internazionale
28.10.2016
Sulla
pelle dedei migranti
di
Alexander Bühler, Susanne Koelbl, Sandro Mattioli e Walter Mayr,
Der
Spiegel, Germania
Più
di diecimila persone sono annegate dal 2013 mentre cercavano di
attraversare il Mediterraneo per entrare in Europa. Sono le vittime
di un traffico miliardario che ha le sue basi in Germania, Italia e
Libia. L’inchiesta dello Spiegel è il trafficante di esseri umani
più ricercato del mondo. Di lui non esistono fotograie, solo
l’identikit disegnato per gli investigatori. Mostra un uomo
tarchiato con un taglio di capelli corto e preciso. Sembra che sia un
etiope sulla quarantina e che sia attivo da dieci anni. Al telefono
la sua voce suona cupa e gutturale. Sceglie le parole con cura.
All’arabo mescola espressioni inglesi smozzicate. Dopo che una
delle sue imbarcazioni è afondata al largo di Lampedusa, il 3
ottobre 2013, le sue conversazioni sono state intercettate. Lo si
sente parlare irritato di life jackets, giubbotti di salvataggio. “Io
non gli ho mai dato life jackets, chiaro?”. Quel 3 ottobre, al
largo dell’isola siciliana, sono affogate 366 persone che stavano
quasi per raggiungere la loro meta, l’Europa. Quando l’ha saputo,
l’uomo che aveva organizzato il viaggio si è infuriato più per il
danno alla sua reputazione che per i morti. “Tanti migranti sono
partiti con altri organizzatori e sono finiti in pasto ai pesci”,
esclama. “Ma nessuno ne parla”. Solo a lui danno la caccia. Lui:
Ermias Ghermay. Da quel “giorno delle lacrime”, come lo ha
definito papa Francesco, nel Mediterraneo sono morti altri diecimila
migranti: in media uno ogni tre ore. Ma nello stesso periodo circa
cinquecentomila persone hanno raggiunto le coste italiane. Questo
signiica che, nel giro di tre anni, nelle casse dei trafficanti
africani sono entrati miliardi di euro. In questo business di morte,
a dettare le regole sono gli etiopi, i sudanesi, i libici e gli
eritrei. L’Eritrea è uno dei paesi più poveri del mondo, una
dittatura a partito unico che l’ong Human rights watch ha definito
“una gigantesca prigione”. Più di un milione di eritrei sono
fuggiti all’estero. Un mercato enorme per i trafficanti di esseri
umani eritrei, molti dei quali gestiscono il business dei profughi
lungo la rotta centrale, quella che attraversa il Mediterraneo. Come
dimostrano le intercettazioni telefoniche effettuate dalle procure
italiane, gli emissari dei trafficanti a Khartoum, Tripoli, Palermo,
Roma e Francoforte fanno parte di una rete efficientissima. Sparsi
lungo il percorso, guidano i loro connazionali verso nord e incassano
milioni di euro.
Colpa
del destino
Tra
tutti gli africani, gli eritrei sono quelli che presentano il maggior
numero di richieste di asilo in Germania, dove parallelamente sta
aumentando anche il numero di trafficanti. Come quello di armi e di
droga, anche il traffico di esseri umani è ormai uno dei business
più redditizi della criminalità organizzata ed è finito in gran
parte sotto il controllo degli eritrei. Il tutto sotto il naso delle
autorità tedesche, la cui passività di fronte a questi sviluppi
lascia sbigottiti gli investigatori italiani. Lo Spiegel ha svolto le
sue ricerche per mesi in Libia, in Italia, a Berlino e a Francoforte.
Ha studiato più di mille pagine di atti giudiziari italiani, ha
consultato dossier riservati e interrogato i migranti sopravvissuti
alla traversata. Da questo lavoro è emersa un’immagine più chiara
dei trafficanti di esseri umani, che sono disposti ad accettare la
morte di migliaia di persone, sequestrano i profughi e li vendono
come bestie. Uno dei più famigerati esponenti di questa categoria è
Ermias Ghermay. La sede dell’unità speciale Tarik al Sika si trova
sull’omonima strada nel centro di Tripoli, la capitale della Libia.
