domenica 20 novembre 2016

Pagina 99 19.11.2016
Olio di palma
sbatti il mostro sul web
Storia di un sospetto diventato verità. Senza alcuna base scientifica
di Antonino Michienzi

Un orango morto nel rogo di una foresta del Kutai National Park, nell’area indonesiana del Borneo. I denti serrati in una smorfia di dolore; mani e piedi contratti; la pelle lacerata dal fuoco. È adagiato su una fetta di pane, cosparsa di un qualcosa che sembra una crema di nocciola. È questa l’immagine che accompagna l’ultima petizione contro l’olio di palma che in questi giorni sta spopolando in Italia. A lanciarla su Change.org il deputato del Movimento 5 Stelle Mirko Busto. Il destinatario è Ferrero (#Ferrero- Ripensaci è il claim della campagna). La multinazionale è infatti l’ultima azienda rimasta in Italia a difendere chiaramente l’utilizzo dell’olio di palma nei propri prodotti..Nell’anno della Brexit e dell’elezione di Donald Trump, il Dizionario Oxford ha dichiarato il termine “post verità” parola dell’anno. E non per ritorsione contro i cittadini britannici e americani che hanno compiuto scelte che le élite considerano censurabili. Ma perché questo è avvenuto dopo due campagne elettorali funestate da una lunga serie di menzogne a cui l’ecosistema del web e dei social network ha garantito un effetto moltiplicatore senza precedenti. In questo numero di pagina99 ricostruiamo con una lunga inchiesta l’evoluzione della campagna contro l’olio di palma, un fenomeno quasi esclusivamente italiano, spiegando perché l’Italia si stia avviando a essere l’unico Paese “palm free” al mondo. Chiunque entri in un supermercato o accenda la tv noterà decine di messaggi pubblicitari di prodotti dichiarati “privi di olio di palma” con la stessa insistenza cui cui trent’anni fa – dopo l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl – le aziende di latticini si preoccupavano di segnalare che i loro prodotti erano stati confezionati con latte munto prima di quell’infausto 26 aprile 1986. Questo giornale non si erge a difensore dell’olio di palma, che ha i suoi problemi – segnalati dalle organizzazioni italiane ed europee che si occupano della nostra salute –come altre centinaia di prodotti. Sappiamo bene (e la nostra inchiesta lo documenta) che il suo uso causa qua e là nel mondo qualche alzata di sopracciglio esattamente come altre centinaia di prodotti di cui si sconsiglia l’abuso, compreso il burro. Aggiungiamo che, di per sé, il caso può anche essere considerato irrilevante. In fondo il mondo andrà avanti senza questo alimento, e gli industriali del settore troveranno (lo hanno già fatto quasi tutti) dei prodotti sostitutivi. Più interessante è il meccanismo che ha portato l’industria italiana al completo (unica eccezione: Ferrero) a sentirsi obbligata a eliminare questo prodotto dalle etichette. Senza che nessun organismo scientifico nazionale o internazionale abbia mai lanciato l’allarme. Senza che alcun elemento risolutivo e convincente sia mai emerso da una ricerca. Senza che la comunità scientifica si sia espressa in modo ufficiale (né ufficioso) per chiedere la messa al bando dell’odiato estratto. L’olio di palma è diventato “radioattivo”, intoccabile per un sussurro sul web che poi è diventato un coro, un boato, un urlo firmato da centinaia di migliaia di persone. Tutto ciò naturalmente ha cause profonde. Evidentemente se le post-verità si impongono sul web è perché i tradizionali detentori della verità – gli esperti, gli scienziati, gli accademici, per non parlare dei giornalisti e dei politici – hanno perso credibilità. Questa cieca sfiducia consente a chiunque di disseminare qualunque affermazione che appaia anche solo lontanamente verosimile nella speranza che venga moltiplicata dai social media senza alcun filtro, con un passaparola che da una parte è il sale della democrazia e della libertà, e dall’altra può diventare il suo veleno. All’inizio di settembre l’Economist dedicò una straordinaria cover story (con il profilo di Donald Trump addobbata con una lingua biforcuta) all’arte della menzogna: Post truth politics in the age of social media, “la politica della post-verità nell’era dei social media” era lo strillo di copertina. È un problema che sta scuotendo Facebook anche al suo interno, con i dipendenti che si rivoltano contro la leadership per la sua incapacità di risolvere il problema di un social media con quasi due miliardi di utenti che non riesce a bloccare la diffusione amacchia d’olio delle notizie senza fondamento. Un esempio? Nelle settimane prima delle elezioni si diffuse la notizia che papa Bergoglio aveva fatto l’endorsement a Trump. Ovviamente si trattava di un falso e la fonte citata (il Denver Guardian), era un giornale inesistente. Quell’informazione assurda arrivò sulla pagina Facebook di milioni di persone che probabilmente non furono mai raggiunte dalla smentita perché ognuno di loro vive in una bolla mediatica, favorita dagli algoritmi di Facebook, dove passano solo certe news e non altre. È solo un esempio di quanto sia personale il concetto di verità ai tempi di Internet. «Non sarei sorpreso se il termine post-verità diventasse una delle parole che definiscono il nostro tempo», ha dichiarato il presidente dei Dizionari Oxford Casper Grathwohl. Il caso dell’olio di palma che raccontiamo in queste pagine dovrebbe far riflettere.

