Corriere 14.12.16
Dopo il Referendum
La strada per uscire dalla palude
di Valerio Onida
Caro
direttore, all’indomani del referendum, mentre i partiti si mobilitano
in vista di elezioni più o meno prossime o si leccano le ferite, chi da
cittadino ha partecipato al dibattito avversando, per ragioni di merito e
di metodo, la riforma proposta al voto, ha, credo, il diritto e il
dovere di invocare un «cambio di passo».
In primo luogo, si può
prendere atto con soddisfazione — dopo due referendum dall’esito analogo
(2006 e 2016), e questa volta con una partecipazione molto elevata —
che si chiude la lunga stagione dei tentativi di dar vita ad una «grande
riforma» della Costituzione, avanzati da varie parti sul presupposto
(sbagliato) che la carta del 1948 fosse «vecchia» e perciò superata dai
tempi, improntata a troppi poteri di veto e a pochi poteri di decisione,
foriera di instabilità politica. La Costituzione è e resta segno di
unità, sulla cui salda base può e deve svilupparsi la dialettica
democratica per affrontare i veri problemi del paese. Non è tempo di
costituenti, che richiederebbero peraltro un clima di concordia oggi ben
lontano dal manifestarsi: il che naturalmente non significa che
specifiche e puntuali modifiche della Carta non possano essere
perseguite, sulla base di un largo consenso.
È tempo di politica,
da costruire con pazienza e con coraggio, in un mondo che pone sfide
epocali: dalle ineguaglianze crescenti all’interno della società, ai
grandi movimenti migratori, alle minacce del fanatismo terrorista, alle
crescenti difficoltà di governare un’economia sempre più tecnologica e
condizionata da attori inafferrabili e irresponsabili come i «mercati
finanziari». Gli strumenti fondamentali a disposizione dei cittadini per
«concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»
sono i partiti (art. 49 della Costituzione). Ma se questi si riducono a
gruppi di potere o a comitati elettorali al servizio di questo o di
quel candidato a cariche pubbliche, il sistema non può funzionare bene.
Oggi è forse questo il punto più dolente del nostro sistema.
Sul
«mercato» elettorale il consenso viene perseguito per lo più cercando di
raccogliere e assecondare umori, rabbie, desideri di rassicurazione che
affiorano nella società, anziché cercare di costruire un consenso
orientato da idee forti sui fini della politica. In una intervista a
Pandora Giuseppe de Rita ha rievocato una discussione degli anni
Settanta fra Moro e Andreotti: il primo affermava che la politica
dovesse «orientare i processi, accompagnarli verso un fine, dare loro un
orientamento, una direzione», dovesse cioè «guidare la società». Il
secondo rispondeva che «compito della politica non era quello di
orientare la società ma solo di rassomigliarle, perché solo
rassomigliandole si prendono i voti». Oggi questa seconda visione sembra
prevalere. Ma non è intorno ad essa che si possono motivare le giovani
generazioni, per superare il diffuso sentimento di distacco se non di
disprezzo per la politica.
È un paradosso che nel recente
dibattito referendario, in cui pure tanto spazio hanno trovato dalla
parte del No le posizioni «populiste», venissero da parte dei massimi
artefici della riforma sollecitazioni della stessa matrice, evidenti già
nel titolo volutamente allusivo attribuito alla legge costituzionale, a
votarla «contro la casta», in nome del «taglio delle poltrone» o dei
«costi della politica», o del fastidio per le procedure deliberative. Il
rifiuto della riforma ha espresso anche un no a questi atteggiamenti,
come a una concezione «muscolare» del confronto politico, all’idea che
la competizione politica sia esclusivamente scontro, in cui l’importante
è che «uno vinca», anche se non rappresenta la maggioranza del Paese.
In
nome della Costituzione, segno di unità, può svilupparsi invece la
ricerca paziente, dal basso, di una politica meno arrogante, meno sicura
di sé, più «umile», anche più orientata alla ricerca dell’incontro al
di là dello scontro, della convergenza possibile al di là della
contrapposizione; più capace, anche per questo, di parlare il linguaggio
della verità, magari scomoda, dell’unità e della solidarietà. Una
politica che guardi avanti e in alto, pur mantenendo i piedi bene per
terra e individuando i passi che si possono fare ogni giorno. Di una
politica così ha bisogno l’Italia, e ha bisogno l’Europa, la cui unità,
come intuita e perseguita dai fondatori, non cessa di rappresentare un
obiettivo da costruire, senza cedimenti alle risorgenti tentazioni
nazionaliste o particolaristiche. Chi sa che le tante iniziative
giovanili e di base, che in questa campagna referendaria hanno trovato
espressione e luogo per svilupparsi e sono state utili strumenti di
informazione e di riflessione, non possano costituire l’humus capace di
alimentare nuovi modi di costruire politica. Questa sarebbe la strada
vera per uscire dalla «palude» in cui si dice che siamo invischiati.il
nuovo ministro all’istruzione...