È qui che viene coordinata la lotta a Ghermay e agli altri
trafficanti. Finora nessuno straniero aveva mai avuto accesso a
questa struttura. Per entrare nel cortile bisogna passare una porta
d’acciaio. A sinistra ci sono gli uffici degli investigatori e
delle forze speciali, a destra le celle. La Tarik al Sika è un’unità
di élite che si occupa d’individuare i trafficanti di esseri umani
e gli esponenti delle milizie estremiste. In confronto al caos che
ormai è la norma in Libia, qui regna l’ordine. Alla parete sono
affissi i turni di servizio. I dossier delle operazioni sono
classifficati e organizzati in raccoglitori. Il capoturno Hussam (il
cognome non lo rivela per motivi di sicurezza) non indossa
l’uniforme, ma jeans e maglietta. Porta la barba secondo l’uso
della coalizione Alba libica: accuratamente rasata a formare un
semicerchio che va da un orecchio all’altro sotto il labbro
inferiore. I suoi capelli sono legati in una coda. “Sappiamo dove
si nascondono Ermias e i suoi uomini, conosciamo quelli con cui
lavorano e seguiamo i loro spostamenti”, dice Hussam. Poi tira
fuori un dossier e legge: fino al 2015 Ghermay ha vissuto a Tripoli
in un quartiere popolato prevalentemente da migranti africani e noto
per essere un centro di smistamento di droga, armi e alcol. Hussam
spiega che la sua unità ha fatto irruzione due volte
nell’appartamento di Ghermay, che però è riuscito a scappare in
entrambi i casi: ora il trafficante risiede a Sabrata, sulla costa
occidentale della Libia, protetto da guardie armate fino ai denti.
Purtroppo, spiega Hussam, le autorità libiche non hanno abbastanza
uomini e armi per affrontarlo lì. Molti trafficanti di esseri umani
si vantano di avere ottimi rapporti con la polizia libica e
sostengono di poter tirare fuori di prigione chiunque semplicemente
pagando gli agenti. Hussam ammette che queste cose in Libia succedono
davvero, ma non nella sua unità. “Ghermay è un etiope con
passaporto eritreo e va in giro in jeans e maglietta per non dare
nell’occhio”, racconta Yonas, un ex intermediario del
trafficante. Qualche mese fa la Tarik al Sika lo ha arrestato alla
mensa dell’ambasciata eritrea a Tripoli, dove lavorava. Da allora
Yonas (uno pseudonimo per nascondere la sua identità) collabora con
le forze speciali libiche, che lo hanno usato come testimone. Yonas
ha dichiarato che per ogni eritreo che passava Ghermay incassava
circa 30 euro, e che a bordo del barcone affondato al largo di
Lampedusa c’erano anche persone mandate da lui. La notte dopo il
naufragio, racconta Yonas, “Ghermay ha fatto passare sotto la porta
dell’ambasciata eritrea la lista dei passeggeri, in modo da
avvisare i parenti”. Nelle intercettazioni telefoniche Ghermay si
vanta di questo gesto: i parenti delle vittime, in prevalenza
eritrei, sono stati “informati” tempestivamente. Queste cose
fanno bene agli affari. “Subito dopo la disgrazia”, racconta
Yonas, “gli ho telefonato e gli ho detto di venire alla mensa.
Volevo che risarcisse le famiglie delle persone annegate. Lui è
venuto all’appuntamento, ma ha rimborsato solo il prezzo della
traversata”. In una telefonata a un trafficante sudanese Ghermay
dice che se i profughi sono morti è colpa loro: non hanno seguito le
sue istruzioni e hanno stupidamente fatto capovolgere il barcone.
