Repubblica Cult 20.11.16
Viaggio in Italia cercando la sinistra
La sottile linea rossa
“Abbiamo tutto: Quirinale, Palazzo Chigi, Camera, Senato. Il potere logora chi non ce l’ha, ma separa dal Paese chi ce l’ha”
di Ezio Mauro
SOTTO
LA MOLE I CINQUE STELLE HANNO VINTO SENZA AVERE UNA TRADIZIONE, MA
ANCHE SENZA INSEDIAMENTO POLITICO, SENZA ORGANIZZAZIONE, SENZA BASE
SOCIALE. PERCHÉ HANNO SAPUTO RACCOGLIERE LA RABBIA E LA FRUSTRAZIONE DI
CASSAINTEGRATI E PICCOLI IMPRENDITORI
CERCANDO LA
SINISTRA conviene salire sul tram numero 6 al capolinea di piazza
Hermada nell’Oltrepò torinese e poi proseguire col 3 da corso Tortona.
Sulla vettura c’è scritto “Vallette”, il nome della stazione d’arrivo
dopo nove chilometri di viaggio, ventiquattro fermate, un’ora di tempo
per attraversare la città: partendo dai piedi della collina con le case
più belle nascoste nel verde per arrivare al ghetto dormitorio di
periferia che qualcuno negli anni Sessanta ha cosparso di nomi dei
fiori, via dei Gladioli, via delle Primule, via delle Pervinche, attorno
a viale dei Mughetti e ai sedicimila vani costruiti per gli immigrati
del sud trasformati in operai.
I torinesi dicono che è una linea
che non arriva da nessuna parte e non porta in nessun posto. Ma bisogna
salire sul “3” con Marco Revelli, professore di scienza della politica e
in realtà speleologo sociale appassionato della natura profonda di
Torino per scoprire che tra i due capolinea si invertono i quozienti
elettorali del Pd e del M5S, con Piero Fassino che parte da piazza
Hermada con il 53 per cento dei voti contro il 47, mentre Chiara
Appendino arriva alle Vallette addirittura con il 74 per cento dei
consensi contro il 26 della sinistra. Inspiegabile? Mica tanto, se si
scopre che tra le due stazioni c’è una differenza nell’aspettativa di
vita di sette anni e dunque è come se a ogni chilometro percorso dal “3”
dalla precollina alla periferia si perdesse poco meno di un anno di
vita.
Eccola qua la Moriana di Calvino, dice Revelli, città con
una faccia di marmo e di alabastro e una di latta e di cartone. Ma il
punto è che nei marmi vive la sinistra, mentre sopravvive invece debole e
insignificante nel mondo costruito con materiali più fragili e senza
colori, rovesciando la sua storia e forse il suo destino. Sul computer
del professore c’è la mappa di questa separazione e mentre il mouse
passa sui seggi elettorali si vede il Pd afflosciarsi man mano che dal
centro dov’è in testa si va nelle “barriere”, come qui chiamano le
periferie ex operaie, oggi popolate da pensionati che dopo una vita in
fabbrica, grazie alla crisi, stringono in mano un pugno di mosche:
prepensionati che si sentono ancora attivi senza poterlo più essere, con
figli torinesi di seconda e terza generazione che capiscono il dialetto
ma non capiscono più la città. Suprema eresia in una Torino che pareva
disegnata in fabbrica con le sue linee rette e squadrate e poi montata
fuori con gli stessi strumenti operai delle officine, tanto da far dire a
Herman Melville che “sembrava costruita da un unico capomastro per un
unico cliente”.
Vado con Paolo Griseri a vedere la “ciambella”,
come lui la chiama, quegli atolli intermedi e quelle isole periferiche
che circondano il centro e che Giorgio Bocca arrivando da Milano
attraversava come barriere coralline disposte a protezione del cuore di
Torino. La sinistra non abita più qui, o ci abita in affitto. I Cinque
Stelle vincono quasi dovunque, più ci allontaniamo dal salotto torinese
più crescono. Quelle isole coralline si ribellano, tutte insieme,
tornano vulcaniche formando una specie di città circolare che pensa e
parla e borbotta diversamente dal nucleo centrale così sabaudo e insieme
straniero, pieno com’è oggi di turisti che riscoprono la sua antica
bellezza. Ma c’è qualcos’altro da capire, e come capita spesso la
lezione torinese rischia di valere per tutta l’Italia. Basta camminare
per piazza Foroni (ribattezzata piazza Cerignola dai pugliesi arrivati
in massa fin qui), dove si vendono taralli cerignolesi originali a tre
euro e cinquanta ogni mezzo chilo, per avere la percezione che la
separazione non è puramente geografica e non è nemmeno soltanto
economica, neppure esclusivamente sociale.
Gli studiosi dei flussi
e delle tendenze dicono che a Torino i grillini hanno vinto senza avere
una tradizione. E questo si sa, anche se la città era stata tre anni fa
la capitale dei “Forconi” (movimento effimero nato e bruciato per
autocombustione dopo aver bloccato per due giorni piazza Castello) e
anche se qui era andato in scena uno dei primi “Vaffa day”, con piazza
San Carlo piena zeppa ad ascoltare gli insulti lanciati a mezzo mondo
dal comico leader di fianco al “Caval d’Brons” impassibile. Ma hanno
vinto anche senza insediamento politico, senza organizzazione, senza
base sociale. Questo perché hanno saputo trasformarsi in “vela” per il
vento che soffiava, vento di rabbia e di frustrazione, un vento che si è
gonfiato proprio qui nelle barriere torinesi, mescolando cassaintegrati
cronici, professori incazzati, piccoli imprenditori dell’indotto Fiat
abbandonati dalla crisi, da Confindustria e dall’internazionalizzazione
dell’azienda. È il sentimento — anzi, il risentimento, potente e
nuovissimo — dell’esclusione.
Gli esclusi
QUEL TRAM CHE
TAGLIA E RICUCE LA CITTÀ disegna dunque un’inedita e sottile linea
rossa, tra la sinistra e gli “esclusi”. Non sono necessariamente poveri,
e neppure quantitativamente, tanto meno professionalmente, ma come dice
Ian Buruma hanno un’”auto- immagine” di impoverimento sociale, civile,
morale. Sono i tagliati fuori, quelli che scoprono che la democrazia
formale è intatta nelle sue espressioni ma rimpicciolita nella sua
sostanza, gli ascensori sociali si sono bloccati, il circuito della
rappresentanza si è rotto, loro hanno perso il collegamento.
Percepiscono i diritti democratici come un sistema di garanzie che vale
solo per i garantiti e a un certo punto si scoprono a coltivare un
sottile disincanto per la stessa democrazia, che sembra non incidere più
sulla materialità della loro esistenza, sulla concretezza delle loro
condizioni di vita.
Naturalmente la democrazia, se potesse
parlare, direbbe loro di rivolgersi alla politica, che è stata inventata
proprio per tradurre in forme concrete e pratiche i principi della
cornice democratica repubblicana. Ma per gli esclusi la politica è
lenta, senza vocabolario e lontana, soprattutto si mostra indifferente,
quasi insensibile alle domande che arrivano da un ceto medio
proletarizzato nelle speranze se non nel reddito, nelle aspettative
rovesciate in delusioni. È quel ceto che nel pendolo sociale si è
alleato negli anni Settanta alla sinistra per scrollarsi di dosso almeno
un po’ il morbido giogo democristiano profumato d’incenso, e che nei
primi Novanta ha creduto a Berlusconi che lo invitava a mettersi in
proprio, diventare soggetto politico autonomo, prendersi la politica.
Erano
due modi, opposti, di accettare la regola della politica e la sfida
delle istituzioni, addirittura di crederci. Oggi, al contrario, siamo
davanti al ribellismo del ceto medio che si sente depredato del
presente, altro che futuro, mentre si accorge di camminare all’ingiù
nella scala sociale e avverte che le classi sociali sono diventate
gabbie in cui si entra per nascita e solo molto faticosamente si esce
per istruzione e per merito. Gli spostati — che Donald Trump ha appena
battezzato forgotten men togliendoli dall’oscurità, segnalandoli al
mondo e facendone la sua base politica — si sentono messi di lato
rispetto al mainstream, a cui non credono più perché non li riguarda e
perciò diventa parziale e menzognero, li inganna. Lo spostamento è
decisivo, perché è proprio quel nuovo spazio grigio la terra di nessuno
in cui si percepisce la perdita di senso sociale e cresce la delusione,
la nuova solitudine repubblicana, la silenziosa secessione democratica.
Intendiamoci,
dice l’ex sindaco Piero Fassino che questa deriva l’ha vista arrivare
prima del ballottaggio, non è vero e non è possibile che la società di
oggi provochi un fenomeno così ampio e cosciente di esclusione; ma è
vero che genera questa sensazione, questa rappresentazione di singoli e
di gruppi che si sentono esclusi, ed è ciò che conta, soprattutto
politicamente. Aggiunge una spiegazione: poiché la linea rossa di
separazione divide chi si sente ancora rappresentato e chi invece vive
nella solitudine politica, senza rappresentanza, noi paghiamo qui la
crisi di tutti i corpi intermedi, sindacati, Confindustria,
Confcommercio e quant’altro. Pezzi di ceto, parti di professione, gruppi
di interesse, singoli individui fuoriescono e si sentono “spostati”
come dopo l’uragano, fuori da ogni tutela, da qualsiasi possibilità di
trovare un’espressione comune ai loro problemi personali. Vento che
soffia, cercando una vela.
Gli esclusi sono contro. Dunque possono
accettare rappresentanza solo da un partito che sia contro, talmente
contro da non essere nient’altro, da ridursi a questa sola dimensione
(oltre a quella — totalmente prepolitica — dell’onestà, che dovrebbe
essere una pre-condizione ovvia per tutti, mentre il Pd sembra non
accorgersi del numero enorme di inquisiti tra le sue file), rifiutando
ogni intesa e ogni accordo per paura di una contaminazione che inquini
la diversità ontologica del movimento, la sua estraneità, come di alieni
che vivono permanentemente in un altrove politico. Questo comporta un
assolutismo integrale, che porta a credere in una propria Verità con la
maiuscola, mentre in un parlamento democratico le verità sono tutte
minuscole perché relative, e si combinano con le verità altrui, cercando
la regola democratica della maggioranza nella combinazione dei
programmi e dei numeri, come vuole il compromesso democratico
liberamente accettato.
Movimento permanentemente separato, il
grillismo rappresenta la separazione degli esclusi quasi
antropologicamente, segnalando la sua diversità fino all’estraneità
dalla politica, dalle istituzioni. Fino a rifiutare la scelta di campo,
capitale in Occidente, tra destra e sinistra, nella tentazione del
partito- ovunque che sconta l’ambiguità pur di allungare e allargare
l’identità nel rancore. Non conta chi sei, come hai vissuto e ciò che
sai, l’importante è venire da fuori, rispetto al Palazzo, vivere fuori,
non cadere dentro, certificare l’altrove ben più che il merito o il
sapere. La differenza conta più dell’esperienza. L’alienità vince sulla
competenza, perché è sciolta dai riti del potere. L’alterità prevale
sulla conoscenza, perché non è castale né professionale, ma ha la cifra
permanente dell’eterno dilettante. Siamo vicini all’ignoranza esibita
come garanzia di innocenza.
