutte le emozioni si
risolvevano in una calma suprema piena di gioia, di speranza e di
armonia, che racchiudeva le cause finali. Forse era la bellezza suprema:
insospettabile, inaudita, l’ultima sintesi della vita.
Con tutte
le forze della propria immaginazione filosofica, Dostoevskij trasformò
quell’istante impercettibile di luce nel momento supremo dei suoi libri:
un mito doppio, tenebroso e luminoso, come i suoi miti più profondi; un
attimo di rivelazione metafisica e mistica, così alta e inattingibile,
che nessun’altra forza poteva raggiungere. Quale felicità ricca e dolce,
quale gioia e speranza, quale luce straordinaria gli illuminava lo
spirito: un accordo col mondo, un’estatica fusione con la sintesi della
vita. Era una condizione superiore a qualsiasi amore: per pochi istanti,
balzava oltre il tempo, che lo aveva sempre schiacciato; e cominciava
l’«armonia eterna». Poteva pensare che la storia cessasse: che la fine
dell’umanità venisse raggiunta; che gli uomini vivessero in terra senza
generare, simili agli angeli di Dio nel cielo. Poi nasceva una
depressione tremenda: il mondo era soltanto tenebra: le sue labbra erano
blu, il viso scarlatto; era ossessionato dalla paura della morte, e
posseduto da un fiele che lo costringeva a calunniare qualsiasi cosa. Si
chiedeva se fosse possibile accettare questa illuminazione suprema, a
costo di diventare pazzo.