Ghermay ha la coscienza a posto: “Ho seguito le regole, ma loro
sono morti lo stesso. Si vede che era destino”. Il sudanese
concorda: “Non si può fare appello contro il giudizio di Dio”.
Collaborazione
redditizia
Le
rovine dell’antico teatro di Sabrata si vedono da molto lontano.
Dichiarate patrimonio dell’umanità dall’Unesco, sono la
testimonianza dello splendore raggiunto dall’impero romano sotto il
ilosofo Marco Aurelio. Oggi questa città millenaria è uno degli
snodi della criminalità internazionale e un centro di smistamento
delle ricchezze guadagnate grazie al traico di esseri umani. Da qui
passa la maggior parte dei migranti provenienti dall’Africa
subsahariana, e da qui partono molte delle imbarcazioni dirette in
Italia. Quando arrivano a Sabrata i migranti hanno già affrontato un
viaggio di migliaia di chilometri. Gli eritrei che sono riusciti a
raggiungere il Sudan orientale passando per l’Etiopia pagano ino a
seimila dollari per poter proseguire dalla capitale sudanese Khartoum
ino alla costa mediterranea della Libia. Per quasi tutti, il viaggio
è una sofferenza. Molti sono sequestrati nel Sahara, rinchiusi e
sottoposti a maltrattamenti sistematici, finché i familiari non
mandano i soldi per la tappa successiva. Fanos Okba, 18 anni,
sopravvissuta al naufragio di Lampedusa, è stata violentata in uno
di questi campi di prigionia. “Eravamo costretti a stare in piedi
tutto il giorno mentre sotto i nostri occhi gli altri migranti
venivano torturati in mille modi: scosse elettriche, colpi sulle
piante dei piedi”, racconta. “Ad alcuni veniva legata una corda
intorno al collo e alle gambe, in modo che al minimo movimento si
strangolavano”. Per porre ine a quei tormenti, i parenti devono
versare denaro su conti bancari in Sudan, in Israele o a Dubai,
oppure con l’hawala, un sistema di trasferimento molto usato in
Medio Oriente. È un sistema che si basa sulla fiducia: una persona
riceve una somma e un’altra versa la stessa cifra al destinatario
in un’altra parte del mondo. Dopo che il denaro è arrivato a
destinazione la famiglia del migrante riceve un codice, che
dev’essere mandato al cellulare dei trafficanti. Solo allora il
viaggio verso nord può continuare. Una volta arrivati sulla costa
libica, i clienti di Ghermay vengono nuovamente rinchiusi, di solito
in qualche magazzino a Sabrata o alla periferia di Tripoli. Per
facilitare la contabilità i migranti ricevono un numero
d’identificazione un po’ come succede nel commercio del bestiame.
Secondo le carte degli inquirenti italiani, Ghermay intrattiene
“contatti diretti con trafficanti nell’Africa subsahariana”. In
questo modo riesce a “comprare carichi” da altri trafficanti “per
aumentare i proffitti”. I luogotenenti di Ghermay, che si fanno
chiamare “colonnelli”, impongono una disciplina severissima.