Chi prende la terra ai contadini

Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio di quest’anno sei rappresentanti delle comunità indigene di Indonesia, Liberia, Perù e Colombia sono giunti in Europa. Bruxelles, Olanda, Germania, Regno Unito sono state le tappe di una serie di incontri finalizzati a far conoscere nel Vecchio Continente la propria causa. Che è quella di centinaia di migliaia di contadini sparsi nel mondo. «Abbiamo bisogno che la comunità internazionale capisca che quando consuma olio di palma e biocarburanti sta consumando il sangue delle nostre persone in Indonesia, Liberia, Colombia, Perù», diceva uno dei delegati Agus Sutomo, direttore della Ong indonesiana LinkAR-Borneo. Il fenomeno è noto come land grabbing (accaparramento di terra) ed è ciò che spesso accade quando il mercato sbarca con forza in luoghi dove i diritti dei cittadini non godono di piene garanzie e vigono ancora, in larga parte, diritti di proprietà consuetudinari. Quanto sia esteso il fenomeno, esploso soprattutto dopo il crollo dei prezzi agricoli nel 2007, non è noto. La Banca Mondiale nel 2010 ha stimato che nel solo periodo 2008-2009 la proprietà o il diritto di sfruttamento di 46 milioni di ettari di terra, localizzati soprattutto nel Sud del mondo, era passato dai governi a grandi compagnie o ad altri Stati. Non è quantificabile, invece, il numero delle persone coinvolte: contadini che dall’oggi al domani hanno visto espropriata la terra che dava loro da vivere da generazioni. Quel che è certo è che il fenomeno è vasto: per avere un’idea, basti pensare che nel solo arcipelago indonesiano, secondo l’Indonesia National Land Agency, sono in corso quattromila dispute dispute tra comunità e grandi aziende dell’olio di palma


Accade in Indonesia
Dal 1990 a oggi l’Indonesia, il primo produttore mondiale di olio di palma, ha perso 31 milioni di ettari (una superficie pari alla Germania) di foresta primaria, sostituita in gran parte da coltivazioni di olio di palma. Come se non bastasse, non di rado, il passaggio dalla foresta vergine alle coltivazioni viene “agevolato” da incendi che hanno un serio impatto sulla salute e sull’ambiente. La riduzione e distruzione degli ecosistemi originari ha poi un impatto devastante sulle specie animali (l’orango, in primis) e sulla biodiversità. È in questi tre fatti la sintesi dell’impatto dell’olio di palma sull’ambiente. Il problema è enorme e non riguarda né la sola Indonesia, né la sola coltivazione di palma da olio, ma si inserisce nelle dinamiche demografiche, sociali ed economiche del Terzo Millennio. Per quel che concerne la palma da olio, una prima risposta al problema dell’impatto ambientali delle coltivazioni è arrivata dalle stesse aziende con la creazione di un soggetto no-profit incaricato di valutare la sostenibilità della produzione. Si chiama Roundtable on Sustainable Palm Oil (Rspo) e, sebbene abbia rappresentato un primo passo, si è finora dimostrato tutt’altro che risolutivo. Appena il 17 per cento della produzione globale è certificata, inoltre i criteri di sostenibilità sono considerati troppo blandi; infine, sottolineano i critici, come possono le imprese dell’olio di palma rappresentate dall’Rspo vigilare sul loro stesso operato? Intanto si stanno diffondendo altri soggetti di certificazione indipendenti e con regole più rigide. Di fronte a una domanda vorace di oli vegetali da parte del mercato, il problema però rimane. C’è poi un dato. Pur tra i suoi mille difetti, l’olio di palma è una delle coltivazioni di oli vegetali più sostenibili: in media ha una produttività dieci volte più alta della soia e richiede un decimo di fertilizzanti e pesticidi. Una sua sostituzione, quindi, potrebbe produrre sull’ambiente effetti ben peggiori..


