Pagina
99 19.11.2016
fare
copia e incolla con la nostra memoria
di
Paolo Pontoniere
Ricerca
| Leggere i segnali
nell’encefalo di un topo. Memorizzarli
e
trasferirli su un altro animale. Per replicare ricordi
e
comportamenti. Qualche laboratorio ci sta provando. Viaggio ai
confini
delle neuroscienze. Tra visioni utopistiche e vaneggiamenti
SAN
FRANCISCO. «Stimolazione cerebrale », l’hanno definita i
ricercatori dello Hughes Research Laboratories di Malibu, in
California. Hanno messo un elmetto in testa ad alcuni volontari,
totalmente ignari di come si pilota un aereo, e li hanno addestrati
scaricando direttamente nel loro cervello alcune abilità
professionali copiandole direttamente dal cervello di un pilota
professionista. L’esperimento è riuscito – sostengono i
ricercatori che hanno pubblicato i risultato della loro
sperimentazione sulla rivista scientifica Frontiers in Human
Neuroscience. «Sembra fantascienza ma ci sono basi scientifiche
solide», ha spiegato Matthew Phillips, uno dei ricercatori.
«L’apprendimento di nuove conoscenze causa modifiche permanenti
nel cervello che creano nuove connessioni e nuove memorie. Si chiama
neuroplasticità. Il nostro sistema bersaglia le regioni cerebrali
dei volontari coinvolte nell’apprendimento provocando i cambiamenti
che abbiamo precedentemente registrato nel cervello del pilota».
Phillips ha certamente ragione almeno in una cosa. Sembra
fantascienza. E naturalmente il cronista che descrive queste ricerche
sospende il giudizio. Se non per notare che queste ricerche
appartengono a una visione utopistica del mondo high tech americano,
lo stesso che alla fine degli anni Sessanta ha portato alla creazione
di Internet e che oggi sta spingendo un imprenditore come Elon Musk,
fondatore di Tesla, a investire una parte cospicua del suo patrimonio
in un progetto per sbarcare su Marte immaginando un futuro in cui
quel pianeta sarà colonizzato. Ebbene, in alcuni laboratori degli
Stati Uniti si stanno sviluppando ricerche sul cervello permeate da
un’analoga cultura visionaria. Ma torniamo alle ricerche degli
Hughes Research Laboratories, che oggi appartengono alla General
Motors e alla Boeing, e che nel 1940 furono creati grazie ai fondi
del tycoon di Hollywood Howard Hughes. Phillips spiega che, dopo aver
studiato e copiato i processi elettrici che hanno luogo nel cervello
di un pilota, i ricercatori hanno trasmesso la sequenza elettrica
direttamente nel cervello dei volontari stimolando i punti giusti.
Sono gli stessi ricercatori a dire che, come spesso capita, il
sistema da loro ideato si ispira a esperienze che affondano le radici
nella storia. Precisamente in quelle dell’antico Egitto che circa
4000 anni fa usavano le scariche elettriche generate da anguille e
pesci gatto per curare il dolore e stimolare il pensiero. Il cervello
copia-incolla E mentre il laboratorio di Malibu studia i percorsi
elettrici del pensiero, a meno di un centinaio di chilometri di
distanza Theodore Berger, docente della University of Southern
California, e i suoi colleghi hanno usato i percorsi elettrici del
cervello per sviluppare una protesi – un microchip –
nell’ippocampo per trasferire l’apprendimento da persona a
persona. Dal 2015 il chip è in fase di sperimentazione clinica su
dodici pazienti affetti da epilessia. In questo caso il chip è stato
impiantato per controllare l’andamento degli attacchi, ma più in
generale viene proposto per il trattamento delle lesioni cerebrali ed
eventualmente per trasferire, scaricandole come se fossero dati da un
computer, ricordi e abilità o per ricostruire memorie perdute. «Un
ricordo è composto da una serie di impulsi elettrici generati da un
certo numero di neuroni in un dato lasso di tempo», afferma Berger.