Tenere i migranti nei magazzini costa: per questo chi non è in grado
di pagarsi subito il passaggio verso l’Italia viene picchiato e
torturato. Tutto questo succede in un paese a cui ad aprile l’Unione
europea ha offerto un pacchetto di aiuti del valore di cento milioni
di euro. Succede mentre le navi dell’operazione europea Sophia
operano così vicino alle coste libiche che i traicanti riescono a
portare a destinazione i loro carichi spendendo una miseria: bastano
un barcone malconcio, pochi litri di gasolio e un telefono
satellitare per fare la chiamata d’emergenza. Gli investigatori
della Tarik al Sika non riescono a smantellare l’organizzazione di
Sabrata perché i trafficanti e le potenti milizie locali lavorano a
stretto contatto. I miliziani hanno bisogno di denaro e i trafficanti
di protezione: una collaborazione redditizia per entrambe le parti. E
il mercato promette bene: di recente l’inviato speciale delle
Nazioni Unite Martin Kobler ha dichiarato che sulle coste libiche
235mila persone aspettano di partire per l’Italia. Secondo gli
investigatori libici, Ghermay si è stabilito in un quartiere vicino
alla torre idrica di Sabrata. “Si sposta da una città all’altra”,
spiega il maggiore Bassam Bashir, che dirige l’unità incaricata
d’indagare sul traico di migranti nella città. “Le nostre fonti
indicano che è qui”. Di recente l’amministrazione cittadina ha
avvisato che l’obitorio comunale non può più accettare cadaveri
di stranieri: l’ediicio è troppo piccolo per contenere i corpi di
tutti i migranti africani ritrovati sulle spiagge di Sabrata. A
luglio sono stati più di 120 e, secondo il sindaco, in un solo
giorno ne sono stati trovati 53. Bashir conferma che Ghermay non è
l’unico trafficante che vive a Sabrata: c’è anche un
imprenditore chiamato Mosaab Abu Grein. Secondo gli inquirenti di
Tripoli, è lui il vero re del traffico di esseri umani in Libia. Gli
abitanti del posto dicono che Abu Grein ha 33 anni e due figli
maschi, è una persona rispettabile e ha un’ottima reputazione,
almeno ufficialmente. Sulla sua testa non pende nessun mandato di
cattura internazionale ed è il proprietario dello stabilimento
balneare più grande di Sabrata, ma ha scelto di non rispondere alle
accuse degli inquirenti. Un suo ex complice, che ora collabora con le
autorità, afferma che solo nel 2015 Abu Grein avrebbe fatto arrivare
clandestinamente in Europa 45mila persone, quasi un terzo del totale.
A quanto pare anche prima della caduta di Muammar Gheddafi il ricco
imprenditore aveva ottimi rapporti con la maia italiana e un ruolo di
primo piano nel traffico di esseri umani. Secondo gli inquirenti,
oggi Ghermay gestisce gli afari di Abu Grein con l’Etiopia,
l’Eritrea e il Sudan. Quando gli chiediamo se le autorità europee
sono a conoscenza delle indagini dei loro colleghi libici, Hussam
scuote il capo. “Voi europei non fate che lamentarvi dei migranti
che vengono dall’Africa”, dice, “ma nessun procuratore italiano
o tedesco è mai venuto a Tripoli a chiedere cosa succede qui”.
Testimone
chiave
Ha
il viso largo e gli occhi neri e porta una collana di perline di
plastica: secondo il mandato d’arresto spiccato dalle autorità
italiane, Atta Wehabrebi intratteneva “rapporti diretti con i
trafficanti di esseri umani in Libia, compreso Ermias Ghermay”. Il
procuratore Calogero Ferrara sostiene che Wehabrebi è un “testimone
chiave”. Ferrara, abbronzato e con un sigaro in bocca, è
orgoglioso. È qui nel suo ufficio di Palermo che Wehabrebi ha
parlato per la prima volta, nell’aprile del 2015. Le dichiarazioni
dell’eritreo, dice Ferrara, sono preziose come quelle dei capi
mafiosi pentiti. Ferrara lavora per la squadra antimafia della
procura di Palermo. Ogni mattina, quando raggiunge il suo ufficio al
secondo piano del palazzo di giustizia, passa davanti a una targa che
commemora alcuni dei suoi predecessori assassinati. In questo ediicio
lavoravano anche i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino,