Lenta e appesantita dalle
responsabilità del potere la sinistra è spiazzata. Ha creduto per un
secolo nella politica come pedagogia, non sa cosa fare quando la
da
arte sociale a esperimento virtuale, che ribalta i suoi esiti in
Parlamento ma li coltiva fuori, nello streaming, nei vertici chiusi
all’hotel Forum di Roma, nel direttorio. Ma la sinistra è spiazzata
prima di tutto da se stessa, per sua colpa. Nel voto ribelle di Torino,
c’è anche il rifiuto per una politica che si è fatta establishment
permanente e controlla il potere da troppi anni, quasi fosse una “classe
eterna”, come dicevano in Russia della nomenklatura sovietica. Come se
in mezzo al “castrum” centrale, tra i palazzi barocchi, fosse cresciuto
un Castello invisibile ma presente, un recinto del potere che ha per
lati la Fiat, la fondazione San Paolo, la Cassa di Risparmio, il
Politecnico.
Diciamo un giardino, ammette Sergio Chiamparino, ex
sindaco e governatore del Piemonte, con l’erba verde e gli alberi
frondosi per chi sta dentro, e la porta chiusa per chi si sente fuori.
«È evidente che in giro siamo percepiti come un tutt’uno con
l’establishment, e questo è forse inevitabile quando la sinistra
raggiunge il maggior tasso di potere della storia, a livello nazionale e
locale. Provi a guardarsi intorno: abbiamo tutto, il presidente della
Repubblica, del Consiglio, del Senato e della Camera, città e regioni.
D’accordo che il potere logora chi non ce l’ha, ma rischia di separare
chi ce l’ha, e di rinchiuderlo. Col risultato che noi peschiamo dentro
il giardino, i Cinque Stelle fuori, nel mare più vasto e più mosso.
Bisogna ricordarci che siamo venuti al mondo per dischiudere le
opportunità a chi le merita, ma soprattutto per rappresentare i più
deboli. Si possono tenere insieme le due cose, altrimenti ci si rintana,
o si cambia pelle. Soprattutto, non si governa una società sfrangiata
come la nostra».
L’élite
IL BUONSENSO RIFORMISTA DI
CHIAMPARINO lo chiama establishment, classe dirigente. Ma gli esclusi la
chiamano élite, casta, circolo chiuso, dando corpo alla teoria dei
“giri” di Gustavo Zagrebelsky, strutture impermeabili di comando e di
sottopotere che procedono per cooptazione e per esclusione,
autogarantendosi e perpetuandosi, immobili. Su quell’élite — nazionale,
europea — si scaricano oggi tutte le colpe, i rancori, le frustrazioni
insieme con le delusioni e la condanna per l’inefficienza delle
istituzioni, per la vacuità della politica. Per la lontananza e la
grande dimenticanza.
Ma la sinistra, dopo la sua lunga marcia, può andare al potere in Occidente senza farsi establishment? Un bel problema.
La borghesia
Magari
ci fosse un vero establishment in questo Paese, verrebbe subito da
rispondere, una classe dirigente degna di questo nome, perché in grado
di coniugare gli interessi particolari legittimi che innervano la
società con l’interesse generale: invece di questi network di piccolo
potere, salotti sedicenti buoni e in realtà abbondantemente tarlati,
alleanze corporative, intese consociative, accordi al ribasso, minimi
comun denominatori imperanti. Con una politica debole ma con
un’imprenditorialità gregaria e velleitaria, talvolta protestataria ma
sempre concessionaria, pronta a scambiare favori al ribasso con chi
governa, senza mai una reciproca autonomia, tentata talvolta
dall’avventura politica senza avere il fuoco nella pancia di Berlusconi,
ma solo cenere di antichi fuochi parastatali.
Detto questo, che è
metà del problema, resta l’altra metà: come può la sinistra governare e
salvarsi l’anima? A me verrebbe da dire che oggi ci si salva l’anima
soltanto governando, il che faticosamente significa accettare i
compromessi, le mediazioni, lo scarto tra le utopie e la realtà sapendo
che i coltivatori del rancore ti urleranno contro ma sapendo anche che
le pinze e i cacciavite che la sinistra ha nello zaino sono gli
strumenti più adatti a contrastare la radicalità della crisi, che pesa
sugli estremi della scala sociale, deformando al massimo le distanze.
Per essere chiari: sono convinto che il riformismo sia l’unico orizzonte
possibile per la sinistra occidentale d’inizio secolo, anche se il
vento è contrario e gonfia le vele altrui, premiando l’irresponsabilità
che alimenta la rabbia invece di trasformarla in politica.
Il
vento contrario non viene dal nulla perché il riformismo è sempre stato
minoranza in Italia, ricorda a Milano Michele Salvati, economista ma
soprattutto primo inventore dell’idea di un partito democratico
italiano. Prima il Pci che era tutt’altro che riformista, spiega il
professore, poi gli ondeggiamenti di Occhetto, la difficoltà perenne di
accettare il tema del liberalcapitalismo, e il tutto sempre senza aver
avuto Bad Godesberg, la scelta netta di campo per la democrazia, nella
libertà e per il mercato.
La partita non è finita, perché il Pd è
nato con la cultura di governo e per governare, ma quella cultura fatica
ad affermarla compiutamente, anche per la guerra mondiale che il
partito ha importato al suo interno, invece di combatterla con la destra
o con Grillo. «Non ci si rende conto che la libertà estrema per la
circolazione dei capitali in un mondo de-regolato, unita alla mancanza
di protezione per i ceti più deboli è una cornice che può stritolare la
sinistra, mentre fa riemergere la rabbia sociale e genera uno scontento
diffuso di cui approfitta la destra populista», dice Salvati. «Eppure il
modello c’è perché il secolo socialdemocratico è stato grandioso, e i
Trenta Gloriosi, i tre decenni seguiti alla guerra, con l’economia
sociale di mercato hanno liberato il capitalismo temperandolo, cioè
frenandone gli istinti più belluini, mentre un welfare condiviso dalla
sinistra e dai conservatori ha emancipato le classi popolari».
Quel
welfare che per Romano Prodi, il fondatore dell’Ulivo, resta ancora il
segno distintivo di una sinistra moderna, un segno che si va scolorendo
«perché quell’attenzione che c’era alla protezione dei cittadini,
soprattutto quelli più esposti agli imprevisti della vita, è andata
scemando, e non è un problema solo italiano e nemmeno soltanto di una
parte politica, ma oggi attraversa tutta l’Europa».
Quanta fatica
per arrivare fin qui, a una sinistra di governo, con le sue costruzioni
materiali come il welfare, con le sue costruzioni teoriche perennemente
in ritardo, un ritardo colpevole. E adesso che c’è la cultura di governo
e c’è persino il governo (nelle città, nelle regioni, a Roma), proprio
adesso che la sinistra diventa classe dirigente scoppia la rivolta
contro le élite e contro l’establishment. Neanche il tempo di aprire la
porta della stanza dei bottoni, verrebbe da dire, quella stanza che
Pietro Nenni, quando ci entrò per la prima volta da vicepresidente del
Consiglio, trovò vuota. Tutto questo comporta un rischio evidente.
Perché il riformismo, cioè la cultura di governo della sinistra
liberamente accettata, è molto recente, in formazione, per molti versi
ancora fragile e addirittura posticcia. Sotto i colpi di maglio del
trumpismo dilagante e delle opportunistiche imitazioni di casa nostra
c’è il rischio che quell’embrione di cultura si intimidisca,
rattrappendosi e mimetizzandosi. Diventando dunque incapace di
concorrere alla vera grande partita, che è quella per l’egemonia
culturale, la corrente di fondo che trascina e determina la politica.
DAL SUO DOPPIO OSSERVATORIO, tra Milano e Bologna dov’è direttore del Mulino,
Salvati
si è convinto che l’alleanza tra la sinistra di governo e la borghesia è
oggi l’unico modo di rimettere le briglie al neoliberismo in un Paese
in declino. Potremmo dire che c’è in proposito un modello Milano, anzi
un doppio modello che ottiene lo stesso risultato — governare la città —
cambiando i fattori: prima con Giuliano Pisapia la sinistra ha proposto
un patto alla borghesia milanese, poi con Sala è la borghesia che ha
chiesto un’alleanza alla sinistra e in entrambi i casi la città ha detto
sì e si sono vinte le elezioni.
L’avvocato milanese lo fermano
ancora per strada chiamandolo sindaco, anche adesso che indica la
traduzione fisica, concreta, di quel patto a Quarto Oggiaro, dove stanno
insieme la centrale operativa delle forze dell’ordine, la casa del
volontariato, la casa dell’associazionismo, la scuola civica musicale
intitolata a Claudio Abbado; o quando si sposta in zona Corvetto, dove
c’è la fondazione Prada, l’hub del coworking per i giovani ma anche (al
numero 69 di viale Ortles) la casa dell’accoglienza Enzo Jannacci, che
dà un posto per dormire a mille persone senza un tetto dai diciott’anni
in su, con mensa, docce, lavanderia; o ancora la zona dove s’innalzano i
nove grattacieli di Milano e dove l’ex sindaco ha voluto — proprio qui —
la casa della memoria che riunisce le associazioni dei partigiani e
delle vittime del terrorismo, un luogo del ricordo proprio in mezzo al
nuovo skyline della città.
Ma basta andare con Matteo Pucciarelli a
due passi dalla Bocconi e dal Parco Ravizza, in via Bellezza, aprire la
porta del numero 16 ed entrare nei due mondi che vivono insieme al
circolo Arci più grande di Milano, diecimila soci per trovare un’ottima
polenta, un buon tiramisù e un direttivo dove le due Milano sembrano
addirittura stringersi la mano come succedeva nei simboli delle vecchie
Società di Mutuo Soccorso, due mani intrecciate. E infatti qui, al
circolo “Bellezza”, il presidente
è Maso Notarianni che viene
dall’esperienza di Emergency, nel gruppo dirigente c’è Milly Moratti ma
c’è anche l’ex fondatore delle Brigate Rosse Alberto Franceschini. E il
mix funziona e gira su se stesso durante la giornata. Al pomeriggio
sembra di entrare in una Casa del Popolo degli anni Sessanta o anche
prima, coi pensionati seduti al tavolo col mezzolitro davanti e le carte
in mano. Ma la sera arrivano i ragazzi per il concerto di Joshua Radin
nel vecchio teatro, per le nottate rock, per la discoteca, mentre di
giorno ci sono i corsi di milonga e di tango col maestro Alberto
Colombo, con la pratica del domingo guidata alle 15,30, libera fino alle
23, con possibilità di aperitivo a bordopista, proprio nello spazio
dove Luchino Visconti ha girato Rocco e i suoi fratelli.
«I
borghesi vengono, certo, i pensionati discutono di referendum, i ragazzi
cantano e ballano», dice Notarianni. «È un gran mischione che funziona,
e a noi qui a Milano questo incrocio è venuto naturale, tanto che la
candidatura di Pisapia a sindaco è nata proprio qui, perché era il posto
giusto per parlare all’intera città, una cornice perfetta, coerente col
senso di quella candidatura. Ricetta milanese? Questi posti possono
avere ancora un significato dovunque, a patto che abbiano un’anima. Io
penso che si possa parlare di politica come una volta e divertirsi,
stando insieme e magari imparando qualcosa per non buttare via il tempo.
A condizione di far le cose per bene e crederci, ricetta che la
sinistra sembra non conoscere più».
