mercoledì 14 dicembre 2016

Avvenire 11.12.16
Intervista a Meir Hatina
Martirio globale, il piano dell’islamismo
di Chiara Zappa

Il termine «shahid» significa testimone ma nella visione musulmana esalta anche la morte eroica sul campo. L’israeliano Meir Hatina spiega perchè è alla base dell’odierna strategia fondamentalista.
La purificazione da tutti i peccati con la prima goccia di sangue sparso, una corona d'onore adorna di gioielli, il matrimonio con settantadue vergini e un seggio in paradiso vicino ai profeti e ai virtuosi. Sono inestimabili, secondo la teologia musulmana, le ricompense per chi sceglie il martirio in nome della causa islamica. Terroristi kamikaze glorificati dunque nell'Aldilà? La vulgata è in realtà ingannevole e semplificatoria. Lo shahid, che etimologicamente significa 'testimone', è in effetti venerato dalla tradizione islamica, che esalta l'ethos del martirio sul campo di battaglia. Questo, tuttavia, deve verificarsi a certe rigorose condizioni, prima di tutto che la morte sia il risultato dell'azione e non ricercata deliberatamente. Altrimenti, il gesto equivale al suicidio, punito con i tormenti dell'inferno. In quest'ottica, gli adolescenti imbottiti di esplosivo per contrastare l'avanzata dell'esercito a Mosul, così come i giovani che si fanno saltare in aria nel cuore dell'Occidente al grido di «Allahu Akbar», sarebbero tutti fuori dal vero islam. Eppure, non è nemmeno così semplice, come spiega Meir Hatina nel suo dettagliato saggio Il martirio nell'islam moderno. Devozione, politica e potere, pubblicato da O barra O (pp. 400, euro 20). La regola tradizionale – chiarisce il professor Hatina, a capo del dipartimento di Studi islamici e mediorientali alla Hebrew University di Gerusalemme – fu conservata fino al Novecento. E se per Hasan al-Banna, fondatore della Fratellanza musulmana, l'autosacrificio aveva un valore più sociale che militare, i gruppi che dagli anni 60 s'ispirarono a predicatori radicali sunniti come Sayyid Qutb o 'Abd al-Salam Faraj lo collegarono alla lotta contro i regimi 'apostati'. Finché, nei primi anni 80, nel Libano dell'Hezbollah sciita comparvero per la prima volta gli attacchi suicidi, poi penetrati in ambito sunnita. «Il nuovo fenomeno innescò dibattiti e conflitti nel mondo islamico –, racconta Hatina –. Tuttavia, in generale gli atti kamikaze perpetrati nei conflitti etniconazionali, come in Libano, Palestina o Cecenia, furono legittimati in quanto avevano come bersaglio le forze 'infedeli' e di occupazione, i cui civili erano colpevoli di offrire supporto al nemico».
Che cosa è cambiato con l'ascesa di al-Qaida e poi di Daesh?
«Nei primi anni 90 al-Qaida ha inaugurato il concetto di jihad globale, trasformando gli attacchi suicidi in un fenomeno transnazionale, sistematico e devastante, con obiettivo l'Occidente ma anche i suoi alleati nell'ambito arabo-musulmano. I suoi portavoce hanno ridefinito gli standard morali per la legittimazione del jihad e del martirio: la morte di un combattente è per loro la testimonianza più alta della purezza della fede, e non c'è distinzione tra soldati nemici, prigionieri di guerra o vittime civili».
E persino civili musulmani…
«Esatto. Alcune fazioni del jihad globale, tra cui il Daesh, hanno preso di mira anche i correligionari, visti come infedeli a causa del loro atteggiamento passivo nei confronti dei regimi locali 'eretici', come in Iraq, Siria, Egitto o Arabia Saudita. E questo sebbene nella giurisprudenza islamica versare il sangue di un musulmano sia considerato 'hurma', ossia assolutamente vietato. In più, questi gruppi estremisti avversano 'Ulema di Stato' e movimenti come la Fratellanza musulmana: motivi ulteriori per la loro estromissione dai circoli maggioritari».
Quindi possiamo affermare che i predicatori di morte siano marginali nell'islam contemporaneo?
«Sì, nonostante la vasta attenzione dei media e dei ricercatori, il fenomeno del jihad globale resta ai margini del consenso islamico, per il suo orientamento dogmatico e puritano e la sua violenza. Ma se l'islam maggioritario si oppone al culto della morte dell'Isis, continua tuttavia a legittimare il martirio contro gli 'infedeli' che occupano terre musulmane o ne sopprimono gli abitanti».
Si fa ancora differenza tra vittime civili musulmane e 'infedeli'?
«Sicuramente l'attacco sistematico a civili musulmani ad opera del jihad globale più recente ha prodotto fatwa di condanna più esplicite sul tema. In generale, tuttavia, l'enfasi è posta sull'etica islamica della guerra, che vieta di recare danno a non combattenti: l'approccio prevalente è che bambini, donne o infermi non debbano essere danneggiati se non in circostanze particolari, ad esempio se non possono essere distinti dai soldati, o se fungono da scudi umani ».
Da quando Khomeini chiamò al jihad chi avesse più di dodici anni, fino ad oggi, assistiamo a casi di martiri-bambini, per esempio nella Nigeria di Boko Haram. Che cosa dice la giurisprudenza islamica sui diritti dei minori?
«Secondo la legge islamica il guerriero, o mujahid, deve essere maturo di mente e anima. Fino all'era moderna, i saggi avevano anche stabilito che i figli dovessero avere l'approvazione dei genitori per andare a combattere. In effetti, i movimenti islamici che hanno sfruttato minorenni per compiere attacchi suicidi, come Hamas in Palestina, si sono scontrati con la pubblica protesta e sono stati costretti a fare marcia indietro. Al contrario, il jihad globale – che include il Daesh e Boko Haram – continua, quando lo trova 'utile', a fare uso di bambini-kamikaze». Il racconto delle gesta dei martiri è fondamentale nella creazione del mito dell'eroico shahid: i mass media dovrebbero dare meno spazio alla propaganda jihadista? «Sono i nuovi media e i social network lo strumento fondamentale con cui i movimenti islamisti elaborano il mito dello shahid, e sono accessibili anche ai giovani musulmani in Occidente. Le testate occidentali possono ignorare la propaganda jihadista o diminuirne la copertura, ma il loro ruolo è secondario. Per quanto riguarda i grandi media arabi, in genere si identificano con lo Stato e ne sono finanziati, dunque dovrebbero condannare la violenza. In realtà, in caso di conflitti in 'terre musulmane occupate', spesso forniscono sostegno morale e, a volte, incoraggiamento». In Occidente rimaniamo spiazzati di fronte a chi arriva ad auto-immolarsi: come possiamo combattere questa forma di violenza? «In primo luogo attraverso l'istruzione e con interventi nelle comunità, concentrandosi sui giovani musulmani in Occidente, che sono bersaglio naturale per il reclutamento da parte di gruppi radicali. Chi aderisce al jihad globale è spinto di solito dalla frustrazione causata da un'insufficiente integrazione nelle società europee: dobbiamo dunque lavorare su questo».