uccisi nel 1992. “In Italia ci sono tante cose che non funzionano”,
dice Ferrara, “ma di lotta alla criminalità organizzata qualcosa
ne capiamo”. Secondo gli inquirenti siciliani i crimini dei
trafficanti di esseri umani richiedono misure drastiche come quelle
adottate contro la mafia. La giustizia italiana consente agli
investigatori di usare intercettazioni telefoniche e riprese video. I
testimoni chiave sono trattati con generosità e godono di programmi
di protezione. Finora la procura di Palermo ha condotto tre
operazioni – Glauco 1, 2 e 3 – per smantellare le cellule della
rete di Ghermay. Sono stati emessi 71 mandati di cattura. Nell’ultima
grande operazione, a giugno, due terzi dei 38 arrestati erano
eritrei. Ci sono già state delle condanne, tra cui quella di
Wehabrebi, che ora vive sotto protezione. “Tutto ciò che sappiamo
su questa rete lo dobbiamo a lui”, spiega Ferrara. Wehabrebi è
arrivato in Libia dall’Eritrea quando aveva 13 anni, e a Tripoli
viveva nella stessa strada di Ghermay, in un quartiere borghese. Ai
tempi di Gheddafi gestiva un bar dove i migranti si fermavano prima
di cominciare la traversata del Mediterraneo. Wehabrebi si faceva
dare i soldi e li mandava ai trafficanti. Nel 2007 Wehabrebi è
arrivato in Italia e ha deciso di mettere a frutto i suoi contatti
con i capi del traffico di esseri umani. Ha scalato le gerarchie e,
secondo il mandato di cattura, è diventato “uno dei boss e dei
fondatori” dell’organizzazione criminale, insieme a Ghermay e a
un sudanese di nome John Mahray. Wehabrebi era responsabile delle
attività in Italia e si occupava di far proseguire verso nord i
migranti sbarcati in Sicilia. Doveva farli partire prima che le
autorità italiane potessero prendergli le impronte digitali. Senza
impronte è difficile rintracciare i migranti: le autorità tedesche
non possono ricostruire chi proviene da dove. Anche se non aveva la
patente, Wehabrebi accompagnava in auto alcuni dei migranti in
Germania e perino in Scandinavia: un gioco da ragazzi in un’Europa
senza controlli alle frontiere. Altre volte se ne occupavano i suoi
complici, che partivano da Bologna alle nove di sera diretti a
Rosenheim, nel sud della Germania. “Alle sei di mattina sei già
tornato e hai guadagnato mille euro”, gli diceva Wehabrebi. “Se i
tedeschi ti fermano, di’ che non conosci la gente che hai in
macchina, e il giorno dopo sei libero”. Secondo Wehabrebi, un
business particolarmente redditizio era quello del commercio di
documenti falsi. Racconta che alcuni dei suoi complici eritrei
avevano chiesto in cinque diverse prefetture italiane il
ricongiungimento familiare per cinque diverse mogli che dicevano di
aver lasciato in Eritrea. Con questo stratagemma le donne, che
ricevevano il visto di entrata, si risparmiavano la pericolosa
traversata via mare ma dovevano pagare fino a 15mila dollari per il
finto matrimonio. Secondo Wehabrebi tutto questo sistema funziona
anche perché le prefetture italiane non incrociano i dati tra loro.
Gli italiani possono permettersi di essere negligenti. Anche se solo
nel 2015 più di 38mila eritrei sono arrivati illegalmente in Italia
il numero di eritrei è calato del 30 per cento rispetto al 2011 fino
agli attuali 9.600. Ogni anno decine di migliaia di eritrei sbarcati
in Italia proseguono verso la Svizzera, la Svezia o la Germania. Tra
loro ci sono moltissimi disperati, ma anche ricchi trafficanti.
Secondo Ferrara le autorità tedesche sono a conoscenza di questo
traffico grazie a Eurojust, l’unità di cooperazione giudiziaria
dell’Unione europea, ma sembra che la cosa le lasci indifferenti.
“Noi italiani svolgiamo indagini, emettiamo mandati di cattura e
chiediamo riunioni di coordinamento. Abbiamo documenti da cui risulta
che la rete ha contatti con la Germania”. Ferrara dice di aver
mandato ai suoi colleghi in altri paesi dell’Unione quarantamila
trascrizioni d’intercettazioni telefoniche attraverso l’Europol.
