martedì 8 novembre 2016

Repubblica 8.11.16
Il pm Di Matteo resta a Palermo “Andare via sarebbe una resa”
Il magistrato minacciato dalla mafia rifiuta il trasferimento offerto dal Csm per motivi di sicurezza
di Salvo Palazzolo


«Quella di Di Matteo è una situazione che ci dà molta preoccupazione», dice la presidente della terza commissione del Csm, Elisabetta Alberti Casellati, al termine dell’audizione. «Per questo che lo abbiamo ascoltato due volte in venti giorni, perché riflettesse su questa pericolosità alta. Anche oggi abbiamo ribadito la nostra preoccupazione ».

PALERMO. Al Csm hanno insistito: «C’è una situazione di pericolo a Palermo per lei, ci ripensi ». Nino Di Matteo ha risposto: «Accettare un trasferimento connesso esclusivamente a ragioni di sicurezza costituirebbe un segnale di resa personale e istituzionale che non intendo dare».
Il pubblico ministero del processo “trattativa Stato-mafia” resta a Palermo, non ha accettato la proposta del consiglio superiore della magistratura di un trasferimento «in via d’urgenza» a Roma, alla procura nazionale antimafia. «La mia aspirazione professionale di continuare a lavorare sulla criminalità organizzata andando alla Dna — dice al termine dell’audizione — si realizzerà eventualmente solo se e quando sarò nominato in esito a una ordinaria procedura concorsuale». La domanda per la procura nazionale Di Matteo l’ha già presentata, adesso aspetta l’esito del concorso per i quattro posti messi a bando, il Csm potrebbe decidere anche a breve. Ma niente è scontato, l’anno scorso il magistrato è stato bocciato per la Dna, ha fatto pure ricorso al Tar. Intanto, non fa più parte del pool antimafia, da sei anni il suo incarico è scaduto, così quando non si occupa della “trattativa” segue i processi su verande abusive e ciclomotori rubati.
Dice: «In alcuni momenti ho avuto la sensazione di un isolamento istituzionale, alcune istituzioni non mi sono state vicine come mi sarei aspettato. Al contrario di tantissimi giovani che mi hanno dimostrato solidarietà e vicinanza. La loro voglia di verità e di giustizia è un fatto importante».
Ora, la decisione di restare a Palermo. «Una decisione molto sofferta», non nasconde. La nuova allerta era scattata un mese fa, quando un’intercettazione dei carabinieri aveva sorpreso un boss di Palermo mentre rimproverava la moglie, perché sua madre aveva accompagnato la figlioletta al circolo sportivo frequentato dal magistrato. «È certo che lo devono ammazzare», diceva il boss. Il procuratore capo Francesco Lo Voi aveva subito inviato l’intercettazione al Csm, che già aveva un fascicolo sul caso Di Matteo.
Tre anni fa, era stato il capo di Cosa nostra, Salvatore Riina, anche lui imputato del processo “trattativa”, a lanciare un ordine di morte nei confronti del pubblico ministero palermitano: «In aula mi guarda con gli occhi puntati così, e io pure — diceva il padrino al compagno di cella, il boss pugliese Alberto Lorusso — E allora organizziamola questa cosa, facciamola grossa e dico non ne parliamo più… Un’esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo». Dopo le parole di Riina, sono arrivate le rivelazioni del pentito Vito Galatolo: «Il tritolo per Di Matteo è già a Palermo», ha messo a verbale. Un’allerta che ha portato il Viminale a far scattare il primo livello di protezione, nella scorta (composta da quattro Jeep blindate) c’è anche il bomb jammer, un dispositivo antibomba che neutralizza i telecomandi.