Attenzione però, avvisa
Pisapia: per governare un sistema complesso oggi ci vuole certo una
sinistra che sappia parlare con la borghesia, lavorando col pubblico e
con il privato, tenendo sempre il pallino in mano e mettendo fin dal
primo minuto un paletto ben in vista, per dire agli imprenditori che c’è
spazio per loro, ma al servizio della città e a suo vantaggio.
Quest’alleanza vale per le giunte, nei municipi delle città ma vale
anche a livello nazionale, non nel senso di inseguire partitini di un
centro che non c’è ma nella capacità della sinistra di convincere e
coinvolgere autonomamente interessi moderati ed elettori di centro in un
progetto di governo che cominci intanto a rovesciare il vocabolario:
sinistra-centro, dice l’ex sindaco, dopo tanti esperimenti più o meno
riusciti di centro-sinistra.
La cifra politica di centro che lui
cerca è quella di una borghesia aperta, occidentale, europea, moderna,
capace di esprimere un impegno civile in uno sforzo di governo e di
cambiamento, come se fosse una grande lista civica nazionale alleata
alla sinistra. Quella lista non c’è e allora i “borghesi civici” bisogna
andare a prenderseli uno per uno e non è facile, soprattutto perché
bisogna essere insieme responsabili e coraggiosi, ma soprattutto
credibili, portando all’appuntamento una sinistra a sua volta aperta,
occidentale, europea, moderna. Tante cose.
Le due sinistre
PER
ARRIVARE A DIRE, POI, CHE LA SINISTRA BORGHESE non basta più. Per
Pisapia ci vuole anche la capacità di tenere a bordo quel pezzo di
sinistra più radicale senza il quale non si vince, ma soprattutto si
regala spazio alla destra e ai grillini, finendo paradossalmente per
dare ragione a Camille Paglia quando dice che “la sinistra è una frode
borghese”. Però a bordo c’è l’ammutinamento perenne, le faglie corrono
dovunque, a sinistra del Pd ma oggi soprattutto al suo interno. Il
referendum è in sé una faglia vivente: anche a Milano, naturalmente, se
si esce dal “Bellezza” e si passa alla Camera del Lavoro più importante
d’Italia, a Porta Vittoria. Qui hanno litigato addirittura per l’affitto
della sala grande, quando la “Sinistra per il Sì” ha organizzato la sua
prima assemblea proprio in Camera del lavoro, con Maurizio Martina,
Fassino e Anna Finocchiaro. Il “Sì” che esordisce in casa del “No”?
Putiferio, e risposta riformista del segretario generale Massimo Bonini,
quarantuno anni: «Noi diamo la sala a chi la chiede». Ma quando il
comitato “Basta un Sì” torna alla carica per organizzare un incontro,
scatta la protesta dei compagni del “No”, che blocca la richiesta. Sala
vuota, dunque, polemica a fior di pelle e — sotto la La borghesia
Magari
ci fosse un vero establishment in questo Paese, verrebbe subito da
rispondere, una classe dirigente degna di questo nome, perché in grado
di coniugare gli interessi particolari legittimi che innervano la
società con l’interesse generale: invece di questi network di piccolo
potere, salotti sedicenti buoni e in realtà abbondantemente tarlati,
alleanze corporative, intese consociative, accordi al ribasso, minimi
comun denominatori imperanti. Con una politica debole ma con
un’imprenditorialità gregaria e velleitaria, talvolta protestataria ma
sempre concessionaria, pronta a scambiare favori al ribasso con chi
governa, senza mai una reciproca autonomia, tentata talvolta
dall’avventura politica senza avere il fuoco nella pancia di Berlusconi,
ma solo cenere di antichi fuochi parastatali.
Detto questo, che è
metà del problema, resta l’altra metà: come può la sinistra governare e
salvarsi l’anima? A me verrebbe da dire che oggi ci si salva l’anima
soltanto governando, il che faticosamente significa accettare i
compromessi, le mediazioni, lo scarto tra le utopie e la realtà sapendo
che i coltivatori del rancore ti urleranno contro ma sapendo anche che
le pinze e i cacciavite che la sinistra ha nello zaino sono gli
strumenti più adatti a contrastare la radicalità della crisi, che pesa
sugli estremi della scala sociale, deformando al massimo le distanze.
Per essere chiari: sono convinto che il riformismo sia l’unico orizzonte
possibile per la sinistra occidentale d’inizio secolo, anche se il
vento è contrario e gonfia le vele altrui, premiando l’irresponsabilità
che alimenta la rabbia invece di trasformarla in politica.
Il
vento contrario non viene dal nulla perché il riformismo è sempre stato
minoranza in Italia, ricorda a Milano Michele Salvati, economista ma
soprattutto primo inventore dell’idea di un partito democratico
italiano. Prima il Pci che era tutt’altro che riformista, spiega il
professore, poi gli ondeggiamenti di Occhetto, la difficoltà perenne di
accettare il tema del liberalcapitalismo, e il tutto sempre senza aver
avuto Bad Godesberg, la scelta netta di campo per la democrazia, nella
libertà e per il mercato.
La partita non è finita, perché il Pd è
nato con la cultura di governo e per governare, ma quella cultura fatica
ad affermarla compiutamente, anche per la guerra mondiale che il
partito ha importato al suo interno, invece di combatterla con la destra
o con Grillo. «Non ci si rende conto che la libertà estrema per la
circolazione dei capitali in un mondo de-regolato, unita alla mancanza
di protezione per i ceti più deboli è una cornice che può stritolare la
sinistra, mentre fa riemergere la rabbia sociale e genera uno scontento
diffuso di cui approfitta la destra populista», dice Salvati. «Eppure il
modello c’è perché il secolo socialdemocratico è stato grandioso, e i
Trenta Gloriosi, i tre decenni seguiti alla guerra, con l’economia
sociale di mercato hanno liberato il capitalismo temperandolo, cioè
frenandone gli istinti più belluini, mentre un welfare condiviso dalla
sinistra e dai conservatori ha emancipato le classi popolari».
Quel
welfare che per Romano Prodi, il fondatore dell’Ulivo, resta ancora il
segno distintivo di una sinistra moderna, un segno che si va scolorendo
«perché quell’attenzione che c’era alla protezione dei cittadini,
soprattutto quelli più esposti agli imprevisti della vita, è andata
scemando, e non è un problema solo italiano e nemmeno soltanto di una
parte politica, ma oggi attraversa tutta l’Europa».
Quanta fatica
per arrivare fin qui, a una sinistra di governo, con le sue costruzioni
materiali come il welfare, con le sue costruzioni teoriche perennemente
in ritardo, un ritardo colpevole. E adesso che c’è la cultura di governo
e c’è persino il governo (nelle città, nelle regioni, a Roma), proprio
adesso che la sinistra diventa classe dirigente scoppia la rivolta
contro le élite e contro l’establishment. Neanche il tempo di aprire la
porta della stanza dei bottoni, verrebbe da dire, quella stanza che
Pietro Nenni, quando ci entrò per la prima volta da vicepresidente del
Consiglio, trovò vuota. Tutto questo comporta un rischio evidente.
Perché il riformismo, cioè la cultura di governo della sinistra
liberamente accettata, è molto recente, in formazione, per molti versi
ancora fragile e addirittura posticcia. Sotto i colpi di maglio del
trumpismo dilagante e delle opportunistiche imitazioni di casa nostra
c’è il rischio che quell’embrione di cultura si intimidisca,
rattrappendosi e mimetizzandosi. Diventando dunque incapace di
concorrere alla vera grande partita, che è quella per l’egemonia
culturale, la corrente di fondo che trascina e determina la politica.
DAL SUO DOPPIO OSSERVATORIO, tra Milano e Bologna dov’è direttore del Mulino,
Salvati
si è convinto che l’alleanza tra la sinistra di governo e la borghesia è
oggi l’unico modo di rimettere le briglie al neoliberismo in un Paese
in declino. Potremmo dire che c’è in proposito un modello Milano, anzi
un doppio modello che ottiene lo stesso risultato — governare la città —
cambiando i fattori: prima con Giuliano Pisapia la sinistra ha proposto
un patto alla borghesia milanese, poi con Sala è la borghesia che ha
chiesto un’alleanza alla sinistra e in entrambi i casi la città ha detto
sì e si sono vinte le elezioni.
L’avvocato milanese lo fermano
ancora per strada chiamandolo sindaco, anche adesso che indica la
traduzione fisica, concreta, di quel patto a Quarto Oggiaro, dove stanno
insieme la centrale operativa delle forze dell’ordine, la casa del
volontariato, la casa dell’associazionismo, la scuola civica musicale
intitolata a Claudio Abbado; o quando si sposta in zona Corvetto, dove
c’è la fondazione Prada, l’hub del coworking per i giovani ma anche (al
numero 69 di viale Ortles) la casa dell’accoglienza Enzo Jannacci, che
dà un posto per dormire a mille persone senza un tetto dai diciott’anni
in su, con mensa, docce, lavanderia; o ancora la zona dove s’innalzano i
nove grattacieli di Milano e dove l’ex sindaco ha voluto — proprio qui —
la casa della memoria che riunisce le associazioni dei partigiani e
delle vittime del terrorismo, un luogo del ricordo proprio in mezzo al
nuovo skyline della città.
Ma basta andare con Matteo Pucciarelli a
due passi dalla Bocconi e dal Parco Ravizza, in via Bellezza, aprire la
porta del numero 16 ed entrare nei due mondi che vivono insieme al
circolo Arci più grande di Milano, diecimila soci per trovare un’ottima
polenta, un buon tiramisù e un direttivo dove le due Milano sembrano
addirittura stringersi la mano come succedeva nei simboli delle vecchie
Società di Mutuo Soccorso, due mani intrecciate. E infatti qui, al
circolo “Bellezza”, il presidente
è Maso Notarianni che viene
dall’esperienza di Emergency, nel gruppo dirigente c’è Milly Moratti ma
c’è anche l’ex fondatore delle Brigate Rosse Alberto Franceschini. E il
mix funziona e gira su se stesso durante la giornata. Al pomeriggio
sembra di entrare in una Casa del Popolo degli anni Sessanta o anche
prima, coi pensionati seduti al tavolo col mezzolitro davanti e le carte
in mano. Ma la sera arrivano i ragazzi per il concerto di Joshua Radin
nel vecchio teatro, per le nottate rock, per la discoteca, mentre di
giorno ci sono i corsi di milonga e di tango col maestro Alberto
Colombo, con la pratica del domingo guidata alle 15,30, libera fino alle
23, con possibilità di aperitivo a bordopista, proprio nello spazio
dove Luchino Visconti ha girato Rocco e i suoi fratelli.
«I
borghesi vengono, certo, i pensionati discutono di referendum, i ragazzi
cantano e ballano», dice Notarianni. «È un gran mischione che funziona,
e a noi qui a Milano questo incrocio è venuto naturale, tanto che la
candidatura di Pisapia a sindaco è nata proprio qui, perché era il posto
giusto per parlare all’intera città, una cornice perfetta, coerente col
senso di quella candidatura. Ricetta milanese? Questi posti possono
avere ancora un significato dovunque, a patto che abbiano un’anima. Io
penso che si possa parlare di politica come una volta e divertirsi,
stando insieme e magari imparando qualcosa per non buttare via il tempo.
A condizione di far le cose per bene e crederci, ricetta che la
sinistra sembra non conoscere più».
