giovedì 3 novembre 2016

Il Sole 3.11.16
Il rischio di una strada senza ritorno
La difficile intesa sull’Italicum e lo strappo di Bersani
di Emilia Patta

Giornata decisiva, quella di oggi, per capire se la trattativa interna al Pd sulla legge elettorale può chiudersi con un accordo positivo. La “commissione” incaricata da Matteo Renzi di individuare le possibili modifiche all’Italicum da approvare dopo il referendum si dovrebbe riunire in mattinata per trarre le conclusioni e chiudere così, almeno nelle intenzioni di Renzi, la questione del “combinato disposto” prima della terza edizione della Leopolda che si apre a Firenze domani. E la decisione che grava sulle spalle di Gianni Cuperlo, che ha accettato di far parte della commissione a nome di tutta la minoranza del partito, è soprattutto politica. Perché una parte di quella minoranza, la parte più cospicua che fa riferimento a Pier Luigi Bersani, la sua decisione di schierarsi per il No al referendum l’ha già presa indipendentemente dall’esito dei lavori della commissione.
«Anche se venisse trovato un accordo, senza atti parlamentari questo accordo resta scritto sull’acqua», dice il bersaniano Miguel Gotor. E il bersaniano Davide Zoggia rincara: «Ad un mese dal voto per il referendum penso che non ci sia nessun margine per cambiare l’Italicum. O meglio, non c’è nessuna volontà». Ma se i bersaniani sono già in giro per l’Italia a sostenere le ragioni del No lui, Bersani, aveva fatto intendere che non avrebbe fatto campagna attiva. La novità è invece la partecipazione dell’ex segretario ad una serie di appuntamenti per il No (il 7 novembre a Palermo, Ragusa e Siracusa). Un’accelerazione che certo non è stata gradita da Cuperlo, che ha accettato di far parte della commissione nella convinzione che si potesse, e ancora si possa, trovare un accordo per tenere unito il partito. Convinzione condivisa anche dal presidente dem Matteo Orfini («sono ottimista, tutti nel comitato vogliamo un accordo»).
Nel merito c’è accordo, anche con i centristi della maggioranza sondati nei giorni scorsi, su tre punti su quattro: sì a cancellare i capilista bloccati con l’introduzione di collegi con ripartizione proporzionale dei seggi stile Provincellum o tramite l’estensione delle preferenze per tutti i candidati; superamento delle candidature multiple; introduzione della possibilità di apparentamento tra primo e secondo turno. Sul premio e sul ballottaggio, invece, non c’è intesa dal momento che Renzi non sembra intenzionato ad abbandonare il ballottaggio, a suo modo di vedere unica garanzia di un vincitore certo e unico antidoto al ripetersi della grande coalizione.
Ma la decisione è appunto politica, dal momento che il voto referendario sarà comunque uno spartiacque, e una volta imboccata la strada del No potrebbe essere difficile tornare indietro. Al di là delle velleità di alcuni esponenti della minoranza di riprendere le redini del partito in caso di vittoria del No (va considerato infatti che comunque occorre sottoporsi a primarie aperte, e che Renzi rimarrà con ogni probabilità in campo pur dimettendosi da Palazzo Chigi). «C’è una parte della minoranza che mette il partito avanti non solo al governo ma anche al Paese, in modo del tutto irresponsabile», commenta il renziano Giorgio Tonini. È difficile immaginare che dopo, e soprattutto in caso di vittoria del No, non si faranno i conti interni. «Se vince il Sì saremo tolleranti come lo siamo stati finora - dice un altro dirigente renziano -. Ma se vince il No i responsabili avranno nomi e cognomi, e non credo che saranno ricandidati...».