il manifesto 8.11.16
«È ormai un partito di sudditi»
Dopo
la Leopolda. Bersani in Sicilia da solo per fare campagna al No.
«Fuori? Ci vanno gli elettori». L’ex segretario critica «l’arroganza» al
potere. «Ma mi colpisce che tutti gli altri restino zitti». E dà
appuntamento al congresso.
di Alfredo Marsala
PALERMO
Arriva con un’ora d’anticipo a giurisprudenza, spiazzando molti. È da
solo, senza compagni. Senza claque. Si capisce subito che Pierluigi
Bersani ha voglia di parlare, mentre la sala della facoltà, a Palermo,
si comincia a riempire di studenti accorsi per ascoltare le sue ragioni
per il No al referendum costituzionale. Comincia da quel «fuori fuori»,
urlato da chi sta nel suo stesso partito. «I leopoldini possono
risparmiarsi il fiato, vanno già fuori parte dei nostri. Io sto cercando
di tenerli dentro, ma se il segretario dice ‘fuori fuori’ bisognerà
rassegnarsi».
Eppure non è, non ancora, una resa. «Ho provato una
grande amarezza», dice riferendosi ai cori. Per Bersani erano insulti
«che offendono non me, perché ci sono abituato, ma tanta nostra gente».
Piuttosto, è la sua riflessione, «mentre alla Leopolda urlavano quegli
slogan, a Monfalcone, da sempre roccaforte rossa e carne nostra,
prendevamo una batosta storica dalla Lega». Perché? «Perché molti dei
nostri non hanno votato. Io non c’ho dormito, non so altri». Sembra un
leone ferito Bersani, ma appare indomito e pungente. Non gioca in
difesa. Anzi, contrattacca: «Vedo un partito che sta camminando su due
gambe, l’arroganza e la sudditanza». Di dimissioni o scissione non vuol
sentirne parlare. «Il partito è casa mia e non lo lascerò mai, per
cacciarmi non basta una Leopolda, serve l’esercito». Un avviso al suo
Pd: «Mi impressiona che tutti gli altri stiano zitti». La partita per
Bersani è doppia: da un lato il governo, dall’altro il partito. Tant’è
che al congresso del Pd annuncia che porrà «il problema della
separazione della leadership con la guida del governo». Nella sua
visione non c’è il partito del capo, ma un Pd «che deve essere una
infrastruttura» di «un’area ulivista di centrosinistra» e non può fare
«il pigliatutto con la logica del comando». «Questa storia che facciamo
tutto da soli si sta dimostrando debole, abbiamo perso tutti i
ballottaggi», ammette. Quindi l’affondo sul referendum e sull’Italicum
considerandolo «un incrocio pericoloso: con un governo del capo e parte
del parlamento nominato: non sono noccioline».
Non si fida affatto
dell’impegno di Renzi a modificare l’Italicum, che invece ha convinto
Cuperlo: «Una posizione personale e individuale, non giudico». Quel che
conta è che «un partito che è al governo, che ha la maggioranza in
parlamento e pone la fiducia sull’Italicum non può certo cavarsela con
un foglietto fumoso». Un modo, è convinto Bersani, con cui «Renzi vuole
tenersi le mani libere, altrimenti sarebbe andato in parlamento a dire
cambiamo le cose. E invece si è traccheggiato fino a oggi, fino a quel
foglietto, per dire stai sereno ma io non sto sereno e voterò no». Anche
perché «sul tema della costituzione non esiste una disciplina di
partito: il segretario dà una indicazione poi ognuno sceglie con la
propria testa». Il rimprovero a Renzi è di «aver drammatizzato il voto».
«Ma è possibile che da un anno a questa parte si vada avanti a pane e
referendum? La gente ha altri problemi».
«Per la prima volta nella
storia del Paese», insiste Bersani, «un governo prende l’iniziativa di
cambiare in autonomia la Costituzione. Questo governo mette la fiducia
sulla legge elettorale, poi annuncia al mondo che siamo sul precipizio,
che tutto dipenderà dal referendum, che ci sarà un prima e un dopo». E
«non è vero, il giorno dopo saremo come il giorno prima». In questo modo
«l’esito che si è ottenuto è quello di dividere il paese: chiunque
vincerà, avremo perso tutti se non mettiamo le cose nel giusto binario».
Rimane il fatto che «questa riforma ha più di un difetto, tra cui la
formazione delle leggi e il rapporto tra Stato ed enti locali». «Io –
argomento Bersani – sono un sostenitore della tesi che si facciano
troppe leggi, e pure male. Quando sento il mio segretario dire che la
retribuzione dei parlamentari deve essere associata alla presenza in
aula, dico: ma si sa che noi abbiamo il record mondiale di assemblee
plenarie?». Per l’ex segretario «le leggi vanno fatte fuori,
confrontandosi con le associazioni, con gli esperti, in aula si deve
arrivare come corridori al traguardo» e «sul rapporto tra stato ed enti
locali, io che sono stato amministratore locale per venti anni e
ministro per sette, non sono stato interpellato: la suddivisione tra
beni di interesse regionale e di interesse nazionale è illogica».
Quindi
prova a rassicurare Renzi, secondo cui l’obiettivo di chi voterà No è
quello di ritornare al governo: «Io non voglio niente se non parlare, se
questo è consentito». E alle voci secondo cui in caso di vittoria del
No il segretario metterebbe fuori dalle liste elettorali gli esponenti
della minoranza replica netto: «Che miseria».