Attenzione però, avvisa
Pisapia: per governare un sistema complesso oggi ci vuole certo una
sinistra che sappia parlare con la borghesia, lavorando col pubblico e
con il privato, tenendo sempre il pallino in mano e mettendo fin dal
primo minuto un paletto ben in vista, per dire agli imprenditori che c’è
spazio per loro, ma al servizio della città e a suo vantaggio.
Quest’alleanza vale per le giunte, nei municipi delle città ma vale
anche a livello nazionale, non nel senso di inseguire partitini di un
centro che non c’è ma nella capacità della sinistra di convincere e
coinvolgere autonomamente interessi moderati ed elettori di centro in un
progetto di governo che cominci intanto a rovesciare il vocabolario:
sinistra-centro, dice l’ex sindaco, dopo tanti esperimenti più o meno
riusciti di centro-sinistra.
La cifra politica di centro che lui
cerca è quella di una borghesia aperta, occidentale, europea, moderna,
capace di esprimere un impegno civile in uno sforzo di governo e di
cambiamento, come se fosse una grande lista civica nazionale alleata
alla sinistra. Quella lista non c’è e allora i “borghesi civici” bisogna
andare a prenderseli uno per uno e non è facile, soprattutto perché
bisogna essere insieme responsabili e coraggiosi, ma soprattutto
credibili, portando all’appuntamento una sinistra a sua volta aperta,
occidentale, europea, moderna. Tante cose.
Le due sinistre
PER
ARRIVARE A DIRE, POI, CHE LA SINISTRA BORGHESE non basta più. Per
Pisapia ci vuole anche la capacità di tenere a bordo quel pezzo di
sinistra più radicale senza il quale non si vince, ma soprattutto si
regala spazio alla destra e ai grillini, finendo paradossalmente per
dare ragione a Camille Paglia quando dice che “la sinistra è una frode
borghese”. Però a bordo c’è l’ammutinamento perenne, le faglie corrono
dovunque, a sinistra del Pd ma oggi soprattutto al suo interno. Il
referendum è in sé una faglia vivente: anche a Milano, naturalmente, se
si esce dal “Bellezza” e si passa alla Camera del Lavoro più importante
d’Italia, a Porta Vittoria. Qui hanno litigato addirittura per l’affitto
della sala grande, quando la “Sinistra per il Sì” ha organizzato la sua
prima assemblea proprio in Camera del lavoro, con Maurizio Martina,
Fassino e Anna Finocchiaro. Il “Sì” che esordisce in casa del “No”?
Putiferio, e risposta riformista del segretario generale Massimo Bonini,
quarantuno anni: «Noi diamo la sala a chi la chiede». Ma quando il
comitato “Basta un Sì” torna alla carica per organizzare un incontro,
scatta la protesta dei compagni del “No”, che blocca la richiesta. Sala
vuota, dunque, polemica a fior di pelle e — sotto la pelle — l’idea che
la faglia passi anche attraverso la Cgil, tra la sua naturale difesa
della Costituzione e il suo legame col Pd. E qui si apre la questione
eterna delle due sinistre, torna in campo il buon vecchio Turati, il
riformismo e il massimalismo in guerra, quando non siamo nemmeno sicuri
di avere finalmente un riformismo di governo, dopo un secolo: e per
questa strada tormentata si arriva fino a Bertinotti.
O meglio, a
Pisapia, perché l’avvocato uscito da palazzo Marino ha ormai un ruolo
nazionale come uomo-ponte tra i mondi separati delle due sinistre. A
parte il fatto che non i pontieri, ma i pompieri oggi troverebbero
abbondante lavoro all’interno del Pd (che vive dentro un incendio
permanente, bruciando ogni giorno la casa comune purché muoia il vicino
di stanza), la sinistra radicale oggi è un sentimento sparso e disperso,
senza più un’organizzazione. Ponte con che cosa, dunque, verrebbe da
chiedersi, se manca una sponda? Vittorio Foa spiegava “ l’assurdità di
unire diverse realtà malate che non possono guarire sommandosi tra loro
così come sono, ma solo cambiando se stesse”. Ma Pisapia sta girando
l’Italia e giura che c’è una rete spontanea pronta a riformarsi, se
nasce l’occasione. Ecco dunque il sogno del Ponte a tre campate per
vincere, governare e salvarsi l’anima.
Ma per provarci, ci sono
due precondizioni che l’ex sindaco mette sul tavolo a ogni suo incontro:
la prima è che la sinistra-sinistra la smetta di dire solo no e
soprattutto la pianti con la storia della mutazione genetica dei
riformisti, che trasforma il Pd nel nemico principale da abbattere; la
seconda, che il Pd la finisca di credersi l’unica sinistra, e dunque
l’unica forza abilitata a decidere, l’unico attore in scena in questa
metà del terreno di gioco.
Sono due ostacoli simmetrici, quasi le
ultime ideologie rimaste a sinistra, e bisogna disarmarli insieme con
buona volontà e soprattutto con realismo, se non si vuole regalare il
Paese alla destra o a Grillo. Pisapia lo ha anche detto a Renzi: può
darsi che un giorno accada quel che oggi non è possibile e che il Pd
diventi padrone incontrastato del campo, ma prima che da solo possa
rappresentare l’intera sinistra deve passare una generazione, forse
addirittura devono passarne due. “E intanto, che facciamo?”. Rispondono i
personaggi di Ellekappa, nella loro indagine permanente sui tormenti
della sinistra: “Il sogno, la casa comune di tutta la sinistra”, dice il
primo. E l’altro risponde: “L’incubo, le riunioni di condominio”.
PER
CAPIRE CHE FARE, BISOGNEREBBE PRIMA SAPERE cosa dire. Davanti a una
crisi economica senza precedenti, con una destra che abbattendo il
politicamente corretto si è presa la più estrema libertà di parola,
sfondando il linguaggio politico e stravolgendo i riferimenti culturali
tradizionali del suo campo, la sinistra ha chiuso il vecchio vocabolario
e non ha trovato il nuovo. Nessuno si preoccupa di scriverlo, tutti
sono troppo occupati a cercare la battuta efficace nei centoquaranta
caratteri di un tweet, invece di mettere in campo un pensiero lungo,
accettando l’uno contro tutti dei social network dove vive la democrazia
del libero scambio di opinioni, senza più il pulpito e il messaggio
verticale: ma dove cresce anche la società del rancore. Intanto la
destra
sa di cosa parla, e sa persino come farlo.
I poveri
La
battaglia di Donald Trump si appoggia sulle parole “prendere”,
“guardare”, “dire”, “Paese”, “occupazione”, “gente”, “grande”, “grosso”,
“cattivo”. I comizi di Viktor Orbán lamentano “la sparizione delle
nazioni europee e dei loro valori” e la volontà di “renderle
irriconoscibili” e chiedono che “l’Europa resti agli europei” e che i
vari paesi rifiutino di “farsi sovietizzare da Bruxelles”. L’ideologia
di Marine Le Pen costruisce uno scenario psicopolitico di assedio che
parte dall’evocazione del “caos” imminente, passa alla “sostituzione”
degli europei con gli immigrati maghrebini, punta su un “nazionalismo
rivoluzionario”, propone un “patriottismo economico”, pretende una
“sovranità al servizio dell’identità”, denuncia il “tradimento delle
élite” mentre sullo sfondo evoca “una Francia che noi non riconosceremo
più, che diventerà per noi un Paese straniero”.
Di fronte a questa
costruzione meta-politica che agita il profondo di paure antiche con
linguaggi nuovissimi, la sinistra non usa più le parole tradizionali del
suo discorso pubblico perché le sembrano vecchie, mentre in realtà
appaiono antiche solo perché non suonano autentiche. Cosa c’è di più
moderno che ragionare sui diritti del lavoro negando che siano — unici
tra tutti i diritti — una variabile dipendente della crisi, mentre sono
invece una cifra della qualità democratica del Paese di cui usufruiamo
tutti, lavoratori dipendenti, professionisti e imprenditori? E cosa c’è
di più responsabile che sostenere la necessità di rimodulare il welfare
per proteggerlo dall’urto di questo decennio, salvandolo? Infine: perché
dovrebbe essere vecchio parlare di uguaglianza nella fase in cui la
crisi addirittura sorpassa e sopravanza le disuguaglianze trasformandole
in esclusione, sapendo per di più che mentre la democrazia “scusa” e
sconta le disuguaglianze non può tollerare le esclusioni?
Soprattutto,
chi dovrebbe fare questi discorsi se non la sinistra, proprio e tanto
più quando governa, e dunque ha la responsabilità dell’intero Paese e
non solo di una sua parte? Ma se ti mancano le parole, le tue parole,
quelle della tua storia (naturalmente interpretate secondo lo spirito
dei tempi e il carattere dei leader) sei prigioniero dell’egemonia
culturale dominante, gregario del pensiero unico, attore nell’agenda
altrui, e intanto il concetto di sinistra sbiadisce dentro un liquido
pulito e confortevole ma diverso e senza colore. L’indistinto
democratico.
UNA PAROLA CHE LA SINISTRA NON PRONUNCIA più è
proprio questa — povertà — e il suo silenzio suona forte perché la nuova
miseria si sta allargando. O meglio, spiega a Bologna Roberto
Morgantini, noi parliamo anche di poveri, la questione vera è che non
sappiamo parlare coi poveri. Lui ha lavorato una vita nel sindacato, si
occupava di immigrazione, praticamente non c’è un profugo arrivato senza
niente a Bologna che non sia passato per le sue mani. A un certo punto,
con Lucio Dalla, si sono messi in testa di aprire una specie di
refettorio laico per dimostrare a se stessi che non c’è solo la Chiesa a
occuparsi di povertà, che non c’è soltanto la carità ma anche la
solidarietà, che non è il pane benedetto l’unico che può sfamare i più
disgraziati. Poi Lucio è morto, e tutto sembrava finito prima di
incominciare, perché non c’erano i soldi.
«Ma io sentivo il
disagio di occuparmi solo di questioni come i diritti dei diseredati,
cose tutte più che sacrosante, intendiamoci, ma mentre parlavo con
quella gente qualcun altro si preoccupava di dar loro da mangiare»,
racconta Morgantini. «Volevo farlo anch’io. Ho settant’anni, convivevo
con Elvira da trentotto, abbiamo avuto l’idea di sposarci per sfruttare i
regali di nozze come finanziamento al progetto e alla fine abbiamo
raccolto settantamila euro e sono nate le “Cucine popolari”, in partenza
con sei volontari e pochi pasti. Oggi quelli che ci regalano il loro
tempo per andare a prendere pasta, carne, frutta e verdura, per
cucinare, servire a tavola e lavare i piatti sono trenta, e a tavola si
siedono ogni giorno ottanta persone. Funziona, e l’idea della laicità è
andata a farsi benedire. Io sono laico, ci mancherebbe, ma ho scoperto
che con i preti e i volontari cristiani si lavora che è una meraviglia, e
poi se devo dire la verità stamattina avevamo bisogno di verdure e chi
ce le ha date? Comunione e Liberazione, con il Banco Alimentare».
