Pagina
99 19.11.2016
Olio
di palma
sbatti
il mostro sul web
Storia
di un sospetto diventato verità. Senza alcuna base scientifica
di
Antonino Michienzi
Un
orango morto nel rogo di una foresta del Kutai National Park,
nell’area indonesiana del Borneo. I denti serrati in una smorfia di
dolore; mani e piedi contratti; la pelle lacerata dal fuoco. È
adagiato su una fetta di pane, cosparsa di un qualcosa che sembra una
crema di nocciola. È questa l’immagine che accompagna l’ultima
petizione contro l’olio di palma che in questi giorni sta
spopolando in Italia. A lanciarla su Change.org il deputato del
Movimento 5 Stelle Mirko Busto. Il destinatario è Ferrero (#Ferrero-
Ripensaci è il claim della campagna). La multinazionale è infatti
l’ultima azienda rimasta in Italia a difendere chiaramente
l’utilizzo dell’olio di palma nei propri prodotti..Nell’anno
della Brexit e dell’elezione di Donald Trump, il Dizionario Oxford
ha dichiarato il termine “post verità” parola dell’anno. E non
per ritorsione contro i cittadini britannici e americani che hanno
compiuto scelte che le élite considerano censurabili. Ma perché
questo è avvenuto dopo due campagne elettorali funestate da una
lunga serie di menzogne a cui l’ecosistema del web e dei social
network ha garantito un effetto moltiplicatore senza precedenti. In
questo numero di pagina99 ricostruiamo con una lunga inchiesta
l’evoluzione della campagna contro l’olio di palma, un fenomeno
quasi esclusivamente italiano, spiegando perché l’Italia si stia
avviando a essere l’unico Paese “palm free” al mondo. Chiunque
entri in un supermercato o accenda la tv noterà decine di messaggi
pubblicitari di prodotti dichiarati “privi di olio di palma” con
la stessa insistenza cui cui trent’anni fa – dopo l’incidente
alla centrale nucleare di Chernobyl – le aziende di latticini si
preoccupavano di segnalare che i loro prodotti erano stati
confezionati con latte munto prima di quell’infausto 26 aprile
1986. Questo giornale non si erge a difensore dell’olio di palma,
che ha i suoi problemi – segnalati dalle organizzazioni italiane ed
europee che si occupano della nostra salute –come altre centinaia
di prodotti. Sappiamo bene (e la nostra inchiesta lo documenta) che
il suo uso causa qua e là nel mondo qualche alzata di sopracciglio
esattamente come altre centinaia di prodotti di cui si sconsiglia
l’abuso, compreso il burro. Aggiungiamo che, di per sé, il caso
può anche essere considerato irrilevante. In fondo il mondo andrà
avanti senza questo alimento, e gli industriali del settore
troveranno (lo hanno già fatto quasi tutti) dei prodotti
sostitutivi. Più interessante è il meccanismo che ha portato
l’industria italiana al completo (unica eccezione: Ferrero) a
sentirsi obbligata a eliminare questo prodotto dalle etichette. Senza
che nessun organismo scientifico nazionale o internazionale abbia mai
lanciato l’allarme. Senza che alcun elemento risolutivo e
convincente sia mai emerso da una ricerca. Senza che la comunità
scientifica si sia espressa in modo ufficiale (né ufficioso) per
chiedere la messa al bando dell’odiato estratto. L’olio di palma
è diventato “radioattivo”, intoccabile per un sussurro sul web
che poi è diventato un coro, un boato, un urlo firmato da centinaia
di migliaia di persone. Tutto ciò naturalmente ha cause profonde.
Evidentemente se le post-verità si impongono sul web è perché i
tradizionali detentori della verità – gli esperti, gli scienziati,
gli accademici, per non parlare dei giornalisti e dei politici –
hanno perso credibilità. Questa cieca sfiducia consente a chiunque
di disseminare qualunque affermazione che appaia anche solo
lontanamente verosimile nella speranza che venga moltiplicata dai
social media senza alcun filtro, con un passaparola che da una parte
è il sale della democrazia e della libertà, e dall’altra può
diventare il suo veleno. All’inizio di settembre l’Economist
dedicò una straordinaria cover story (con il profilo di Donald Trump
addobbata con una lingua biforcuta) all’arte della menzogna: Post
truth politics in the age of social media, “la politica della
post-verità nell’era dei social media” era lo strillo di
copertina. È un problema che sta scuotendo Facebook anche al suo
interno, con i dipendenti che si rivoltano contro la leadership per
la sua incapacità di risolvere il problema di un social media con
quasi due miliardi di utenti che non riesce a bloccare la diffusione
amacchia d’olio delle notizie senza fondamento. Un esempio? Nelle
settimane prima delle elezioni si diffuse la notizia che papa
Bergoglio aveva fatto l’endorsement a Trump. Ovviamente si trattava
di un falso e la fonte citata (il Denver Guardian), era un giornale
inesistente. Quell’informazione assurda arrivò sulla pagina
Facebook di milioni di persone che probabilmente non furono mai
raggiunte dalla smentita perché ognuno di loro vive in una bolla
mediatica, favorita dagli algoritmi di Facebook, dove passano solo
certe news e non altre. È solo un esempio di quanto sia personale il
concetto di verità ai tempi di Internet. «Non sarei sorpreso se il
termine post-verità diventasse una delle parole che definiscono il
nostro tempo», ha dichiarato il presidente dei Dizionari Oxford
Casper Grathwohl. Il caso dell’olio di palma che raccontiamo in
queste pagine dovrebbe far riflettere.