Il procuratore ha chiesto aiuto per individuare i vari legami
all’interno della rete criminale. I britannici, gli svedesi e gli
olandesi hanno valutato i dati e hanno avviato delle indagini,
racconta, “ma i tedeschi non hanno fatto niente. Non sembravano
troppo interessati. A una delle riunioni di Eurojust hanno mandato
una praticante. Li ho sentiti dire cento volte la frase: ‘Siamo
pronti ad aiutare i colleghi italiani’, e onestamente non ne posso
più”. Arroganza o ingenuità? Ferrara propende per quest’ultima:
“Mi ricorda un po’ le mie indagini sulla mafia. Anche in questo
caso i tedeschi tendono a dire: ‘La mafia? Da noi non esiste’.
Chiudono gli occhi davanti alla realtà, anche se gli abbiamo fornito
prove sufficienti”. Gli inquirenti tedeschi sostengono di essere
stati informati troppo tardi. Gli italiani avrebbero condiviso i
risultati delle indagini solo dopo che le operazioni Glauco 1 e 2
erano terminate. E le differenze strutturali tra il sistema tedesco e
quello italiano avrebbero complicato il tutto.
L’eccezione
tedesca
Un
cordiale signore che ha il suo ufficio vicino alla cattedrale di
Palermo si mostra particolarmente critico nei confronti dei tedeschi.
Si chiama Carmine Mosca e dirige un reparto speciale per la lotta
contro il traico di esseri umani istituito presso la squadra mobile
della polizia italiana. A giugno Mosca è andato a Khartoum per
supervisionare l’estradizione di un traicante. Loda la
collaborazione con la National crime agency britannica, che ha
contribuito alla cattura del sospetto, e con le autorità olandesi,
che ascoltano sempre le richieste italiane. Ma quando si parla dei
tedeschi trattiene a stento la rabbia. Non sarebbe troppo difficile
arrestare gente come Ghermay, dice Mosca, ma i suoi uomini devono
superare ostacoli inutili. Per esempio, normalmente una nave che
partecipa all’operazione Sophia attracca in un porto della Sicilia
con centinaia di migranti a bordo. “Noi andiamo lì e indaghiamo”,
dice Mosca. “Chiediamo chi sono i trafficanti e i contatti
telefonici in Libia per poterli mettere sotto controllo. Quasi tutti
gli equipaggi, irlandesi, spagnoli o norvegesi, sono ben organizzati
e collaborativi”. L’unica eccezione sono i tedeschi. Una volta la
fregata Hessen è arrivata con un carico di migranti: “Gli
ufficiali non ci hanno neanche lasciato salire a bordo. Non ci hanno
dato nessuna informazione. Non abbiamo catturato neanche un
trafficante”, dice. Tutto ciò nonostante Mosca avesse con sé tre
procuratori italiani: anche loro sono stati respinti dai tedeschi.