Bisogna
guardarla, alle cucine di via Battiferro numero 2, la nuova geografia
della povertà italiana. Perché Bologna fa parte del Paese ricco, c’è una
cultura solidale antica e tenace, si sta meglio che altrove. Ma qui ci
sono tutti: gli stranieri appena arrivati con qualche barcone e risaliti
fin quassù con piazza Maggiore come prima immagine dell’Italia, ma
anche gli italiani che mese dopo mese diventano due o tre in più, e che
ormai sono la metà degli ospiti. C’è chi ha perso il lavoro e la casa
come Graziella, che dorme in un centro per senzatetto, mangia qui a
pranzo e incarta qualcosa per cena da portar via; c’è Maria che è una
ragazza madre e si è presentata un anno fa con la figlia di un mese e
poi non ha più mancato un giorno; c’è il “professore” malato di
Alzheimer che povero non è ma mangia qualcosa solo qui e allora la
moglie lo accompagna a mezzogiorno; al tavolo in fondo c’è Antonio che
ha problemi psichici e tra un’ora, quando avrà finito il pranzo, darà
una mano a sparecchiare, trasformandosi in povero-volontario. Tutto
questo a cinque minuti dalla stazione, quartiere Navile, nel cuore della
città “grassa”, a cui piace una sinistra «che metta le mani nelle
cose», come dice il compagno Morgantini che infatti sta già macchinando
per aprire un’altra cucina popolare ancor più in centro, nel Porto, un
quartiere dove vivono molti vecchi soli, e per preparare i soldi che non
ci sono farà una vendita straordinaria di Pignoletto, il bianco delle
colline bolognesi imbottigliato qui dai volontari: per Natale due
bottiglie a dieci euro, e qualche pasto a qualche nuovo povero in più.
Il
caso di Bologna, dove con la povera gente lavorano strutture come
“Piazza grande” o quella storica di don Nicolini, oltre alla Caritas e
all’Antoniano, è importante proprio perché tutta la città vede quel che
succede, e lo sa. Vede i poveri, vede il volontariato, conosce insieme
il problema e la sua gestione, una possibile soluzione, e anche
l’evidenza concreta della solidarietà. Oltre a un problema di
vocabolario, infatti, la sinistra ha un problema di sguardo. Ci sono
cose che non riesce a scorgere più, non le inquadra, e se le incontra
non riesce a metterle a fuoco.
La distanza tra chi sta in alto e
chi precipita — gli integrati e gli espulsi — è aumentata fino a
diventare una vera e propria frattura sociale. Intere parti di società,
di generazione, di ceto stanno sperimentando un naufragio silenzioso con
l’onda della crisi che li sopravanza fino a sommergerli. La
divaricazione epocale tra i privilegiati che vivono nello spazio
sovranazionale dei flussi finanziari e dei flussi d’informazione e i
dannati che abitano il sottosuolo degli Stati nazionali diventa
incolmabile. Con questo risultato formidabile: la rottura del nesso che
legava i ricchi e i poveri nel loro percorso distinto e disuguale
tuttavia collegato, il venir meno di quel vincolo di destino collettivo
che abbiamo chiamato società e che avevamo conservato fino a oggi.
Noi
fingiamo che i garantiti e gli scartati siano ancora vincolati dal
sentimento di un destino civile comune, verso un orizzonte condiviso di
ciò che per anni abbiamo chiamato “bene comune”. Ma dietro la crosta
miracolosa di coesione sociale che tiene insieme questa divaricazione a
orologeria, assorbendo o forse disperdendo le tensioni e i conflitti, ci
sono gruppi e soggetti che semplicemente vanno alla deriva, finiscono
sul bordo a saggiare a tentoni il margine periferico della democrazia,
ne fanno un valore d’uso minimo e soprattutto insignificante: e giungono
infine a considerare i suoi valori e i suoi diritti come un apparato di
nobili parole, che funzionano però come un privilegio in più — supremo,
perché diventa regola — per i privilegiati. Nello stesso tempo e
simmetricamente il garantito non avverte più il valore o l’utilità di
quel legame col povero, le condizioni culturali, sociali, politiche ed
economiche lo autorizzano a sentirsi svincolato, liberato da ogni
responsabilità che vada oltre la sua sfera personale, perché nessuno gli
chiede più conto degli altri, che dunque non lo interpellano e per
conseguenza non gli interessano. Inconsapevolmente, per questa strada
sconosciuta arriviamo a un passo dal luogo in cui Caino diede la sua
risposta: “Sono forse io il custode di mio fratello?”.
Mentre la
società si rompe, una parte si inabissa lentamente e ne perdiamo nozione
e coscienza. Non li vediamo più, non hanno una classe che li raccolga,
una storia che li racconti, un partito che li rappresenti, non
proiettano un’ombra sociale, non lasciano un’impronta politica. Non
fanno nemmeno più paura, non sono niente. La stessa parola “povero” non
rappresenta la spoliazione identitaria cui stiamo assistendo, sembra di
un’altra epoca perché indica una scala di riferimento comune, in cui
l’alto e il basso in qualche modo si tengono, c’è ancora una dialettica
sociale, siamo dentro il rapporto di forza tra capitale e lavoro. Qui
invece siamo fuori da ogni campo di forza, da ogni schema culturale, da
ogni ipotesi politica. Qui si va a fondo da soli, invisibili e
impronunciabili. Vergognosi. Morgantini prima di partire con il suo
refettorio laico a Bologna è andato a vedersi un po’ di mense popolari
in giro per l’Italia e alla fine ha deciso di organizzarsi con tavoli da
sei posti e un facilitatore che gira tra i “clienti” e li spinge a
parlare, proprio perché si è accorto che più le mense sono grandi più il
povero è intimidito: entra, tiene la testa china sul tavolo, mentre
mangia guarda solo il piatto e poi se ne va. Invisibile com’è, vuole che
lo vedano ancora meno.
Lo capisce chi va in via Capriolo 16 a
Torino, a Borgo San Paolo, ex quartiere operaio, e attraversa la soglia
con la scritta “Spazio d’angolo”. Potrebbe essere un negozio o anche uno
studio di design dentro un grande caseggiato che ai tempi della città
fordista — dove tutto si teneva — era l’istituto tecnico dei Fratelli
delle scuole cristiane e adesso è una delle cinque mense serali di
Torino. Pareti gialle e arancioni, sedie rosse, «perché chi arriva qui
ha bisogno di calore e abbiamo evitato il bianco», dice Pierluigi, il
direttore della Caritas che ha organizzato la mensa insieme con la
cooperativa Arco. In fondo alla stanza, Andrea stasera cena da solo:
«Vengo qui da due anni. Nel 2013 ho chiuso la cartoleria. Fallito. Sa
cosa significa? Glielo dico io: mi sono mangiato tutto. Arrivo verso le
cinque di sera, la cena la servono alle cinque e mezza. Non c’è molto
spazio per parlare, bisogna avere il tempo per finire e uscire in modo
da arrivare al dormitorio pubblico prima delle sette. Altrimenti rischi
di dormire fuori».
Ma non è nemmeno qui il grado zero della
disperazione, qui dove in fila coi barboni si sono aggiunti ex
impiegati, capicantiere e la scorsa settimana un ingegnere. «La crisi»,
spiega Pierluigi, «non si misura solo coi cinquemila pasti forniti dalle
mense dei poveri, ma nella dimensione privata, invisibile delle
migliaia di famiglie che negli ultimi cinque anni hanno cominciato a far
richiesta quoti diana di pacchi pasto. Nella sola zona di corso Umbria,
a Torino Nord, le famiglie assistite con il pacco pranzo sono
cinquecento. Gente che non ce la fa ad arrivare a fine mese ma non ha il
coraggio di presentarsi alla mensa pubblica». Perché la povertà è
terribile, ma per gli ex poveri ritornare a esserlo dopo un giro fuori è
insopportabile.
Noi ne sappiamo poco o nulla, tutto finisce
trasformato in percentuali e quozienti nelle statistiche del pil, dei
consumi e dell’occupazione. Ma è così che salta sotto i nostri occhi
quello che gli studiosi chiamano il tavolo di compensazione dei
conflitti, capace di tenere insieme i vincenti e i perdenti della
mondializzazione. Su quel tavolo, oltre che l’equilibrio della modernità
occidentale stava anche la carta d’identità della sinistra, che rischia
di volare per aria, perché come spiega il premier francese Valls,
l’emancipazione oggi è la sua vera missione. Tutto per aria. E poi? È la
stessa domanda che l’operaio in tuta pronuncia in una vignetta del
sommo Altan: “E adesso?”. “Facciamo una colletta”, gli risponde Cipputi,
“e affittiamoci un uomo della Provvidenza”.
FINCHÉ ARRIVA
L’ULTIMA SFIDA A SORPRESA, quella del neo-nazionalismo conservatore di
Theresa May, la nuova premier inglese, quando arringa i suoi: “Ascoltate
come molti politici e commentatori parlano dell’opinione pubblica.
Considerano il patriottismo del popolo disgustoso, la preoccupazione per
l’immigrazione provinciale, l’atteggiamento verso la criminalità
illiberale, la sicurezza del posto di lavoro fastidiosa”. È vero, è un
ritratto della sinistra? Un po’ sì. «Abbiamo appena perso Monfalcone
consegnandola alla Lega», dice uno dei giovani quadri della sinistra
friulana, Federico Pirone, ventotto anni, assessore a Udine, «perché non
sappiamo parlare di immigrazione. Eppure abbiamo la politica più a
sinistra di tutto il continente, sia nei confronti dell’Europa che nei
confronti dei profughi, Renzi in questo ha ragione. Ma dobbiamo anche
chinarci sulle paure e le inquietudini dei nostri paesi. Sbagliate?
Diciamolo. Ma non ignoriamo le preoccupazioni degli anziani, delle
persone sole, dei sindaci che ricevono l’ordine dal prefetto di ospitare
una dozzina di profughi, poi lo Stato si ritira e con la gente devono
vedersela loro, e sono soli».
Eccola la strada dell’inquietudine
di Monfalcone, via Sant’Ambrogio: osterie giuliane e botteghe
tradizionali sono scomparse, i vecchi abitanti se ne sono andati, i
trecento metri pedonali sono tutti delle famiglie bengalesi con i loro
negozi e con le donne dal volto velato e tra poco le luminarie e le
stelle di Natale incorniceranno
a festa le insegne straniere. Non
ci sono stati problemi evidenti, qui. Ma c’è una prima elementare tutta
di immigrati perché i genitori italiani hanno portato i figli nelle
scuole di paesi vicini per non affrontare la convivenza, dice Pietro
Comelli del Piccolo, ad agosto è morto annegato un pakistano di
venticinque anni che viveva accampato con altri profughi sulle rive
dell’Isonzo ed era entrato in acqua per lavarsi. La vera questione
riguarda il tessuto sociale che il monfalconese anziano non riconosce
più. E poi si aggiunge il rapporto di odio-amore con Fincantieri che ha
assicurato lavoro a generazioni e oggi assicura la sopravvivenza degli
stranieri, mentre molti ragazzi del posto sono disoccupati. Concorrenza
sul lavoro, rivalità intorno a un welfare che si riduce sempre più,
spaesamento dei luoghi, nel timore di perdere identità, di smarrire il
filo di esperienze condivise. Sono le paure che gonfiano il Nordest,
scese fino al delta del Po con la protesta di Gorino e dei suoi
pescatori di vongole per le dodici donne immigrate inviate dal prefetto e
bloccate per strada. “Qui non c’è niente nemmeno per noi”, gridavano i
dimostranti dietro i blocchi stradali, “che vengono a fare?”.