Chi
prende la terra ai contadini
Tra
la fine di aprile e l’inizio di maggio di quest’anno sei
rappresentanti delle comunità indigene di Indonesia, Liberia, Perù
e Colombia sono giunti in Europa. Bruxelles, Olanda, Germania, Regno
Unito sono state le tappe di una serie di incontri finalizzati a far
conoscere nel Vecchio Continente la propria causa. Che è quella di
centinaia di migliaia di contadini sparsi nel mondo. «Abbiamo
bisogno che la comunità internazionale capisca che quando consuma
olio di palma e biocarburanti sta consumando il sangue delle nostre
persone in Indonesia, Liberia, Colombia, Perù», diceva uno dei
delegati Agus Sutomo, direttore della Ong indonesiana LinkAR-Borneo.
Il fenomeno è noto come land grabbing (accaparramento di terra) ed è
ciò che spesso accade quando il mercato sbarca con forza in luoghi
dove i diritti dei cittadini non godono di piene garanzie e vigono
ancora, in larga parte, diritti di proprietà consuetudinari. Quanto
sia esteso il fenomeno, esploso soprattutto dopo il crollo dei prezzi
agricoli nel 2007, non è noto. La Banca Mondiale nel 2010 ha stimato
che nel solo periodo 2008-2009 la proprietà o il diritto di
sfruttamento di 46 milioni di ettari di terra, localizzati
soprattutto nel Sud del mondo, era passato dai governi a grandi
compagnie o ad altri Stati. Non è quantificabile, invece, il numero
delle persone coinvolte: contadini che dall’oggi al domani hanno
visto espropriata la terra che dava loro da vivere da generazioni.
Quel che è certo è che il fenomeno è vasto: per avere un’idea,
basti pensare che nel solo arcipelago indonesiano, secondo
l’Indonesia National Land Agency, sono in corso quattromila dispute
dispute tra comunità e grandi aziende dell’olio di palma
Accade
in Indonesia
Dal
1990 a oggi l’Indonesia, il primo produttore mondiale di olio di
palma, ha perso 31 milioni di ettari (una superficie pari alla
Germania) di foresta primaria, sostituita in gran parte da
coltivazioni di olio di palma. Come se non bastasse, non di rado, il
passaggio dalla foresta vergine alle coltivazioni viene “agevolato”
da incendi che hanno un serio impatto sulla salute e sull’ambiente.
La riduzione e distruzione degli ecosistemi originari ha poi un
impatto devastante sulle specie animali (l’orango, in primis) e
sulla biodiversità. È in questi tre fatti la sintesi dell’impatto
dell’olio di palma sull’ambiente. Il problema è enorme e non
riguarda né la sola Indonesia, né la sola coltivazione di palma da
olio, ma si inserisce nelle dinamiche demografiche, sociali ed
economiche del Terzo Millennio. Per quel che concerne la palma da
olio, una prima risposta al problema dell’impatto ambientali delle
coltivazioni è arrivata dalle stesse aziende con la creazione di un
soggetto no-profit incaricato di valutare la sostenibilità della
produzione. Si chiama Roundtable on Sustainable Palm Oil (Rspo) e,
sebbene abbia rappresentato un primo passo, si è finora dimostrato
tutt’altro che risolutivo. Appena il 17 per cento della produzione
globale è certificata, inoltre i criteri di sostenibilità sono
considerati troppo blandi; infine, sottolineano i critici, come
possono le imprese dell’olio di palma rappresentate dall’Rspo
vigilare sul loro stesso operato? Intanto si stanno diffondendo altri
soggetti di certificazione indipendenti e con regole più rigide. Di
fronte a una domanda vorace di oli vegetali da parte del mercato, il
problema però rimane. C’è poi un dato. Pur tra i suoi mille
difetti, l’olio di palma è una delle coltivazioni di oli vegetali
più sostenibili: in media ha una produttività dieci volte più alta
della soia e richiede un decimo di fertilizzanti e pesticidi. Una sua
sostituzione, quindi, potrebbe produrre sull’ambiente effetti ben
peggiori..
