il manifesto 29.11.16
Legge Madia, la Consulta boccia anche il Sì
di Massimo Villone
La
Corte costituzionale dichiara l’illegittimità di varie disposizioni
della riforma Madia della Pubblica amministrazione per aver previsto
l’acquisizione di un parere, e non una formale intesa nelle conferenze
Stato-autonomie. È una botta. Ma a palazzo Chigi si volta la frittata,
dicendo che con la riforma non sarebbe accaduto. Renzi si scaglia contro
la burocrazia soffocante e oppressiva. Dalla pronuncia si trae uno spot
per il Sì nel voto del 4 dicembre. Come sempre è pubblicità
ingannevole.
Partiamo dal principio di leale cooperazione, che per
consolidata giurisprudenza della Corte è la pietra angolare del
rapporto tra i livelli istituzionali quando l’intreccio di competenze è
inevitabile. Una disciplina generale – qual è la legge Madia – sulla
dirigenza, sul lavoro nelle pubbliche amministrazioni, sulle società
partecipate incide sull’organizzazione amministrativa della Regione, e
su materie che comunque rimangono ad essa affidate. In tal caso «il
legislatore statale deve predisporre adeguati strumenti di
coinvolgimento delle Regioni, a difesa delle loro competenze.
L’obiettivo è contemperare le ragioni dell’esercizio unitario delle
stesse con la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle
autonomie». Un mero parere non basta. Bisogna invece acquisire una
intesa: in sostanza, una co-decisione.
Tutto questo rimane vero
anche con la Renzi-Boschi. La regione rimane competente per la propria
organizzazione amministrativa, come anche per le materie in cui si
manifesta l’intreccio con le competenze dello Stato, come ad esempio la
sanità, il trasporto e i servizi pubblici locali in genere. Trova
conferma l’esigenza di un’intesa, in quanto strutturale e di sistema. Al
tempo stesso le Conferenze, in cui le intese si realizzano, non sono
smantellate dalla Renzi-Boschi. Se la riforma fosse stata già in vigore,
la Corte con ogni probabilità avrebbe deciso allo stesso modo.
È
ben vero che la Corte ha sottolineato (sentenza 278/2010) il rilievo
della «perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni
parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi». Potrebbe
sembrare un assist per la riforma, con il senato «dei territori» come
sede appropriata per la leale collaborazione e le intese. Ma non è così.
L’intesa
è co-decisione: in sostanza, si tratta finché non si raggiunge un
accordo tra tutti i partecipanti. Ma come potrebbe questo tradursi in
un’assemblea? Basterebbe un voto a maggioranza, o sarebbe necessario un
voto unanime di tutti i componenti? Un’ipotesi, quest’ultima, quasi
miracolosa, considerando che ogni consigliere senatore rappresenta solo
sé stesso e il territorio che lo ha eletto, e vota come gli pare senza
alcun vincolo di mandato. Il nostro futuro senato non è il Bundesrat. Si
può anche temere che qualche senatore faccia mercimonio del proprio
voto per strappare all’esecutivo regionale vantaggi per il territorio o
le clientele di riferimento. Immaginate poi il caso – inevitabile – di
appartenenze politiche radicalmente contrapposte: ad esempio, qualche
M5S in un senato a maggioranza Pd. Infine, quand’anche tutto funzionasse
alla perfezione, sarebbe di ostacolo il bicameralismo non paritario.
Può un procedimento legislativo in cui il voto del senato è superato da
un prevalente e diverso voto della camera produrre una co-decisione tra
stato e autonomie? Anche per le leggi espressione della clausola di
supremazia, che possono entrare in ogni ambito di competenza regionale,
la Renzi-Boschi ugualmente prevede che la volontà legislativa della
camera conclusivamente si imponga.
In sintesi, la sentenza 251
della Consulta nulla aggiunge alla già lunga lista di cataclismi e
devastazioni che il fronte renziano – unitamente ai suoi fans
dell’economia e della finanza – legano alla vittoria del No: crisi
immediata, ritorno dei governi tecnici, uscita dall’euro, spread alle
stelle, bancarotta, crollo del Monte Paschi, e altro. Tutto nasce con la
cinica scommessa plebiscitaria di Renzi nella chiave del suo potere
personale. Meno male che il popolo italiano è vaccinato contro i
ballisti di governo che tentano di avvelenarlo, magari con fritture di
pesce andate a male. Per queste non serve una riforma, piuttosto una
potente lavanda gastrica.