Un
pezzo di Nordest (e anche di sinistra) si accontenta di non vederli,
come se questo fosse il problema. A Trieste il tabù riguarda il vecchio
silos, l’ex granaio della Coop vicino alla stazione. La città non è
affatto in emergenza, ospita ottocento migranti in piccole case-famiglia
gestite dalla Caritas o dal consorzio di solidarietà. Ma quando le case
sono piene, come adesso, gli immigrati finiscono vicino alla stazione,
occupano l’ingresso del Porto Vecchio e quando i vigili li fanno
sgomberare vanno a dormire nel silos, svuotato due volte, con
trentacinque denunciati, fino a diventare il luogo simbolo
dell’immigrazione. Adesso il sindaco Dipiazza ha deciso di non pagare
più i duecentocinquantamila euro l’anno che il Comune spende per i
minori senza famiglia, ospitati nell’ostello vicino al castello di
Miramare, e la Lega ha alzato i toni nell’ultima campagna elettorale:
anche in una città multietnica e multiculturale come Trieste che perde
qualcosa come mille abitanti all’anno e nel 2014 ha visto emigrare
all’estero sette dei suoi ragazzi su mille. Silenziosamente. Finché il
silenzio si rompe e Beppe Sala, sindaco di Milano, chiede l’esercito nel
quartiere multietnico di via Padova, “per non lasciare l’intera
questione in appalto alla destra”.
Il populismo
Per la
destra la presenza dei profughi è fisica e fantasmatica insieme, e il
corpo del profugo diventa immediatamente propaganda perché parla da solo
con il colore della pelle, la sua disperazione, la sua diversità, i
segni dell’apocalisse che si porta addosso. La riduzione del migrante a
puro corpo, pura quantità, presenza materiale d’ingombro, nuda esistenza
che chiede di continuare a vivere ha qualcosa di sacrilego e di
estremo, perché mette fuori gioco la politica, abituata a occuparsi di
persone, di cittadini con diritti e doveri. E infatti le risposte sono
tutte fisiche, materiali: ruspe, muri, respingimenti, fili spinati. Ma
la sinistra sente che mentre la destra sceglie di vendersi l’anima
commerciando con le paure lei, proprio lei e lei soltanto, è dentro una
grande tenaglia. Ha il dovere democratico di rispondere con umanità e
solidarietà a chi chiede soltanto libertà e sopravvivenza, e ha
contemporaneamente il dovere opposto di rispondere al riflesso di
insicurezza che attraversa la fascia più debole delle nostre
popolazioni, uomini e donne anziani, soli, che vivono nei piccoli
centri, non sono mai usciti dai confini del Paese e adesso quando vanno
coi nipotini al giardinetto si trovano il mondo rovesciato sotto casa.
Queste persone chiedono rassicurazione. Se non la ricevono dallo Stato,
la cercano quasi naturalmente nell’antistato dei venditori di paura.
Potremmo dire che il conflitto sospeso sopra i nostri paesi è tra gli
ultimi e i penultimi.
È una tenaglia infernale per la sinistra,
costretta a portare per intero il peso e la contraddizione della
democrazia occidentale: tradisce se stessa se chiude gli occhi davanti
al corpo nudo del migrante che chiede di vivere, qualcosa di sacro che
arriva a noi dal profondo dei secoli; ma tradisce nello stesso tempo i
cittadini se si tappa le orecchie davanti alla loro richiesta di
sicurezza, che è alla base del patto di rappresentanza e di sovranità
moderna. La sinistra è investita pienamente perché la destra si chiama
fuori, si chiama contro. E anche perché questa è la prova della tenuta
dei valori democratici dell’Occidente che oggi sono la sua carta dei
valori e entrano in tensione, al bivio come sono tra l’universalità con
cui li professiamo in astratto e la parzialità con cui li pratichiamo,
consumandoli principalmente per noi stessi.
Recuperato dal
primordiale, riviviamo il confronto-scontro tra i cittadini del mondo e i
dannati della Terra, con i primi che troppo spesso pensano di poter
fare a meno dei secondi, non vogliono vederli e scelgono il “bando” come
unica politica. E la sinistra, che fa? «Prima facciamo, poi
teorizziamo», dice Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa. «Altrimenti ci
spaventeremmo e finiremmo paralizzati davanti all’emergenza. Le cifre
dicono che la nostra è una follia. Siamo l’isola più lontana
dall’Italia, venti chilometri quadrati, seimila abitanti, l’acqua che
fino a due anni fa arrivava solo con la cisterna, nemmeno un ospedale,
solo l’elicottero del 118. Quando ti arrivano settecento profughi,
all’epoca delle primavere arabe venticinquemila tunisini, raccogli in
acqua dovunque gente nuda senza niente, quasi morta, che grida verso di
te, allora ti ricordi che siamo gente di mare e la comunità sostituisce
lo Stato. È andata proprio così. Un po’ di incoscienza, un po’ di
coraggio, la natura della nostra gente ha fatto il resto. L’idea
dell’invasione è una creatura della politica, sono muri, fili spinati,
cancelli che danno l’idea di assedio. Rinchiudono nell’ansia chi li
costruisce. Se governi questi fenomeni con la tua gente, spieghi che
sono un prodotto della storia che può essere gestito, tagli le gambe
alla paura e puoi farcela. Guardi qui: Lampedusa poteva finire dannata, e
invece ha guadagnato in reputazione per la sua accoglienza, ha
migliorato i servizi sanitari e sa una cosa? Quest’anno il turismo è
cresciuto del trentadue per cento».
Con Laura Montanari arriviamo
in Toscana cercando un’altra strada della metamorfosi italiana. Via
Pistoiese a Prato è una linea retta che va da Porta San Domenico, non
lontano dal vecchio ospedale dismesso, verso la periferia. È l’asse
portante e il cuore di Chinatown, una sventagliata di case basse senza
palazzoni, negozi e laboratori che formano il distretto tessile,
cresciuto dentro le vecchie fabbriche. Oggi la via è fatta di
rosticcerie, supermercati etnici, agenzie di viaggi, naturalmente
capannoni, negozi di parrucchieri e di massaggi, slot machine,
laboratori pronto-moda e ristoranti, tutti con le insegne in doppia
lingua, italiana e cinese: “Whezou”, “Zheng Shi Shou”, “Ciao”, “Ravioli
Liu”. Corrono auto di grossa cilindrata tra le biciclette e i
furgoncini, tra gli aromi di spezie orientali e di fritto, gli
ideogrammi verniciati sui capannoni, il rumore delle macchine
taglia-e-cuci che va avanti fino a tardi di sera, anche oggi che è
domenica.
È un circuito chiuso, le stoffe provengono direttamente
dalla Cina, magliette, cappotti, camicie e vestiti finiscono in buona
parte sui banchi ai mercati, gli ambulanti che vendono ai cinesi gli
ortaggi li hanno comprati da contadini cinesi che affittano i campi
nella piana di Prato. Circuito chiuso, irregolarità, sfruttamento,
concorrenza. Come si governa questa vecchia immigrazione che crea un
mondo parallelo e separato, con trentacinquemila abitanti nati fuori
Prato su centonovantamila e con diciottomila cinesi ufficiali (più
almeno dodicimila irregolari) e insomma la più grande comunità cinese
d’Europa dopo Parigi, con la differenza che a Prato tutto è sotto gli
occhi di tutti?
Bisogna prima di tutto decidere che la sinistra
non può lavarsene le mani, e non deve, spiega Matteo Biffoni, sindaco di
Prato. «A Chinatown facciamo otto controlli al giorno, tutti i giorni,
perché questa cosa regge se monitoriamo la sicurezza nel lavoro e la
regolarità delle aziende, anche per garantire una concorrenza con i no-
stri imprenditori il più possibile corretta. Se la tua gente vede che
l’immigrazione è regolata, si incanala nel lavoro e nelle regole, non
nascono tensioni. Nel 2009 il Pd ha perso la città proprio sulla
questione cinese, nel 2014 l’abbiamo ripresa con questa politica. Ce la
stiamo facendo. Ma quando il prefetto ti scarica un gruppo di migranti
in piazza e ti dice pensaci tu, nascono i problemi, perché tutto passa
sulla testa dei sindaci e dei cittadini». Per questo Biffoni, che è
anche presidente dell’Anci toscana, ha scritto una lettera al governo
che dice calma, la nostra regione doveva prendere dodicimila migranti
nelle quote di ripartizione, ne ha già tredicimila, per il momento
fermiamoci e vada avanti qualcun altro. «Siamo di sinistra ma non siamo
ciechi», spiega il sindaco. «Dobbiamo salvare le persone, dar loro
accoglienza e lo facciamo, anzi il sistema toscano è tra i migliori, nei
Centri non entrano più di quattordici persone e il quartiere le
assorbe. Ma bisogna che i sindaci abbiano il potere di governare questa
emergenza senza subirla e bisogna che come noi tutte le regioni facciano
la loro parte prendendosi la loro quota, come si fa in un condominio.
Se no tutto diventa paura, e nella paura la sinistra perde la sua gente,
non la ritrova più. Io sono orgoglioso dell’accoglienza ai profughi del
mio Paese, Renzi ha ragione. Ma voglio che i cittadini siano orgogliosi
anche della sicurezza che dobbiamo garantire, guai se non pensiamo
anche a loro e non rispondiamo ai loro timori. Quelli li catturano, e
non li trovi più».
“QUELLI” SONO I POPULISTI, DI OGNI RAZZA. Hanno
semplificato la realtà man mano che per il cittadino si complicava,
offrendo un paradossale rifugio nella loro visione da fine del mondo.
Hanno ridotto la politica all’osso — tutti ladri, tutti corrotti, tutti
incapaci — schiacciandola su una visione unidimensionale. Hanno
cancellato qualsiasi intermediazione, illudendo il cittadino che ogni
governance si può fabbricare in casa, perché nel nuovo inizio non
occorre sapere, basta sostituire. Hanno annullato ogni deposito di
conoscenza, tecnica, esperienza, annunciando l’esperienza del trapianto
permanente di civiltà. Hanno schiacciato ogni distinzione, invitando a
fare di ogni erba un fascio, il mucchio selvaggio, perché tutti sono
compromessi solo per essere venuti prima e nessuno è quindi innocente.
Hanno scarnificato il linguaggio, rifiutando ogni elaborazione, ogni
riflessione, ogni spiegazione, cercando il cortocircuito emotivo nel
rancore e nell’insofferenza. Hanno modificato un costume politico,
attaccando le persone per le loro caratteristiche fisiche pensando che
siano difetti e che come tali vadano additati al pubblico ludibrio.
Hanno puntato sulle sensazioni più che sulle cognizioni, trasportando in
politica la cifra dei social network, dove un pensiero di
Habermas
e la battuta di un blogger sono condannati a vivere insieme il resto
dei loro giorni, senza un segno distintivo che li separi, li
gerarchizzi, avverta almeno di maneggiare con cura. Anzi, per la
politica odierna Habermas si può buttare, è sterile, complesso e
deperibile. La battuta no, va salvata: oggi ha mercato, è poco
impegnativa ma cavalca tra i follower. È ciò che funziona.
La
sinistra è naturalmente spiazzata. Ha passato il secolo cercando di
coniugare il sapere con la politica per realizzare l’emancipazione dei
più deboli attraverso la conoscenza, l’esperienza collettiva, la
condivisione di un’avventura civile pedagogica per tutti. “Istruitevi,
perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”, diceva il motto
gramsciano dell’Ordine
Nuovo.