“Siamo in Italia, ci portano dei migranti e non ci lasciano neanche
salire a bordo per capire com’è andato il salvataggio”, dice
Mosca. Quando abbiamo contattato il comandante della Hessen, ha
risposto di non ricordare nessun caso in cui sia stato negato alle
autorità italiane di salire a bordo. Il ministero della difesa
tedesco afferma che a metà del 2015 “non c’era ancora nessun
mandato per combattere i trafficanti nel Mediterraneo” e che, nel
corso delle operazioni congiunte, l’accesso a bordo è sempre
consentito “se necessario”. In Sicilia è diventato impossibile
ignorare le conseguenze dell’arrivo di migliaia di sopravvissuti ai
naufragi. Basta seguire le tracce che Wehabrebi ha fornito agli
inquirenti. Per esempio a Palermo, nel vicolo santa Rosalia. Qui, in
un bar come gli altri, i trafficanti hanno tenuto i loro carichi di
esseri umani fino a luglio, quando c’è stata una retata. Oggi i
giovani guardano in strada con gli occhi vitrei e le guance gonfie di
qat, una droga molto comune in Africa orientale. A Roma gli eritrei
hanno la loro base nel palazzo Selam, un ediicio in vetro che
ospitava la facoltà di lettere e filosofia dell’università Tor
Vergata e ora offre riparo a circa duemila migranti. Due dei
trafficanti ricercati a giugno erano domiciliati qui, altri presso il
centro per i rifugiati dei gesuiti. Dietro la porta verde di via
degli Astalli 14a i religiosi non offrono solo pasti caldi: i
migranti senza fissa dimora possono usare il loro indirizzo per
presentare la richiesta di asilo o di un permesso di soggiorno. Dei
38 mandati di cattura emessi all’interno dell’operazione Glauco,
tre sono stati recapitati ai gesuiti. Wehabrebi, che quando faceva il
trafficante viveva a Roma in un palazzo borghese con vista sui colli
Albani, ha fornito anche altre informazioni durante il suo
interrogatorio di dieci ore. Una parte delle sue dichiarazioni è
ancora secretata. “Stiamo già preparando l’operazione Glauco 4”,
dice Ferrara. “Stavolta ci occupiamo dei flussi di denaro. Abbiamo
chiesto la collaborazione dei servizi d’intelligence. Anche qui
vale il motto del giudice Falcone: ‘Segui la pista dei soldi’”.
Per capire dove finiscono i milioni raccolti dai traicanti bisogna
cercare Mana Ibrahim, la moglie di Ghermay. Secondo Wehabrebi ha
fatto richiesta d’asilo in Germania: “Vive vicino a Francoforte.
Tutto il denaro guadagnato da Ermay è in Germania”. La procura di
Palermo sostiene di aver trasmesso le informazioni sulla moglie di
Ghermay ai colleghi tedeschi, ma in Germania nessuno sa niente di
Ibrahim. La procura di Francoforte spiega che la città è
indubbiamente “uno dei nodi nella rete dei trafficanti eritrei”,
e che ultimamente sono stati aperti “tra i 10 e i 15 procedimenti”
al riguardo. L’ufficio che si occupa di criminalità organizzata
avrebbe indagato più volte sul traico di stranieri, ma finora sono
state arrestate solo persone di secondo piano. Gli inquirenti di
Palermo sostengono che diversi grossi trafficanti dell’organizzazione
di Ghermay sono ancora a piede libero in Germania, nonostante sul
loro capo penda un mandato di cattura. Già negli anni scorsi
esponenti di primo piano della rete dei traicanti sono stati
ricercati in Germania solo su richiesta delle autorità italiane. Tra
loro c’è Measho Tesfamariam, considerato responsabile di una
traversata avvenuta nel giugno del 2014 e terminata con la scomparsa
di 244 migranti. In seguito l’eritreo è arrivato in Germania e ha
chiesto asilo. Nel dicembre del 2014 gli inquirenti lo hanno trovato
a Müncheberg, nel Brandeburgo. Un altro esempio è Yonas Redae, una
figura di primo piano della rete che opera in Sicilia, arrestato a
febbraio a Göttingen, dove viveva dopo aver fatto richiesta di
asilo. Oppure Mulubrahan Gurum, tesoriere di una delle organizzazioni
più potenti, che fino al suo arresto nell’agosto del 2015 ha
vissuto a Worms. In Italia sono state presentate denunce per stupro,
lesioni personali, violazione di domicilio e furto contro Gurum, che
ha negato tutte le accuse. Ha fatto richiesta d’asilo in Germania
con il suo vero nome. Quando sulla sua scrivania è arrivata una
richiesta di estradizione, il procuratore capo di Coblenza, Mario
Mannweiler, ha pensato che fosse un normale caso di collaborazione
amministrativa. Tra le motivazioni si leggeva: “Appartenenza a
un’associazione criminale”. Ma le procure tedesche, dice
Mannweiler, sono sovraccariche di lavoro: “Non è facile trovare
qualcuno che s’interessi al caso e sia disposto a scavare più a
fondo”. Quindi i tedeschi preferiscono chiudere gli occhi sui
criminali che arrivano nel loro paese attraverso la Libia e l’Italia?