«Si tratta di una scoperta importante perché suggerisce che
possiamo rappresentare il tutto con una equazione matematica e
inserirla in un sistema computazionale». Berger sostiene di essere
riuscito in questa impresa basandosi sulle equazioni sviluppate dal
matematico austriaco Kurt Gödel e riuscendo a trasformare i segnali
elettrici che si spostano tra le regioni Ca1 e Ca3 dell’ippocampo
in un’equazione che, inserita in un microchip, può essere
scaricata nel cervello di una persona per recuperare ricordi
dimenticati o insegnargli abilità nuove. L’ippocampo è la regione
del cervello che ha un ruolo importante nella memoria a lungo termine
e nella navigazione spaziale. Berger e i suoi colleghi sostengono di
essere riusciti a registrare la traiettoria elettrica generata dai
neuroni dell’ippocampo di alcuni topi di laboratorio i quali, per
ottenere una ricompensa (cibo), sono stati costretti a seguire un
determinato percorso. I ricercatori, dopo aver registrato le
variazioni avvenute nell’ippocampo, hanno somministrato ai topi un
farmaco per cancellare i loro ricordi. In questo modo erano incapaci
a ricordare il sentiero che conduceva alla ricompensa, ma tornavano a
percorrere il tragitto correttamente se venivano stimolati con la
registrazione neuronale realizzata in precedenza. I ricercatori
sostengono di essere riusciti non solo a ricostituire la memoria
nell’ippocampo delle cavie a cui era stata cancellata, ma anche a
trasferirla ad altri topi. Ripetuta con le scimmie, la procedura
sembra aver prodotto risultati identici. Sulle prove cliniche
effettuate su esseri umani i ricercatori non si sbottonano. Si
limitano a dichiarare che i risultati iniziali sono molto
incoraggianti. I risultati ottenuti da Berger e colleghi sono serviti
a convincere Bryan Johnson, amministratore delegato della Kernel –
un’azienda biotech per lo sviluppo dell’intelligenza umana di San
Diego –a investire 100 milioni di dollari nello sviluppo e nella
commercializzazione della loro scoperta. «Lo scopo del dispositivo
sarà quello di espandere e sviluppare le potenzialità della mente
umana», ha dichiarato Johnson, «esattamente come è avvenuto per
l'intelligenza artificiale in anni recenti». Captain Cyborg Anche
Kevin Warwick, docente di cibernetica alla University of Warwick in
Inghilterra, è convinto che quella del chip neuronale sia la strada
giusta per affrontare il problema della ricostruzione dei ricordi e
della stimolazione delle abilità professionali. Warwick viene
scherzosamente chiamato Capitan Cyborg da quando si è impiantato un
chip neuronale nel cervello (probabilmente è stato il primo al mondo
a farlo) e già nel 2002 lo ha usato per controllare un braccio
robotizzato che si trovava negli Stati Uniti mentre lui se ne stava a
Warwick. In un altro esperimento Warwick ha impiantato un chip simile
al suo nel cranio della moglie e lo ha utilizzato per condividere le
stesse sensazioni fisiche in tempo reale. Nikolas Badminton,
ricercatore e futurologo di Vancouver (Canada), sostiene che nei
prossimi anni – quando i prezzi caleranno – le protesi
elettroniche diventeranno di moda come i tatuaggi. Pur riconoscendo
che per ora si tratta di un’esperienza di frontiera, lui si è
fatto impiantare un chip nella mano per gestire la sua casa
digitalizzata. Un’antenna per i daltonici Le ricerche con le
protesi hanno anche ispirato esperienze artistiche di fusione uomo-
macchina. Neil Harbisson, inglese, cresciuto in Catalogna e residente
a New York, è nato daltonico. Così si è fatto impiantare sulla
testa un’antenna (collegata alla rete neuronale) che gli permette
di sentire e provare i colori. L’uso delle protesi cerebrali è
servito a stimolare una subcultura, quella dei Grinder (bio-hacker),
che cerca di preparare il mondo a un futuro trans-umano nel quale
persone e macchine si fonderanno (questa è la teoria del gruppo) per
far evolvere le capacità fisiche e mentali dell’umanità. Ma cosa
succede se queste protesi vengono utilizzate per collegare in rete
più cervelli o per permettere a un gruppo di individui di
collaborare? Miguel Nicolelis, ricercatore al Duke University Medical
Center, sostiene di aver collegato in rete diversi cervelli (va
precisato che Nicolelis non è un ciarlatano: a lui si deve
l’esoscheletro che alcuni mesi fa ha permesso a un paraplegico di
calciare la prima palla dei mondiali brasiliani). Sviluppatore di un
interfaccia che permette la comunicazione diretta cervello-cervello,
Nicolelis è riuscito a ottenere che dei topi si trasmettessero
pensieri ed esperienze a distanza. Poi ha messo in rete un gruppo di
primati che hanno collaborato (sempre a distanza, senza contatto
visivo) per realizzare un gioco di gruppo. «Dove ci porteranno
queste ricerche? Difficile dire – ha risposto Nicolelis – ma tra
qualche decennio, quando una madre sarà in grado di condividere la
sua vista col figlio nato cieco, o quando una persona muta sarà in
grado di parlare grazie a un bypass cervello-cervello che lo collega
a una persona in grado di parlare, allora qualcuno si ricorderà che
fummo noi, qui, a fare i primi passi». Telepatia e altre stranezze
Dunque, secondo questi ricercatori, siamo entrati in un mondo in cui
la telepatia è realtà. Vedremo. Ma ormai il termine telepatia
include ben altro che il semplice mind-melding (fusione mentale) di
Star Trek o esperienze di lettura del pensiero alla Professor X degli
X-Men della Marvel Comics. Le ricerche in corso riguardano quasi un
centinaio di sotto-settori sempre più surreali. Si spazia dalla
“telempatia” (l’abilità di comunicare attraverso le emozioni)
che appartiene al livello base; fino alla “panempatia”, cioè la
capacità di interpretare le emozioni di milioni di persone in solo
colpo, in pratica quello quello ha realizzato Donald Trump nelle
recenti elezioni Usa. Nel Livello Assoluto ci sarebbe infine (se
proprio vogliamo andare fino in fondo) la Mindscape Materialization,
cioè la capacità «di trasformare i propri pensieri e la propria
volontà in realtà». Cosa questa che invece Trump non riuscirà a
fare da presidente. Ma questa è un’altra storia, ed è davvero
fantascienza.