Non è soltanto un giro
retorico che si smarrisce, un’espressione del pensiero. È la forma della
politica come cultura, dunque come conquista e sperimentazione del
sapere, la sua dimensione più profonda, ciò che resta perché è ciò che
dura, in quanto è ciò che vale. Il riconoscimento di un deposito
culturale e di un orizzonte valoriale, che àncora le generazioni e crea
una traccia che dura nel tempo.
Il populismo crede invece nella
cabala dello zero. Zero compromessi, zero intese, zero pazienza, zero
attese. Tutto ciò di cui è fatta la politica viene smontato e
centrifugato nell’opposizione a tutto ciò che veniva prima del
populismo. Persone, funzioni e istituzioni vanno insieme demoliti,
perché manca la coscienza che dietro di loro ci sono storie, tradizioni,
passioni insieme con gli errori, cioè tutto quello che fa muovere le
bandiere della politica, insieme con i valori e con gli interessi
legittimi da tutelare: e infatti da noi (con partiti che sono nati tutti
mercoledì scorso) le bandiere politiche sono flosce perché non c’è
vento, come sulla Luna.
Naturalmente se il populismo prospera è
perché i tempi sono propizi. Gli errori evidenti della politica,
l’inefficienza delle istituzioni, la corruzione sovrana gli hanno
spianato la strada. La dimensione dei problemi (la più lunga crisi
economica del secolo, l’assalto dello jihadismo islamista omicida,
l’ondata migratoria) sovrasta ogni dimensione di governo tradizionale e
annichilisce il cittadino, dandogli l’impressione che il mondo sia fuori
controllo e che qualunque pretesa di governance sia inadeguata. In
questa alba da
day after,
in cui tutto però deve ancora
accadere, il cittadino si sente esposto e dunque cerca di scambiare quel
poco di politica che incontra con quel molto di paura che cresce in
lui. Scambio illusorio ma confortevole. Il populista ha ricette per ogni
paura. Basta dare un calcio al sistema.
Il fatto è che il sistema
non funziona per ragioni di spazio, di tempo, di luogo, tutte insieme:
perché il mercato è più largo della sovranità, la società vive nel tempo
reale e la politica coi suoi meccanismi decisionali e la regola della
maggioranza si muove nel tempo differito, perché i giovani abitano nella
rete virtuale e la politica nella rete territoriale, con incursioni
continue nel vintage televisivo che sembrano sempre più
auto-rassicurazioni di esistere, in un gioco di specchi appannati.
Gli sceriffi
In
più il populismo, radendo al suolo il passato, crea un suo tempo
“anti-genealogico” senza eredità, senza trasmissione, senza passaggio
generazionale: senza il senso della storia, potremmo dire, inclinandola
tutta sull’anno zero, in quello che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk
nel suo ultimo libro chiama l’”iper-presentismo”.
Tempo perfetto
per il populismo dove tutto è estemporaneità, interpretazione, con la
politica ridotta a performance e la rappresentanza sostituita dalla
rappresentazione.
UN TEMPO MALEDETTO PER LA SINISTRA,
come
l’abbiamo conosciuta. E se invece cambiasse? Se invece di arginare il
populismo cedesse alla tentazione e addentasse l’ultima mela che come
sappiamo ha due facce, una di destra e una simmetrica, o almeno
mimetica? A ben guardare, forse è già successo. Al Sud la pianta
rachitica della sinistra ha avuto un innesto con una cultura
leaderistica, personale, autonoma che l’ha portata a vincere e poi ha
attecchito ramificandosi come un rampicante dovunque, a Palermo con il
sindaco Leoluca Orlando e con il governatore Rosario Crocetta, a Bari
con il presidente della Regione Michele Emiliano, a Napoli con un’altra
coppia di governatore e sindaco, Vincenzo De Luca e Luigi de Magistris.
Come
chiamarli, cos’hanno in comune oltre alla capacità di acchiappare voti e
di governare? “Sceriffi”. L’immagine mi viene in mente mentre con
Conchita Sannino percorriamo quel chilometro di cubetti di pietra
lavica, quei 1100 metri del potere che a Napoli separano Palazzo Santa
Lucia, sede della Regione, da Palazzo San Giacomo, il Municipio,
fermandoci proprio nel luogo delle antiche sfide elettorali, piazza
Plebiscito. Sceriffi: sono soggetti alla legge generale della sinistra —
ammesso che ce ne sia una — ma in città e in regione conta solo la
legge della loro stella di latta, che indica un potere sempre più
autoreferenziale, nato nel Pd ma poi cresciuto e confiscato in autorità
personale, conosciuto e rispettato in tutto il territorio, al punto da
diventare polemico con Roma, col governo, col partito, tracciando
un’altra linea rossa, tra gli sceriffoni e il Pd.
De Luca,
magniloquente nella sua perfidia chirurgica, ha trasformato un feudo in
un principato, trasferendo il potere che si era costruito dopo vent’anni
da sindaco di Salerno in comando su tutta la regione, senza perdere
naturalmente il controllo sulla città: dove da quando Lucio Dalla finì
l’ultimo concerto della sua campagna elettorale cantando
Attenti al lupo,
tutti
lo chiamano a mezza voce così, perché azzanna: “il lupo”. Credo non gli
dispiaccia, visto il carattere e la ferocia con cui è saltato addosso a
Rosy Bindi nell’ultimo furioso attacco. Intanto è stato eletto con
987mila voti e rotti, arrivando al 41,15 per cento, incrociando gli
elettori di sinistra con quelli di Cosentino e Verdini, e con i
demitiani. Poi ha fatto eleggere a Salerno il suo ex vice, Vincenzo
Napoli, e quello gli ha nominato il figlio assessore al Bilancio. Quindi
si è fatto allestire gli studi di Lira Tv nel palazzo del Genio Civile,
e dagli schermi mette a posto tutti: il “finto ambientalismo”, la
“palude burocratica”, la “sottocultura che mummifica il territorio”, la
“volgarità politica”, la “cafoneria istituzionale”, le “nullità
amministrative”, i “dieci pinguini che pensano di far cultura vedendosi
in un salotto”.
Lupi e pinguini in lotta alla Regione, il “Che” in
municipio. Poi non dovremmo parlare di populismo? “Che Guevara” è
l’autodefinizione che de Magistris dà di se stesso nei suoi fluviali
post su Facebook, soprattutto quando nel giugno scorso andava a caccia
dei 186mila voti poi raccolti in una città dall’astensionismo record,
arrivando al 66,85 per cento al ballottaggio. Il suo è un populismo
lirico (“Napoli stupenda e magica, intrisa di umanità, ricca di popolo
di tutto il mondo, Napoli amore mio”) e insieme di guerra, che ha scelto
Renzi come nemico: “Premier, devi avere paura, Napoli deve tornare
capitale, Granducato di Toscana dietro, Napoli davanti”. Guerra e
lirismo si fondono nel gran finale: “Renzi, ti devi cagare sotto”.
La
sinistra che c’entra? Intanto questa è una sua mutazione, e con
gradazioni diverse gira per tutto il Sud. E poi a Napoli la sinistra
tradizionale è ai minimi storici, col Pd all’undici per cento. Quei
video coi voti per le primarie pagati in alcune periferie bruciano
ancora sulla pelle del partito, e spiegano tante cose. Da Roma, sulla
spinta della vergogna più ancora che della sconfitta, avevano promesso
di scendere a Napoli con il lanciafiamme contro le vecchie abitudini di
malaffare e i giochi eterni delle correnti. Battuto ma sornione, Antonio
Bassolino scuote la testa: «Non si è visto neanche un fiammifero».
Il
filo che unisce il populismo antico e residuale, ma tutto politico, a
rete, di Leoluca Orlando, quello morbido e avvolgente di Rosario
Crocetta (con il “Megafono” suo partito-persona) ai populismi di
sinistra napoletano e pugliese va cercato nel lamento-orgoglio di un Sud
che si sente abbandonato ma nello stesso tempo magnifica il suo “far da
solo”, nel personalismo più o meno carismatico delle leadership, come
se lo stesso Sud fosse condannato a radunare nella Guida politica quelle
qualità di admiratio, mysterium tremendum, fascinans
con cui,
come spiega Francesco Paolo de Ceglia nel suo libro appena uscito su San
Gennaro, si celebrava fin dai primi secoli il miracolo ricorrente e
rassicurante, o almeno il prodigio, dentro una regola comunque
taumaturgica.
Sarà per questo che Michele Emiliano non vuol sentir
parlare di populismo. «Io populista?», ringhia nel suo ufficio sul
lungomare di Bari, tra il palazzo della Provincia e il comando
aeronautico del Sud. «Balle, mi sento un vero riformista, fino al
midollo. Tutti pensano che io sia un’altra cosa, mentre io sono
semplicemente quel che appaio, anche troppo». La verità è che Emiliano è
un pensiero autonomo, una prassi personale, un potere indipendente. È
stato dalemiano — proviamo a ragionare con Giuliano Foschini — ha votato
Bersani e poi Renzi, ma alla fine è rimasto sempre fedele alla persona
di cui si fida di più, se stesso. La costruzione populista, corretta Pd,
nasce da lontano, nel 2009, quando da segretario del partito che corre
per la rielezione a sindaco forma due liste civiche che raccolgono oltre
33mila voti contro i 30mila dei democratici, con la sua tecnica di
farsi opposizione a tutto, a qualsiasi potere costituito, anche al
partito che dirige in Puglia.
Adesso l’ultima fiammata
d’opposizione, contro Renzi, rischia di dividere il governatore dal
sindaco, il suo “gemello” politico Antonio Decaro, che invece sostiene
il premier e il “Sì” al referendum mentre Emiliano naturalmente è per il
“No”.
«Siamo amici, non esistono due Pd a Bari», garantisce il
sindaco. «Non sarà un referendum a separarci con tutto quello che ci
unisce», conferma il governatore. «Le parrocchie, le associazioni, la
strada, le migliaia di persone che ci hanno consentito questa doppia
spallata nella capitale della destra. Dicono che sono un potere autonomo
perché devo dir grazie a loro, tutti, ma nemmeno a un potente.
Piantiamola con le definizioni a sinistra. Se al sacrario militare il 4
novembre quattrocentoquaranta bambini mi abbracciano non è populismo, è
perché mi vogliono bene, e mi vogliono bene perché rispondo a tutti, il
mio telefono è 335840227, lo scriva pure, lo conosce chiunque, è sempre
acceso anche di notte». Non sarà populista, il governatore, ma i veri
populisti se venissero a Bari potrebbero imparare qualcosa.
I fondatori
MA
QUELLI CHE HANNO FONDATO IL PD, che ne pensano, che idea di sinistra
hanno oggi? Ecco Walter Veltroni, il primo segretario: «La nascita del
Pd, che sarebbe dovuta avvenire dieci anni prima, sulla scia della
vittoria dell’Ulivo, per me doveva definire l’idea di una sinistra
uscita viva dalle macerie del Muro, ma che ora doveva declinare i suoi
valori in una società radicalmente mutata. Per me doveva essere sinistra
e sfuggire alle lusinghe dell’indistinto. Doveva esserlo nel senso alto
della parola: giustizia sociale, opportunità, diritti, legalità,
comunità, integrazione. Doveva essere innovatrice e mai conservatrice.
Una sfida interrotta, come tante, troppe, nella storia della sinistra
italiana. Sinistra, senza la quale — dobbiamo saperlo — le pulsioni
prodotte dalla crisi finiranno col travolgere la stessa democrazia».
