La Stampa 15.11.16
Aspettando Trump, l’Europa è già divisa
di Stefano Stefanini
Donald
Trump non ha dovuto muovere un dito. Gli europei si dividono da soli su
come rispondere al ribaltone americano. La disunione europea potrà
fargli comodo, ma non diamogliene la colpa. A meno di una settimana
dall’elezione ha altro da fare che pensare all’Europa. L’incapacità di
serrare le file è tutta nostra.
L’incontro di ieri dei ministri
degli Esteri Ue ne è l’impietosa cartina di tornasole. La difesa europea
è un obiettivo lodevole e necessario, ma con le modeste risorse
disponibili «l’autonomia strategica» del ministro Jean-Marc Ayrault è
una pia illusione. Non nasconde la realtà che con Brexit l’Ue perde fra
il 25 e il 30% delle capacità militari e che avrà ancora a lungo bisogno
della Nato per la propria sicurezza.
Più difesa è indispensabile e
senza un’Ue unita politicamente è uno strumento senza manico. L’unità,
già incrinata, è latitante dopo l’elezione di Trump. Forse perché ci
aspettavamo la solita America (di Hillary Clinton) che tiene insieme gli
europei e abbiamo trovato il contrario. Anche ieri l’unità è mancata
all’appello. L’assenza di tre ministri (Uk, Francia, Ungheria) dal
pranzo di domenica sera è stata desolante. Passi per Boris Johnson:
Londra naviga verso la sponda americana dove l’attende un Presidente
pro-Brexit. Passi per Peter Szijjarto: Budapest è dalla parte di Trump
non di Bruxelles. Ma l’assenza francese era incolmabile, specie volendo
parlare di Difesa. Prima di mandare gli inviti, bisogna essere sicuri
che gli invitati che contano accettino.
I ministri degli Esteri
hanno finito col parlare di un tema che riguarda più i loro colleghi
della Difesa. Hanno sorvolato sui nodi politici della «partnership molto
forte con la nuova amministrazione» di Federica Mogherini. Sotto la
superficie della palude sono trapelati i diversi accenti di uno
Steinmeier che non nasconde la diffidenza (in sintonia con la
Cancelliera tedesca) e di un Gentiloni che intravede l’opportunità di un
disgelo con la Russia.
Toccherebbe ai leader discutere di Trump e
dovrebbero farlo in piccolo gruppo. Così fecero, per iniziativa di Tony
Blair, dopo l’11 settembre. L’elezione di Donald Trump è uno scossone
internazionale pacifico ma non meno forte. Il pensiero di chiamare i
colleghi europei non deve aver neppur sfiorato Theresa May. Lo spirito è
mancato anche agli altri. Renzi pensa al referendum, Hollande e Merkel
alle elezioni. Tutti entro orizzonti nazionali.
Nigel Farage,
primo politico straniero ad incontrare il Presidente eletto, ha detto
che, insieme a Brexit, l’elezione di Donald Trump è «la rivincita dello
Stato nazione». Chiudendosi nei loro confini, gli stessi leader contro i
quali egli alimenta la rivolta populista in Europa gli danno ragione. I
ministri non potevano colmare il vuoto di fiducia nell’Europa. Anche il
Presidente del Consiglio deve domandarsi se la continua messa in stato
d’accusa dell’Ue non sia uno scherzare col fuoco.
Un abisso di
politiche e sensibilità separa l’Unione europea dal nuovo Presidente
americano, ma non è la fine del rapporto fra Stati Uniti e Europa. Le
relazioni transatlantiche superano le chimiche personali. I Presidenti
passano e l’America resta.
Prendiamo un Presidente alla volta.
Donald Trump ha poche simpatie per l’integrazione europea, molte per
Ukip e Fronte Nazionale. Avrà tutto l’interesse a trattare con i singoli
Stati anziché con Bruxelles. L’analogia con Vladimir Putin, cui il voto
di domenica in Bulgaria e Moldova gonfia le vele, non è casuale.
Bruxelles rischia di essere il vaso di coccio fra Mosca e Washington,
specie se perde anche il soft power dell’attrazione in Europa
centro-orientale e nei Balcani.
Unita, anche senza Uk (purtroppo),
l’Europa ha massa critica per fare da controparte transatlantica a
qualsiasi amministrazione americana. Con quella Trump la partnership
sarebbe difficile ma sostenibile. Da soli i singoli Stati europei non
hanno invece alcuna chance. Purtroppo hanno cominciato male.