l
SCARICHIAMOCI LA MENTE
Benjamin
Franklin teorizzò la possibilità di chiudersi in una botte di vino
e di uscirne un centinaio di anni dopo per osservare come era evoluta
la vita degli esseri umani. Franklin non era un ubriacone, ma formulò
la sua ipotesi partendo da un’osservazione empirica, almeno così
sostiene la leggenda. Durante un banchetto londinese, versando il
vino da una bottiglia vide uscire tre mosche, due delle quali, dopo
alcuni minuti, si ripresero e volarono via. Perché non andare in
letargo immergendosi in una botte per risvegliarsi, magari un po’
brillo, un paio di secoli dopo?, ipotizzò Franklin prendendola sullo
scherzo. I neuroscienziati Ken Hayworth e Randall Koene (della Brain
Preservation Foundation) hanno preso sul serio quell’idea e hanno
lanciato un progetto (Upload My Mind) per fare l’upload dei propri
ricordi, delle conoscenze e della propria personalità e memorizzare
il tutto in un computer in grado di emulare i processi cerebrali. Il
progetto implica processi complicati (chi volesse approfondirli può
farlo sul web: www.brainpreservation.org) ma è venato dalla cultura
utopistica che spesso accompagna la cultura high tech americana:
improbabili risvegli, mondi futuribili, viaggi interplanetari,
immortalità. «Il cervello scaricato nel computer potrà imbarcarsi
in un viaggio di mille anni in cui personalità digitali e macchine
potranno fondersi per esplorare gli angoli più remoti dell’universo,
liberi di penetrare atmosfere aliene e ambiti che trascendono le
limitazioni biologiche », ha spiegato Koene che si è dottorato alla
McGill University in Canada e ha insegnato alla Boston University. Se
Franklyn fosse vivo aderirebbe certamente alla sua proposta. Altro
che botte di vino.
IL
SOLDATO TELEPATICO
Il
Darpa (Defense Advance Research Projects Agency) è un’agenzia del
Pentagono che – per statuto – si occupa delle ricerche per il
mondo di dopodomani. Fu lanciata alla fine degli anni Cinquanta, dopo
lo choc per il lancio del primo Sputnik russo nello spazio, per
garantire il primato scientifico degli Stati Uniti grazie alle
ricerche di punta finanziate dai militari. Da anni il Darpa è
impegnato in studi sul “soldato del futuro” che tra l’altro
dovrà essere in grado di dare ordini ai sistemi d’arma solo per
mezzo del pensiero. Non stupisce, quindi, che quest’anno siano
emersi dettagli su un nuovo sistema di interazione computer- cervello
progettato per aumentare le capacità intellettuali e fisiche degli
utenti sul campo di battaglia. Si chiama Cortical Modem ed è una
minuscola protesi da impiantare nel cervello che – secondo Phillip
Alveda, direttore del Dipartimento di tecnologie biologiche del Darpa
– consente di “vedere” attraverso segnali trasmessi
direttamente alle cellule della retina. Alveda sostiene che nel breve
termine sarà possibile produrre un sistema ottico - dal costo di 10
dollari e dalle dimensioni di due monetine sovrapposte - in grado di
inviare immagini sulla retina senza bisogno di occhiali, elmetti o
altri tipi di display . Tutto – stando alle informazioni diffuse
dal Darpa – ruoterebbe intorno a un sensore ultraminiaturizzato
(battezzato stentrode) che combina le qualità di un’antenna con
quelle di uno stent simile a quelli usati generalmente per riaprire
le arterie otturate. Si tratta quindi di un modem neuronale (o
corticale) che permetterebbe ai soldati non solo di ricevere le
informazioni direttamente nel cervello ma anche di controllare le
macchine da guerra (perché con il Darpa sempre di guerra si parla)
con il pensiero e ai soldati di comunicare in modo telepatico senza
bisogno di vedersi o di utilizzare altri supporti tecnologici.