Per
Dario Franceschini il Pd è nato «come compimento del percorso che ha
portato le culture progressiste del Paese, a cominciare dalla sinistra e
dai cattolici democratici, a incontrarsi prima nella stessa coalizione e
poi a confluire nello stesso partito. Questo basta a giustificare la
portata storica della nascita del Pd. La crisi di quest’ultima fase
nasce proprio dall’aver fatto riemergere uno scontro interno fisiologico
in ogni grande partito non sulla base delle diverse visioni del futuro
ma sulle provenienze, che le primarie sembravano aver rimescolato. Oggi
che il mondo sembra aver sostituito allo schema destra/sinistra lo
schema populismo/politica che taglia trasversalmente tutto, il Pd può
diventare l’aggregatore riformista di tutte le forze che rifiutano il
pericolo della scorciatoia populista e nazionalista».
Pierluigi
Bersani è convinto che «non può esistere in Italia, e soprattutto a
sinistra, un partito-cardine del sistema che non si metta al servizio di
qualcosa di più grande. E non possiamo non vedere che c’è un pezzo
della nostra storia, della nostra gente e della nostra stessa vita che
non si sente rappresentato oggi dal Pd. Bisogna pensare a un
centrosinistra largo, moderno, europeo, che abbia il perno nel Pd ma
sappia andare oltre, in modo da essere competitivo e sfidante nei
confronti dei Cinque Stelle e soprattutto alternativo alla destra.
Attenzione, perché la destra oggi è soltanto un sentimento, non
un’organizzazione strutturata, ma quel sentire aspetta solo un
catalizzatore per prendere forma politica. La destra non è nei partiti
attuali, ridotti: è in un’area che sta cercando se stessa. Anche il Pd
dev’essere capace di dar corpo a un’area che esiste intorno a noi, deve
sentirla, capirla e organizzarla. Partendo, come deve fare ogni
sinistra, dai temi dei diritti e del lavoro. Oggi più che mai».
Matteo
Renzi rivendica di aver favorito e accelerato la fine dell’era del
trattino tra “centro” e “sinistra”, «quando non si poteva pronunciare la
parola sinistra senza premettere qualche prefisso per attenuarla, quasi
a prendere le distanze. Ho sempre rivendicato con fierezza
l’appartenenza del Pd alla sinistra, alla sua storia, la sua identità
plurale, le sue culture, le sue radici. Per questo ho spinto al massimo
perché il Pd dopo anni di dibattito fosse collocato in Europa dove
adesso è, dentro la famiglia socialista della quale oggi è il primo
partito. Questo per dire che il Pd sa da che parte stare. Dalla parte
dei più deboli, dalla parte della speranza e della fiducia in un futuro
che va costruito insieme. Quella del Pd è una sfida plurale, un progetto
condiviso da milioni di persone ed è per questo che non possiamo
permetterci di restare fermi a un passato glorioso, ma dobbiamo
rivitalizzarlo ogni giorno cambiando. La nostra idea di sinistra sta in
parole che producono fatti. Perché il tempo delle parole — giuste o
sbagliate — slegate dai fatti, è un tempo che dobbiamo lasciarci alle
spalle per sempre».
Il lavoro
NEL GRANDE DISINCANTO
REPUBBLICANO, in quella che i francesi chiamano “la grande fatica della
democrazia”, torna al centro, irrisolta e drammatica, la questione del
lavoro. La crisi della sinistra sta in gran parte qui e si capisce
perché andando a Milano da Giuseppe Berta, storico dell’industria.
«Molto semplicemente», spiega, «è il lavoro che ha creato la sinistra,
le ha dato espressione, interpretazione, forza di rappresentanza. Oggi è
come se stesse passando un colpo di spugna su tutto questo. La grande
fabbrica dove la classe operaia era centrale e consapevole di sé,
riconosciuta dalla politica e dalla società, ormai quando va bene ha
qualche migliaio di addetti. Tutte così, la Dalmine, la Pirelli, la
Maserati che adesso si fa a Grugliasco, mentre a Mirafiori — un simbolo
più che un posto — lavorano quattromila persone, meno di un decimo
dell’impianto storico».
Qui il lavoro che resiste sta cambiando e
nessuno se ne accorge, dunque il cambiamento non ha valore. Dice Berta
che in un’officina Finmeccanica al Sud c’è un operaio che maneggia un
mandrino che vale decine di milioni, e lo fa ogni giorno, fuori da ogni
rapporto tra salario, livello, ruolo e responsabilità. Bisognerebbe
muoversi con cura e con sapienza in mezzo a ciò che resta del vecchio
concetto indistinto di “lavoro”, scoprire anche qui le aree di “lavoro
4.0”, capire quel che sta nascendo in termini di competenza e
intelligenza negli spazi tecnologici più complessi di ciò che chiamiamo
fabbrica, arrivare a un’individuazione di qualità nuove, di
qualificazioni sorprendenti, di responsabilità fino a ieri impensabili.
Valorizzando queste isole di lavoro intelligente, scongelando il pregio
della prestazione che c’è dentro, si creerebbe un nuovo tipo di made in
Italy della produzione, della cultura materiale e intellettuale del
fare, che pure fa parte in forme diverse della nostra storia.
Crescono
gli elettori che si dichiarano di sinistra (17 per cento), la stessa
percentuale si definisce di centrosinistra: ma il problema sono i
giovani, attratti da Grillo e dall’antipolitica. I riformisti sono
sempre più anziani
Il sentimento
AQUESTO PUNTO HO CHIESTO AL
GRAN DIAGNOSTICO d’Italia, Ilvo Diamanti, di misurare il sentimento di
sinistra degli italiani. Qualcosa di immateriale ma qualcosa di
indispensabile, una natura, un carattere, un mix di testa e cuore. Dice
Ilvo che quel sentimento è piuttosto diffuso nel Paese disorientato:
potremmo dire che è vagante. Oggi in Italia si definisce di sinistra
circa il 17 per cento dei cittadini, altrettanti si dicono di
centrosinistra. Nel 2012 l’anima di centrosinistra prevaleva per quattro
punti, arrivava al 18 per cento contro il 14. La crisi dunque opera
anche sul sentimento, radicalizzandolo, e aprendo uno spazio a sinistra,
chissà se di speranza o di disperazione. Tutte e due le tendenze
portano il sentimento dentro il Pd e sulle forze-debolezze alla sua
sinistra. Nel Pd il 48 per cento si considera di centrosinistra, tra gli
elettori di Sel il 68 per cento si qualifica di sinistra. Poi c’è la
vela acchiappavento dei Cinque Stelle, che io considero sinistra
mimetica, nel senso che il gruppo dirigente usa modi, linguaggi e
cornici politiche di sinistra riempite di contenuti populisti, in
qualche caso di destra (sui migranti, sull’Europa, sulle istituzioni),
comunque ambigui. Per gli elettori grillini, a differenza del vertice,
l’ancoraggio a sinistra esiste, perché il 19 per cento si dichiara di
sinistra, il 16 di centrosinistra anche se ormai la massa ha mollato gli
ormeggi e il 42 per cento rifiuta di collocarsi in questo spazio,
scegliendo l’antipolitica come unica dimensione. Sono quelli che Ilvo
chiama gli “esterni”.
La frattura è per classi di età. Gli
orientamenti di sinistra sono infatti più fragili tra i più giovani,
dove l’opinione progressista è più debole di tre, quattro punti
percentuali. Un sentimento anziano, dunque, che sta cambiando base
sociale, con gli operai che diminuiscono di numero e guardano spesso
altrove, mentre si avvicina il ceto medio intellettuale, il settore
pubblico. «Tuttavia», spiega Diamanti, «stare a sinistra ha ancora un
senso, perché dà significato all’azione sociale e all’impegno personale.
Infatti il 60 per cento di chi si posiziona a sinistra manifesta un
grande interesse verso la politica, il 20 per cento più della media
italiana, e ha un tasso di partecipazione alla vicenda pubblica che è il
doppio del Paese».
Non siamo dunque al ground zero raccontato da
Zoro, quando parla di “fighetti con tanti follower, democristiani
rampanti con tanti voti, nostalgici con tante salcicce da abbrustolire,
opinionisti con tante poltrone in tivù”. C’è in giro anche la voglia di
custodire il sacro fuoco, senza lasciarlo spegnere. Dove lo trovate un
pescivendolo come Salvatore Canu di Genova? Nella pescheria ai Macelli
di Soziglia, sotto via Aurea, in mezzo ai baccalà di Norvegia ha appeso
alle piastrelle bianche sul muro di sinistra i nomi dei padri
costituenti su un foglio, in stampatello, e degli autori della riforma
su un altro «perché la gente confronti, s’informi, sappia». Una sinistra
allo stoccafisso. E a Roma una sinistra-tramezzino, perché quando hanno
chiuso la sezione Mazzini del Pd (dove abitavano anche Uil e Spi Cgil,
un tempo persino i Comunisti italiani) per un po’ le riunioni si sono
fatte a casa della segretaria Susanna Mazzà, in via Montezebio
d’inverno, e d’estate si tenevano all’aperto proprio qui, nello spiazzo
verde di via Sabotino di fianco alla pasticceria Antonini, che propone
trenta tipi diversi di cornetti ogni mattina, mignon salati tutto il
giorno e anche la torta “Cannonata”.
A Milano il referendum ha
addirittura fatto saltar fuori gli ex Sessantottini, naturalmente divisi
tra il “Sì” e il “No” facendo riferimento alla stessa esperienza per
legittimare due scelte opposte. I primi dicono di aver appreso da quegli
anni «che la democrazia non è solo rappresentanza ma anche governo, non
è solo popolo ma anche istituzioni». I secondi ribattono spiegando di
sapere benissimo che tutto è cambiato: «non tentiamo la scalata al cielo
ma non ci rassegniamo, non accettiamo le ingiustizie, crediamo nei
valori della Costituzione». A Bologna Franco Cima, presidente
dell’Unione dei circoli, dice che se si organizza un’assemblea per il
“Sì” e per il “No” la gente si prende a cazzotti, e invece bisogna
guardare al 5 dicembre, perché quel giorno sorgerà ancora il sole e non
ci si può trovare con il partito spaccato.
Forse proprio a Bologna
era finita la vecchia sinistra senza saperlo, ma non alla Bolognina,
prima, quando il gruppo punk-emiliano CCCP-Fedeli alla linea
sghignazzava sulle sacre origini cantando in Ortodossia le lodi
all’Emilia, “la più filosovietica tra le province dell’impero americano”
e con il “Cernenko Party” sfotteva la nostalgia: “Voglio un piano
quinquennale/voglio la stabilità”. È degli stessi anni un ammonimento di
Luciano Lama che vale anche per oggi: “Non sta scritto da nessuna
parte, in nessun libro di storia che la sinistra debba rappresentare per
l’eternità un terzo dei cittadini. Se non capiremo che il modo di
cambiare la società in Occidente oggi è uno solo, e per la sinistra si
chiama riformismo, ebbene le nostre radici non basteranno da sole a
garantirci”. Ricordo Norberto Bobbio che ascoltava, annuiva e quando il
convegno sulla sinistra finì prese il microfono nella sala piena, a
Roma, dicendo una frase soltanto: “La cosa c’è”.
Cosa aggiungere?
Forse le parole di Massimo Bucchi, che da anni tengo inquadrate davanti a
me. “Io non credo più nella sinistra”, si lamenta nella vignetta l’uomo
con il cappello. “Zitto”, risponde la donna al suo fianco, “e se poi
esiste?”.