Avvenire 11.12.16
Intervista a Meir Hatina
Martirio globale, il piano dell’islamismo
di Chiara Zappa
Il
termine «shahid» significa testimone ma nella visione musulmana esalta
anche la morte eroica sul campo. L’israeliano Meir Hatina spiega perchè è
alla base dell’odierna strategia fondamentalista.
La
purificazione da tutti i peccati con la prima goccia di sangue sparso,
una corona d'onore adorna di gioielli, il matrimonio con settantadue
vergini e un seggio in paradiso vicino ai profeti e ai virtuosi. Sono
inestimabili, secondo la teologia musulmana, le ricompense per chi
sceglie il martirio in nome della causa islamica. Terroristi kamikaze
glorificati dunque nell'Aldilà? La vulgata è in realtà ingannevole e
semplificatoria. Lo shahid, che etimologicamente significa 'testimone', è
in effetti venerato dalla tradizione islamica, che esalta l'ethos del
martirio sul campo di battaglia. Questo, tuttavia, deve verificarsi a
certe rigorose condizioni, prima di tutto che la morte sia il risultato
dell'azione e non ricercata deliberatamente. Altrimenti, il gesto
equivale al suicidio, punito con i tormenti dell'inferno. In
quest'ottica, gli adolescenti imbottiti di esplosivo per contrastare
l'avanzata dell'esercito a Mosul, così come i giovani che si fanno
saltare in aria nel cuore dell'Occidente al grido di «Allahu Akbar»,
sarebbero tutti fuori dal vero islam. Eppure, non è nemmeno così
semplice, come spiega Meir Hatina nel suo dettagliato saggio Il martirio
nell'islam moderno. Devozione, politica e potere, pubblicato da O barra
O (pp. 400, euro 20). La regola tradizionale – chiarisce il professor
Hatina, a capo del dipartimento di Studi islamici e mediorientali alla
Hebrew University di Gerusalemme – fu conservata fino al Novecento. E se
per Hasan al-Banna, fondatore della Fratellanza musulmana,
l'autosacrificio aveva un valore più sociale che militare, i gruppi che
dagli anni 60 s'ispirarono a predicatori radicali sunniti come Sayyid
Qutb o 'Abd al-Salam Faraj lo collegarono alla lotta contro i regimi
'apostati'. Finché, nei primi anni 80, nel Libano dell'Hezbollah sciita
comparvero per la prima volta gli attacchi suicidi, poi penetrati in
ambito sunnita. «Il nuovo fenomeno innescò dibattiti e conflitti nel
mondo islamico –, racconta Hatina –. Tuttavia, in generale gli atti
kamikaze perpetrati nei conflitti etniconazionali, come in Libano,
Palestina o Cecenia, furono legittimati in quanto avevano come bersaglio
le forze 'infedeli' e di occupazione, i cui civili erano colpevoli di
offrire supporto al nemico».
Che cosa è cambiato con l'ascesa di al-Qaida e poi di Daesh?
«Nei
primi anni 90 al-Qaida ha inaugurato il concetto di jihad globale,
trasformando gli attacchi suicidi in un fenomeno transnazionale,
sistematico e devastante, con obiettivo l'Occidente ma anche i suoi
alleati nell'ambito arabo-musulmano. I suoi portavoce hanno ridefinito
gli standard morali per la legittimazione del jihad e del martirio: la
morte di un combattente è per loro la testimonianza più alta della
purezza della fede, e non c'è distinzione tra soldati nemici,
prigionieri di guerra o vittime civili».
E persino civili musulmani…
«Esatto.
Alcune fazioni del jihad globale, tra cui il Daesh, hanno preso di mira
anche i correligionari, visti come infedeli a causa del loro
atteggiamento passivo nei confronti dei regimi locali 'eretici', come in
Iraq, Siria, Egitto o Arabia Saudita. E questo sebbene nella
giurisprudenza islamica versare il sangue di un musulmano sia
considerato 'hurma', ossia assolutamente vietato. In più, questi gruppi
estremisti avversano 'Ulema di Stato' e movimenti come la Fratellanza
musulmana: motivi ulteriori per la loro estromissione dai circoli
maggioritari».
Quindi possiamo affermare che i predicatori di morte siano marginali nell'islam contemporaneo?
«Sì,
nonostante la vasta attenzione dei media e dei ricercatori, il fenomeno
del jihad globale resta ai margini del consenso islamico, per il suo
orientamento dogmatico e puritano e la sua violenza. Ma se l'islam
maggioritario si oppone al culto della morte dell'Isis, continua
tuttavia a legittimare il martirio contro gli 'infedeli' che occupano
terre musulmane o ne sopprimono gli abitanti».
Si fa ancora differenza tra vittime civili musulmane e 'infedeli'?
«Sicuramente
l'attacco sistematico a civili musulmani ad opera del jihad globale più
recente ha prodotto fatwa di condanna più esplicite sul tema. In
generale, tuttavia, l'enfasi è posta sull'etica islamica della guerra,
che vieta di recare danno a non combattenti: l'approccio prevalente è
che bambini, donne o infermi non debbano essere danneggiati se non in
circostanze particolari, ad esempio se non possono essere distinti dai
soldati, o se fungono da scudi umani ».
Da quando Khomeini chiamò
al jihad chi avesse più di dodici anni, fino ad oggi, assistiamo a casi
di martiri-bambini, per esempio nella Nigeria di Boko Haram. Che cosa
dice la giurisprudenza islamica sui diritti dei minori?
«Secondo
la legge islamica il guerriero, o mujahid, deve essere maturo di mente e
anima. Fino all'era moderna, i saggi avevano anche stabilito che i
figli dovessero avere l'approvazione dei genitori per andare a
combattere. In effetti, i movimenti islamici che hanno sfruttato
minorenni per compiere attacchi suicidi, come Hamas in Palestina, si
sono scontrati con la pubblica protesta e sono stati costretti a fare
marcia indietro. Al contrario, il jihad globale – che include il Daesh e
Boko Haram – continua, quando lo trova 'utile', a fare uso di
bambini-kamikaze». Il racconto delle gesta dei martiri è fondamentale
nella creazione del mito dell'eroico shahid: i mass media dovrebbero
dare meno spazio alla propaganda jihadista? «Sono i nuovi media e i
social network lo strumento fondamentale con cui i movimenti islamisti
elaborano il mito dello shahid, e sono accessibili anche ai giovani
musulmani in Occidente. Le testate occidentali possono ignorare la
propaganda jihadista o diminuirne la copertura, ma il loro ruolo è
secondario. Per quanto riguarda i grandi media arabi, in genere si
identificano con lo Stato e ne sono finanziati, dunque dovrebbero
condannare la violenza. In realtà, in caso di conflitti in 'terre
musulmane occupate', spesso forniscono sostegno morale e, a volte,
incoraggiamento». In Occidente rimaniamo spiazzati di fronte a chi
arriva ad auto-immolarsi: come possiamo combattere questa forma di
violenza? «In primo luogo attraverso l'istruzione e con interventi nelle
comunità, concentrandosi sui giovani musulmani in Occidente, che sono
bersaglio naturale per il reclutamento da parte di gruppi radicali. Chi
aderisce al jihad globale è spinto di solito dalla frustrazione causata
da un'insufficiente integrazione nelle società europee: dobbiamo dunque
lavorare su questo».