Repubblica 1.11.16
Gli allievi di Machiavelli che capirono che cos’è il potere
La riscoperta di Guglielmo Ferrero e degli altri filosofi italiani realisti: luci e ombre di un pensiero forte
Guglielmo
Ferrero (1871-1942) è stato uno dei più importanti filosofi della
politica italiani Recentemente Castelvecchi ha ripubblicato il suo
Grandezza e decadenza di Roma
di Roberto Esposito
Circa
un secolo fa, il 29 agosto del 1914, nella classifica tra i dodici
libri più diffusi negli Stati Uniti, pubblicata dalla rivista “The
Bookman”, spiccava “Ancient Rome and Modern America” del filosofo
politico italiano Guglielmo Ferrero. In una fase in cui il pensiero
italiano raccoglie un interesse crescente, colpisce il successo precoce
di un autore oggi poco noto anche in Italia. Come ricorda Laura Ciglioni
in un saggio sulla fortuna americana di Ferrero (compreso in “Aspetti
del realismo politico italiano”, a cura di Lorella Cedroni, edito da
Aracne), non si trattò di un evento isolato. Pochi anni prima Ferrero
era stato invitato dal Presidente Theodore Roosevelt alla Casa Bianca
per una serie di conferenze al Lowell Institute di Boston, alla Columbia
e all’Università d Chicago, mentre i suoi scritti erano tradotti e
recensiti.
Del resto in un libro con lo stesso titolo ( Ancient
Rome and Modern America, Wiley-Blackwell) Margaret Malamud ha raccontato
come personaggi, eventi, immagini dell’antica Roma abbiano giocato un
ruolo fondamentale nel modo con cui gli americani hanno costruito la
propria identità. Si è trattato di qualcosa di più che una semplice moda
culturale. Le virtù civiche e i costumi della middle class, come anche i
parchi giochi di Coney Island, sono stati spesso modellati sulla falsa
riga della Roma repubblicana e imperiale, mentre rappresentazioni come
Ben- Hur e Gli ultimi giorni di Pompei lasciavano un segno profondo
nella mentalità americana. Ciò vale a spiegare in parte il successo di
un’opera di Ferrero, pure poco persuasiva sotto il profilo
storico-filologico, apparsa nel 1906 in cinque volumi, come Grandezza e
decadenza di Roma e ora finalmente ripubblicata da Castelvecchi. Essa
forniva una sorta di grande exemplum epocale di cui il nascente
imperialismo americano poteva riprodurre le conquiste. Ma queste
circostanze rendono ancora più singolare il cono d’ombra in cui è caduta
l’opera di Ferrero, e in generale il filone culturale del realismo
politico italiano, prima di questa recentissima riscoperta. Basta
prendere tra le mani quello che è forse il suo testo più brillante,
pubblicato nel 1942 in America col titolo francese Le pouvoir, edito
cinque anni dopo in Italia ( Potere, adesso da SugarCo, a cura di
Luciano Pellicani). Al suo centro il rapporto circolare tra paura e
potere, legati da un rapporto reciproco di causa ed effetto, espresso
dall’autore con parole che parlano all’attualità: «L’uomo vive al centro
di un sistema di terrori, in parte naturali, in parte creati da lui
stesso, veri e fittizi; questi ultimi più terribili dei veri. Il Potere è
la manifestazione suprema della paura che l’uomo fa a se stesso,
malgrado gli sforzi per liberarsene. È questo forse il segreto più
profondo e oscuro della storia».
Si pensi a quel potere letale
costituito dalle armi. Essendo l’unico essere vivente capace di
fabbricarle, l’uomo dovrebbe essere sicuro della propria forza,
possedendo il più dissuasivo dei mezzi di difesa. Ma l’arma è anche
mezzo di offesa. Così, quante più sono le armi in circolazione, tanto
più gli uomini hanno paura, cercando di procurarsi altre armi per
dominarla. E lo Stato, istituito dagli uomini per difenderli dalla paura
della morte violenta, non può perseguire il suo scopo che facendo a sua
volta paura — ai suoi cittadini come anche agli altri Stati.
Un
circuito infernale — si tenga presente l’anno di pubblicazione di
Potere, in piena guerra mondiale — che è difficile spezzare. Difficile,
ma non impossibile, se ci si affida ai «geni invisibili della città»,
come Ferrero definisce i principi di legittimità, sempre diversi, che
consentono, volta a volta, di governare la dialettica paura-potere.
Creando un ordine destinato, prima o poi, a essere anch’esso rovesciato
in un continuo susseguirsi di stabilità e conflitto. È il principio del
realismo politico che in Italia si trasmette dal pensiero di Machiavelli
a un gruppo di autori che vanno da Vilfredo Pareto a Gaetano Mosca, a
Giuseppe Rensi. Per tutti, pur con diversa intonazione, la democrazia
richiede un tasso non indifferente di autorità. Pur estranei al fascismo
o decisamente antifascisti, essi vanno alla ricerca di elementi
costanti, di carattere antropologico, nelle dinamiche politiche. Il
primo dei quali è appunto la lotta per il potere, che richiede
istituzioni capaci di garantirne la distribuzione in maniera equilibrata
tra le élite dominanti, destinate per forza di cose a governare la
maggioranza dei cittadini. A differenza di Mosca e Rensi — autore di un
libro che accentua il ruolo dell’autorità ( Autorità e libertà, del1926,
adesso riedito da Bibliopolis) — Ferrero condiziona il potere a un
consenso che viene dal basso.
Ma, nel complesso, l’intera scuola
del realismo politico italiano resta legata a una prospettiva
conservatrice, fortemente ostile a ogni filosofia del progresso. Come
spesso capita, tuttavia, proprio questa concezione ferreamente radicata
nei fatti, del tutto priva di slanci utopici, coglie elementi di realtà
che l’analista politico non può trascurare. A riprova della vitalità di
tale linea di pensiero, diversi dei suoi presupposti epistemologici
ritornano nella scuola realistica del secondo Novecento. In particolare
in due autori cui la Rivista di Politica, diretta da Alessandro Campi,
dedica una sezione del fascicolo 1/2015. Si tratta dell’americano, di
origini tedesche Reinhold Niebuhr e del tedesco, emigrato in America,
Hans J. Morgenthau. Per entrambi la scienza politica accademica, fondata
su presupposti scientisti e razionalisti (Ferrero ad esempio fu molto
influenzato dal positivismo meccanico di Cesare Lombroso, ci cui sposò
la figlia), non è in grado di dar conto della drammaticità della storia e
dell’ambiguità della natura umana.
Solamente se la politica si
emancipa da tali pretese di scientificità, per accostarsi a ciò che già
Machiavelli definiva arte, potrà afferrare qualcosa della contingenza e
dell’imprevedibilità dell’azione umana. Ciò non ha nulla a che vedere
con un arido cinismo. È anzi la condizione di un agire eticamente
orientato all’unico bene possibile in politica — il minor male. Per
comprendere come gli organismi politici si comportano nell’arena
internazionale, «sotto un cielo vuoto, dal quale anche gli dei sono
fuggiti” », come si esprime Morgenthau (in Politica tra le nazioni. La
lotta per il potere e la pace, il Mulino), bisogna superare le
illusioni, assumendo il lato tragico del Politico. Contro l’idea della
perfettibilità del genere umano, si deve riconoscere l’inevitabile
realtà degli interessi che dominano la vita politica. Solo conoscendoli
per quello che sono, si potrà cercare di orientarli, e talora anche di
fronteggiarli, in direzione di un interesse superiore.