La
ricerca: limitare l’olio di palma ma anche il burro e gli
altri grassi
Limitare;
non eliminare. È questa l’indicazione che emerge da tutti i
rapporti dedicati all’olio di palma dalle istituzioni in Europa
negli ultimi cinque anni: la Francia, nel maggio 2011, il Belgio nel
2013, l’Olanda nel 2015, l’Italia (Istituto superiore di sanità)
nel 2016, l’Efsa (European Food Safety Authority) nel 2016. È da
questi report che bisogna partire se ci si vuole aggrappare a punti
fermi in una realtà magmatica fatta il più delle volte di studi
parziali o con potenziali conflitti di interessi. Ecco dunque cosa
emerge. Il primo elemento: l’olio di palma non è una sostanza
aliena; è un grasso come gli altri seppur con caratteristiche
peculiari. La sua caratteristica principale, per cui è oggetto di
interesse, è l’alto contenuto di acidi grassi saturi, in
particolare l’acido palmitico. Questa caratteristica lo rende molto
interessante per l’industria: è infatti più simile al burro che
agli altri oli vegetali. Tant’è che proprio del burro (e delle
margarine, ricche però di acidi grassi trans molto dannosi per la
salute e per questo accantonate) è il più delle volte un sostituto.
Secondo elemento, messo in rilievo soprattutto dal dossier francese:
l’acido palmitico di cui l’olio di palma è ricco è tra quegli
acidi grassi detti a catena lunga considerati aterogeni, vale a dire
che sono in grado di favorire l’insorgenza di placche che
ostruiscono i vasi sanguigni e sono la causa di ictus o infarti. Da
qui la prima indicazione (riportiamo per chiarezza la raccomandazione
del rapporto belga): «È opportuno limitare il consumo di prodotti
ricchi di olio di palma […] Deve inoltre essere limitato il consumo
di alcune materie grasse derivate dal latte come il burro in ragione
della presenza di quote importanti di acidi grassi saturi aterogeni
[…]Il consumatore dovrebbe privilegiare alimenti poveri di acidi
grassi saturi aterogeni e ricchi di acido oleico e grassi polinsaturi
della famiglia degli omega 3 e 6». Una chiara indicazione per uno
stile alimentare più sano dunque e non un’accusa all’olio di
palma. Indicazioni, che per giunta, potrebbero essere presto
riscritte alla luce delle numerose ricerche scientifiche che stanno
dimostrando che alla sostituzione di grassi saturi con grassi mono o
poli-insaturi nella dieta non corrisponde una riduzione del rischio
cardiovascolare né della mortalità. Un elemento in più per
chiarire l’impatto dell’olio tropicale arriva dall’Istituto
superiore di sanità che rileva che la quota di grassi saturi
derivanti dall’olio di palma nell’alimentazione degli adulti
italiani è del 17 per cento; il rimanente arriva da carne, latte e
dagli italianissimi salumi e formaggi. Diverso il caso dei bambini:
più sono piccoli, più sale la quota di acidi grassi derivanti
dall’olio di palma. Devo essere perciò oggetto di maggiore
attenzione. I rapporti olandese e dell’Efsa si occupano invece
dell’altra questione aperta, vale a dire la presenza di
contaminanti prodotti nel processo di raffinazione. È l’Efsa a
mettere in chiaro le cose: tutti gli oli vegetali raffinati
contengono (almeno) tre sostanze indesiderate: il 3-Mcpd, il 2-Mcpd e
il glicidolo. Le prime due possono causare danni ai reni, la terza è
stata associata all’insorgenza di tumori. Per questo l’autorità
europea stabilisce delle soglie di sicurezza. Anche questa non è una
novità: i limiti di legge per le sostanze potenzialmente dannose
(siano essi microrganismi o elementi inerti) sono la normalità per
tutti gli alimenti. Nel caso dell’olio di palma, che contiene
livelli di contaminanti almeno 5 volte più alti degli altri oli
analizzati, queste soglie sono superate in alcune fasce della
popolazione, in particolare nei bambini, specie se alimentati con
latte in polvere (in Italia lo ha confermato anche un’indagine sul
campo eseguita da Altroconsumo pochi mesi or sono). C’è da
preoccuparsi? Per ora no: le indicazioni dell’Efsa non sono ancora
divenute oggetto di regolamentazione da parte dell’Unione europea;
inoltre l’analisi si riferisce a un’esposizione di lungo termine;
infine già molte aziende hanno iniziato ad adottare le cosiddette
misure di mitigazione che stanno portando a un riduzione dei
contaminanti al di sotto delle soglie di guardia indicate
dall’autorità