Repubblica 26.11.16
Il fantasma del governo tecnico
di Francesco Manacorda
GOVERNO
tecnico, sentenzia duro l’Economist. I tecnici, evoca minaccioso Renzi,
mettendoli nella stessa frase con la palude e le sabbie mobili, e
assicurando la sua assoluta incompatibilità con tali repellenti figuri e
scenari. Esecutivo politico e non tecnico, tuona perfino Padoan,
lasciando ancora una volta di stucco chi credeva che proprio quel mite
economista con un passato all’Ocse fosse il Tecnico per eccellenza.
AVVIENE
insomma che nel gioco continuo eppure sempre ricorrente della politica —
un po’ come se fossimo sul tabellone del Monopoli — torni ancora una
volta lo spettro del governo tecnico. Agitato per l’appunto come
spauracchio aumentatasse dal premier che sarà forse costretto a
passargli la mano, ma immaginato da molti come l’unica soluzione
possibile a un dopo referendum dove vinca il no. Magari auspicato dai
mitici mercati, che parlerebbero appunto anche attraverso l’Economist e
similari. E apprezzato, anche se in silenzio, da quei circoli, specie
centro e nordeuropei, che vedrebbero assai meglio un’Italia responsabile
e silenziosa, impegnata a fare i compiti a casa di finanze pubbliche,
invece di quel primo ministro sempre un po’ sopra le righe che unisce
rivendicazioni condivisibili a dosi massicce di retorica antieuropea.
C’è
insomma chi si augura di rivedere a Palazzo Chigi un emulo di Ciampi,
Amato, Dini o Monti e chiede all’Italia di dedicarsi non tanto alla
riforma costituzionale, quanto alle riforme concrete che servono
all’economia, da quella della giustizia a quella della burocrazia.
Possibile
che dopo una sconfitta di Renzi al referendum questo avvenga, ma con un
panorama di fondo assai mutato. Chi ha guidato nei decenni passati
l’Italia da tecnico ha saputo spesso usare l’Europa come obiettivo o
sprone, contando appunto su quel vincolo esterno che tradizionalmente
serviva a far inghiottire a un elettorato ridotto sacrifici indigesti se
proposti solo a livello nazionale e a ridurre simmetricamente — “È
l’Europa che ce lo chiede” — le responsabilità della classe dirigente
locale. Ma quelle ricette amare dei tecnici che a volte sono state
indispensabili — è il caso delle riforme pensionistiche varate prima da
Dini e poi da Monti, che nonostante le numerosissime contestazioni hanno
introdotto elementi di equità tra generazioni — adesso rischiano di non
essere più legittimate nemmeno in Europa. Il semplice rigore sui conti
pubblici, senza un disegno per provare a uscire dalle secche infinite
della crisi, non va di moda al G7 e ha già meno adepti dalle parti di
Bruxelles; per non parlare degli Stati Uniti dove Trump rischia di
passare per il più keynesiano dei conservatori.
Più che di
tecnica, insomma, ci sarebbe bisogno di politica. Politica di sviluppo,
certamente, e con le poche risorse indirizzate in modo univoco verso la
crescita. Da questo punto di vista la disinvoltura di Renzi nel mixare
comprensibili rivendicazioni in sede europea con una gestione disinvolta
della finanza pubblica e un cocktail infinito di elargizioni in
classico stile preelettorale, non lo aiuta di certo a definire la sua
figura come quella di un politico riformista.
Forse, facendo così,
il premier aprirà davvero la strada a un successore tecnico che non si
scontri più con la Commissione su uno 0,1% di rapporto deficit/Pil. Ma
forse anche sul governo tecnico e sui suoi rapporti con Bruxelles è ora
di alzare lo sguardo dalle nostre vicende e guardarci un po’ attorno.
Proprio
ieri — è solo una coincidenza, ma davvero suggestiva — il presidente
della Bundesbank, ossia quanto di più ortodosso si possa immaginare
anche in Germania in termini di rigorismo sui bilanci pubblici, ha
chiesto di togliere alla Commissione europea il controllo sui conti
pubblici dei singoli Stati per affidarsi a un organismo tecnico. Il
motivo? La Commissione è troppo politicizzata — e dunque troppo morbida
con gli indisciplinati — e c’è bisogno di un organismo super partes che
giudichi con rigorosi criteri oggettivi. Attento tecnico, ci sarà sempre
qualcuno più tecnico di te.