La ricerca: limitare l’olio di palma ma anche il burro e gli altri grassi
Limitare; non eliminare. È questa l’indicazione che emerge da tutti i rapporti dedicati all’olio di palma dalle istituzioni in Europa negli ultimi cinque anni: la Francia, nel maggio 2011, il Belgio nel 2013, l’Olanda nel 2015, l’Italia (Istituto superiore di sanità) nel 2016, l’Efsa (European Food Safety Authority) nel 2016. È da questi report che bisogna partire se ci si vuole aggrappare a punti fermi in una realtà magmatica fatta il più delle volte di studi parziali o con potenziali conflitti di interessi. Ecco dunque cosa emerge. Il primo elemento: l’olio di palma non è una sostanza aliena; è un grasso come gli altri seppur con caratteristiche peculiari. La sua caratteristica principale, per cui è oggetto di interesse, è l’alto contenuto di acidi grassi saturi, in particolare l’acido palmitico. Questa caratteristica lo rende molto interessante per l’industria: è infatti più simile al burro che agli altri oli vegetali. Tant’è che proprio del burro (e delle margarine, ricche però di acidi grassi trans molto dannosi per la salute e per questo accantonate) è il più delle volte un sostituto. Secondo elemento, messo in rilievo soprattutto dal dossier francese: l’acido palmitico di cui l’olio di palma è ricco è tra quegli acidi grassi detti a catena lunga considerati aterogeni, vale a dire che sono in grado di favorire l’insorgenza di placche che ostruiscono i vasi sanguigni e sono la causa di ictus o infarti. Da qui la prima indicazione (riportiamo per chiarezza la raccomandazione del rapporto belga): «È opportuno limitare il consumo di prodotti ricchi di olio di palma […] Deve inoltre essere limitato il consumo di alcune materie grasse derivate dal latte come il burro in ragione della presenza di quote importanti di acidi grassi saturi aterogeni […]Il consumatore dovrebbe privilegiare alimenti poveri di acidi grassi saturi aterogeni e ricchi di acido oleico e grassi polinsaturi della famiglia degli omega 3 e 6». Una chiara indicazione per uno stile alimentare più sano dunque e non un’accusa all’olio di palma. Indicazioni, che per giunta, potrebbero essere presto riscritte alla luce delle numerose ricerche scientifiche che stanno dimostrando che alla sostituzione di grassi saturi con grassi mono o poli-insaturi nella dieta non corrisponde una riduzione del rischio cardiovascolare né della mortalità. Un elemento in più per chiarire l’impatto dell’olio tropicale arriva dall’Istituto superiore di sanità che rileva che la quota di grassi saturi derivanti dall’olio di palma nell’alimentazione degli adulti italiani è del 17 per cento; il rimanente arriva da carne, latte e dagli italianissimi salumi e formaggi. Diverso il caso dei bambini: più sono piccoli, più sale la quota di acidi grassi derivanti dall’olio di palma. Devo essere perciò oggetto di maggiore attenzione. I rapporti olandese e dell’Efsa si occupano invece dell’altra questione aperta, vale a dire la presenza di contaminanti prodotti nel processo di raffinazione. È l’Efsa a mettere in chiaro le cose: tutti gli oli vegetali raffinati contengono (almeno) tre sostanze indesiderate: il 3-Mcpd, il 2-Mcpd e il glicidolo. Le prime due possono causare danni ai reni, la terza è stata associata all’insorgenza di tumori. Per questo l’autorità europea stabilisce delle soglie di sicurezza. Anche questa non è una novità: i limiti di legge per le sostanze potenzialmente dannose (siano essi microrganismi o elementi inerti) sono la normalità per tutti gli alimenti. Nel caso dell’olio di palma, che contiene livelli di contaminanti almeno 5 volte più alti degli altri oli analizzati, queste soglie sono superate in alcune fasce della popolazione, in particolare nei bambini, specie se alimentati con latte in polvere (in Italia lo ha confermato anche un’indagine sul campo eseguita da Altroconsumo pochi mesi or sono). C’è da preoccuparsi? Per ora no: le indicazioni dell’Efsa non sono ancora divenute oggetto di regolamentazione da parte dell’Unione europea; inoltre l’analisi si riferisce a un’esposizione di lungo termine; infine già molte aziende hanno iniziato ad adottare le cosiddette misure di mitigazione che stanno portando a un riduzione dei contaminanti al di sotto delle soglie di guardia indicate dall’autorità