La Stampa 1.11.16
All’Opera va in scena l’emergenza
Tempi di nuovo difficili per i teatri italiani: venerdì a Venezia manifestano i lavoratori
Poco credito, tanti esuberi
Per le fondazioni liriche incubo taglio a fine 2018
A rischio chi non otterrà il pareggio di bilancio Roi: “Siamo senza soldi, non ci dormo la notte”
di Sandro Cappelletto
I
tempi tornano ad essere difficili per i teatri d’opera italiani. Due
soli non rischiano: la Scala e l’Accademia di Santa Cecilia, garantite
da un finanziamento triennale e dal riconoscimento di una condizione di
eccellenza. Ma per le altre dodici Fondazioni liriche l’orizzonte si sta
oscurando: 400 cause di lavoro pendenti, circa 60 esuberi tra Firenze –
dove i sindacati chiedono le dimissioni del sovrintendente Bianchi - e
Bologna, 71 licenziamenti al Petruzzelli di Bari dopo le assunzioni
imposte da una recente sentenza.
Il decreto approvato dal
Parlamento la scorsa estate parla chiaro: per le Fondazioni che non
riusciranno a trovarsi in pareggio al 31 dicembre 2018, il «mantenimento
della partecipazione e vigilanza dello Stato» diventerà «eventuale».
Per la prima volta nella storia repubblicana lo Stato considera dunque
possibile non finanziare i principali teatri lirici, delegando la
responsabilità agli enti locali o ad altri soggetti.
Particolarmente
difficile è la situazione di Genova: «Per capirci: non ci dormo la
notte per trovare il modo di pagare gli stipendi», dice Maurizio Roi,
sovrintendente del Carlo Felice dal settembre 2014, che invita a uscire
dal caso specifico per guardare l’intero orizzonte: «Se è vero che la
lirica è un pezzo dell’identità italiana, bisogna chiedersi quanto si è
disposti a investire, qual è il progetto dell’intero Paese verso questo
settore dello spettacolo. Purtroppo, non vedo una strategia, solo una
continua emergenza».
Di emergenze la storia recente del Teatro è
un esempio perfetto: tra il 2010 e il 2012 qui sono stati applicati i
contratti di solidarietà, con decurtazione degli stipendi; qui nel 2014
la programmazione artistica era inesistente, mentre restava aperto un
contenzioso con la Banca Carige e il Teatro era segnalato dalla centrale
dei rischi della Banca d’Italia.
Negli ultimi due anni il costo
del lavoro è sceso di altri 2 milioni di euro grazie al prepensionamento
di 30 dipendenti. Ma ancora non sembra bastare, se nei giorni scorsi è
stato annunciato, per contenere i costi, il rinvio della Rondine di
Puccini. «Ancora oggi nessuna banca ci fa credito, nessuna fondazione
bancaria ci sostiene. Lavoriamo solo con soldi nostri e siamo in
costante emergenza di liquidità», puntualizza Roi. La città non vi
aiuta? «Genova è la città del Nord che ha maggiormente subito la crisi
di questi anni. I rapporti con Comune e Regione sono ottimi, ma la
disponibilità di risorse del pubblico e del privato è molto modesta. Ci
aiutano gli affitti che incassiamo per eventi e convention aziendali».
Giocano
contro anche le lente complessità della nostra burocrazia: «Abbiamo
aderito alla Legge Bray, ma i 13 milioni che dobbiamo ricevere dal
ministro delle Finanze non arrivano e questo ritardo pesa». Il Carlo
Felice fu reinaugurato proprio venticinque anni fa, dopo la lunghissima
interruzione causata dalla guerra. C’era molto entusiasmo, in
quell’ottobre del 1991, oggi prevale il timore. Come immagina gli anni a
venire? «A Genova ci stiamo reinventando il modo di esistere del
Teatro, ponendoci tre obiettivi: tutelare un servizio al quale una città
come Genova non può rinunciare; partecipare agli sforzi di un
territorio che punta sul turismo; assicurare ai nostri dipendenti e al
pubblico un futuro. Abbiamo aumentato i concerti in decentramento,
rimesso in moto il festival della danza, organizzato due tournée, in
Cina in Oman. Puntiamo ad essere la Fabbrica della Musica di tutta la
Liguria. Ma quello che soprattutto serve è capire se l’Italia vuole
investire in modo sano sui suoi teatri d’opera o se ci attende, chi
prima chi poi, il declino, con poche eccezioni».