La Stampa 7.11.16
Atto finale, Renzi contro Bersani
E la platea urla: “Fuori! Fuori!”
La
Leopolda si chiude con l’affondo della folla renziana contro la
minoranza L’attacco a D’Alema: “Chi fece morire l’Ulivo adesso vuole la
fine del Pd”
di Francesca Schianchi
Un primo
assaggio della reazione «leopoldina» all’attacco furibondo alla vecchia
guardia c’era stato già sabato, quando, alla comparsa di D’Alema sul
maxischermo, dalla grande navata della ex Stazione Leopolda si sono
alzati i fischi. Ieri poi, alla chiusura della settima edizione della
kermesse, nell’ora di intervento che Matteo Renzi ha dedicato a motivare
i suoi per l’ultimo mese di campagna elettorale, la posizione del suo
pubblico più caldo e affezionato è stata chiara da subito: standing
ovation agli attacchi a Bersani e D’Alema dal palco, con tanto di cori
«fuori-fuori». Una scissione sentimentale (per ora), un divorzio di
fatto tra due anime del partito che non si sono mai amate e che col
referendum rischiano una rottura definitiva.
Sanders ha perso in
America le primarie e ora sostiene Hillary, è il ragionamento di Renzi:
«Andrebbe spiegato ai teorici della ditta quando ci sono loro e
dell’anarchia quando ci sono gli altri», affonda contro Bersani e co.
Qui più capo corrente che segretario, va all’assalto degli «stessi che
18 anni fa decretarono la fine dell’Ulivo perché non comandavano loro, e
ora provano a decretare la fine del Pd», e il pubblico lo segue
convinto, urla, fischia, batte le mani. Una platea gremita, tanti
iscritti al Pd ma anche tanti no, come è sempre stato alla Leopolda,
dove non a caso non ha mai fatto ingresso il simbolo del partito. Tanti
ragazzi, tanti over 50, chi in politica da tempo chi agli esordi,
curiosi e appassionati di Renzi: «Sono i nostri falchi – sorride un
renziano della prima ora – gli stessi che, quattro anni fa, quando
Matteo perse le primarie contro Bersani, chiedevano di fare un altro
partito».
L’avanguardia di strettissima osservanza, insomma,
anziani che si sentono traditi dalle scelte di D’Alema e Bersani, e
giovani ispirati dalla rottamazione, e «se oggi 30-40enni guidano città e
aziende è perché qui qualche inguaribile sognatore ha rifiutato la
logica del “ciccio, rispetta le fila”», li solletica il
premier-segretario. Da loro, ora, vuole mobilitazione, 28 giorni a
lottare voto su voto, «non urlate, votate, andate a prendere le
persone», reagisce ai loro battimani, «fate nuovi comitati», li
striglia, perché sa che anche nel suo mondo, chiusi i battenti della tre
giorni fiorentina, il bicameralismo paritario non scalda i cuori.
E
se il referendum è un tema molto tecnico da comunicare, Renzi sceglie
un’altra chiave per galvanizzare la platea. Salito sul palco dopo un
breve black out carico di letture scaramantiche («un castigo divino»,
scherza) spinge ancora una volta sul noi e loro, i giovani e i vecchi,
l’innovazione e l’usato non sicuro, «la classe dirigente che ha già
fallito» e che sta difendendo «la possibilità di tornare al potere». Un
derby tra «rabbia e proposta, tra nostalgia e domani». Accenna appena
agli scontri di sabato («quando si prende un cartello stradale per
usarlo contro i poliziotti non si sta difendendo la Costituzione»), ma
sa bene che quello è un isolato incidente che non rappresenta il fronte
del no. Uno schieramento il cui punto debole è l’eterogeneità, e lui lì
cerca di incunearsi. Tratteggiando una sorta di «Pantheon dei cattivi,
dei nemici», come lo definisce chi conosce bene Renzi: «il leone da
tastiera» Travaglio che quando lo incontri in tv «non riesce nemmeno a
guardarti negli occhi» (applausi); Silvio Berlusconi che paventa il
rischio «dell’uomo solo al comando» (risa); Beppe Grillo che «non ha
letto la riforma, allora se l’è fatta spiegare da Di Maio, che però non
l’ha capita» (applausi). E ancora De Mita, Salvini, Calderoli. E poi
loro, forse i più cattivi di tutti, nella narrazione renziana condivisa
dal pubblico, perché messi in relazione col fallimento dell’Ulivo, la
minoranza che voterà no con l’eccezione di Cuperlo (non citato per non
metterlo in difficoltà col suo mondo). Uno più degli altri, Massimo
D’Alema. «Dice che la riforma loro l’avrebbero fatta meglio. Allora
perché non l’hanno fatta?». L’ovazione della platea si confonde col
rumore del diluvio fuori.