O è colpa delle leggi tedesche? In Italia appartenere alla mafia è
di per sé un reato penale, in Germania no: prima di arrestare
qualcuno bisogna dimostrare che abbia commesso un crimine. A Berlino
un agente dell’intelligence tedesca ammette: “Siamo molto
preoccupati per l’alto numero di profughi non censiti presenti in
Germania. Siamo anche allarmati dalla cooperazione fra trafficanti,
milizie e gruppi estremisti nel Sahara”. La stessa fonte riferisce
che ci sono cellule del gruppo Stato islamico in città come Tripoli
e Sabrata, dove sembra che viva Ghermay. L’Unione europea spera che
la crisi dei profughi possa essere risolta con i soldi. Il cosiddetto
processo di Khartoum, lanciato nel 2014 per favorire la
collaborazione tra Unione europea e paesi di transito e di origine
dei migranti, dovrebbe fornire aiuti finanziari ai paesi dell’Africa
orientale e agli altri stati attraversati dalle rotte dei migranti.
Tra i beneficiari c’è anche il dittatore sudanese Omar al Bashir:
anche lui dovrebbe ricevere milioni di euro da Bruxelles. Un piano
d’azione europeo prevede di raforzare le istituzioni e il personale
dell’Eritrea, il cui governo è accusato da Amnesty international
d’inliggere un “trattamento crudele, disumano e degradante” a
chiunque osi metterlo in discussione. Ma per fermare l’esodo degli
eritrei non basterà un’iniezione di denaro. A Francoforte esistono
già una comunità religiosa eritrea e una etiope e un consolato
eritreo, e intorno alla stazione ci sono bar e ristoranti dove si
ritrovano gli eritrei. Uno di loro racconta di aver conosciuto
Ghermay a Khartoum grazie a un amico che fa parte del giro dei
traicanti. “Come molti trafficanti, in autunno Ghermay si
trasferisce in Sudan e frequenta le cerchie più elevate”, racconta
il ragazzo. Secondo lui nella maggior parte dei casi cercare di
coinvolgere i governi africani nella lotta ai trafficanti è assurdo:
“In Sudan i generali in uniforme trattano Ghermay come un amico
stretto. È sotto la loro protezione e quando torna in Libia è
protetto dai libici”. Nel cimitero situato poco lontano dalla città
di Zawiya, in Libia, le file di mucchietti di sabbia sembrano
infinite. I migranti senza nome che il mare ha trascinato a riva
hanno tombe senza lapidi, solo con dei mattoni bianchi. Sono
centinaia, forse mille. Pochi chilometri più avanti un gruppo di
uomini della guardia costiera di Zawiya osserva il mare. Il loro
portavoce, che chiamano colonnello Naji, si sforza di essere
all’altezza del suo nuovo ruolo di responsabile della lotta al
traffico di esseri umani. Dal 30 agosto le squadre come la sua sono
addestrate dall’Unione europea. Quando avvistano un barcone carico
di migranti hanno il compito di riportarlo a riva. Ma è diicile
stabilire da che parte stiano questi uomini. I migranti dicono che la
prima domanda che gli fanno è: “Di chi siete?”. Come dire: quale
trafficante avete pagato? In base alla risposta decidono se il
barcone può proseguire verso le navi dell’operazione Sophia o se
invece sarà rimorchiato a riva. Sembra che certi trafficanti siano
in buoni rapporti con la guardia costiera, e altri invece non curino
abbastanza questi contatti. Naji è contento che la Germania aiuti i
suoi uomini nella lotta contro i trafficanti. Ma ha un consiglio per
gli amici del nord: “Dovete cambiare le vostre leggi. I trafficanti
vi usano come dei tassisti che vengono a prendere i loro clienti
davanti alle coste libiche, in tutta sicurezza e senza chiedere un
soldo”.