Corriere 11.12.16
Bruno Pontecorvo. Qualche ricordo moscovita
risponde Sergio Romano
Sto
leggendo la biografia su Bruno Pontecorvo dello studioso britannico
Frank Close ( Vita divisa , Einaudi). Close è convinto che Pontecorvo,
un comunista italiano fuggito in Urss con la famiglia in piena Guerra
fredda, sia stato un autentico genio della fisica delle particelle,
capace di piantare, tra le altre cose, il seme del Modello standard, e
degno non di uno, ma di vari premi Nobel. Insomma, una vera leggenda al
pari di Majorana. Che cosa pensa della questione Pontecorvo? Essendo lei
stato in Unione Sovietica, da ambasciatore per di più, in un’epoca in
cui viveva ancora il fisico pisano, che idea si è fatto della vicenda
del grande scienziato — a maggior ragione se l’ha incontrato — e della
sua fama di spia, che Close sembra sostenere?
Fabrizio Amadori
Caro Amadori,
Quando
ho conosciuto Bruno Maksimovic (insieme alla cittadinanza sovietica
aveva adottato l’uso russo del patronimico), Miriam Mafai non aveva
ancora scritto la biografia dello scienziato pisano. Ma la storia della
sua scomparsa e riapparizione in Unione Sovietica nel 1950 era già stata
largamente descritta e commentata da tutta le stampa internazionale.
Sappiamo che la fuga era stata organizzata con l’aiuto di un cugino
comunista, Emilio Sereni, e che le sue motivazioni erano certamente
ideali. Credeva che la pace sarebbe stata meglio garantita se l’arma
nucleare non fosse rimasta esclusivamente nelle mani di una sola grande
potenza. I sovietici ebbero altre fonti a cui attingere, ma le doti
scientifiche e professionali che Pontecorvo portava con sé quando
approdò in Unione Sovietica, furono certamente importanti. È molto
probabile che l’indignazione di una buona parte della comunità
scientifica internazionale lo abbia privato del premio Nobel. Erano anni
in cui gli Stati Uniti condannavano i coniugi Rosenberg alla sedia
elettrica e la Gran Bretagna, in un caso analogo, toglieva a Klaus Fuchs
(uno scienziato di origine tedesca) la cittadinanza britannica.
A
Mosca, negli anni Ottanta, Pontecorvo accettava volentieri gli inviti
dell’ambasciata d’Italia e volle ricambiare organizzando una gita a
Dubna, la piccola città sulle rive del Volga, a 125 chilometri da Mosca,
che era la sede storica dell’Istituto nucleare. Naturalmente vedemmo
soltanto quella parte degli impianti che avevano ormai un valore
esclusivamente storico; ma erano probabilmente quelli che Pontecorvo
aveva usato per i suoi primi e fondamentali esperimenti con i neutrini.
Nelle nostre conversazioni ci attenemmo entrambi alla stessa regola.
Parlavamo di tutto fuorché di politica e della sua personale vicenda.
Non altrettanto discreto, invece, fu Pietro Bianucci, quando Pontecorvo,
dopo un primo ritorno in Italia nel 1978, visitò Torino qualche anno
dopo. Il corrispondente scientifico de La Stampa ebbe il coraggio di
chiedergli bruscamente perché avesse deciso di fuggire in Unione
Sovietica e lo scienziato rispose: «Perché ero stupido». Intendeva dire,
probabilmente: «Perché ero troppo idealista».
Di Bruno
Pontecorvo, che negli ultimi anni era afflitto dal morbo di Parkinson,
ho un altro ricordo. Lo avevo invitato in ambasciata per rivedere
Edoardo Amaldi, un suo vecchio compagno di studi e ricerche quando
entrambi lavoravano con Enrico Fermi in via Panisperna, allora di
passaggio a Mosca per un convegno. Il tremito, mentre aspettavamo
Amaldi, era diventato particolarmente forte. «Vede? Mi disse, è la
emozione. Ho calcolato l’energia che consumo durante queste crisi.
Dovrei già essere morto».