il manifesto 17.11.16
La frenesia di Renzi, tra flop e promesse
Referendum. Anche le agenzie di rating percepiscono che il No può vincere. E si preparano di Alfonso Gianni
Con
la revisione della Costituzione, se superasse il vaglio del referendum,
«l’economia andrà meglio, si crescerà di più, ci sarà più occupazione,
aboliremo una quantità enorme di contenziosi tra Regioni e Stato».
Sembra la parodia di una celebre canzone di Lucio Dalla e invece sono le
avventate parole del ministro Padoan.
Il ministro dell’economia
le ha pronunciate ieri sera nel più accomodante dei talk show
televisivi. Eppure solo pochi giorni fa Standard & Poor’s, di
solito considerata un oracolo, aveva fatto sapere che in ogni caso non
ci saranno cambiamenti rilevanti per l’andamento dell’economia italiana,
sia che vinca il Sì, sia che vinca il No. Spegnendo quindi in anticipo
ogni ottimismo gonfiato come ogni pessimismo ricattatorio. A meno che,
aggiunge la quotata agenzia di rating, – in cauda venenum – non si
invertano le «riforme» avviate. È come se i poteri finanziari dicessero
al governo italiano: ti abbiamo detto di cambiare la Costituzione e come
farlo. Ma se il popolo italiano dovesse dire No, perché tu non sei
stato in grado di convincerlo, almeno salviamo la sostanza della
politica economica di questi anni che ha spalancato le porte alla
finanza in ogni settore. Anche le agenzie di rating percepiscono che il
No può vincere. E si preparano a un piano B. D’altro canto i traders
sono gli ultimi a potersi bere le minacce di Renzi sul rimbalzo degli
spread in caso di vittoria del No. Sanno bene che simili sommovimenti,
come l’innalzamento del rendimento dei titoli di stato, derivano da
tutt’altri fattori, come la Brexit o le promesse di Trump di aumentare i
tassi di interesse e rilanciare l’inflazione (la Trumpflation)
richiamando capitali negli Usa, con tutte le conseguenze del caso anche
sulle economie europee, a partire da quelle con più alto debito
pubblico, come il nostro paese che lo ha aumentato al 132,5% malgrado
l’assenza di qualunque politica di spesa pubblica produttiva.
È su
questo sfondo che assistiamo ad uno sfoggio di frenetico attivismo del
presidente del consiglio. L’autocritica sulla personalizzazione della
contesa referendaria è morta e sepolta. Non ha dato frutti. Quindi Renzi
chiama tutta la luce su di sé. Sia a livello interno che
internazionale. Coerente con lo schema del segretario di un partito
pigliatutto, vuole rappresentare contemporaneamente l’establishment e
l’innovazione, essere il Trump e l’antiTrump, per dirla più
semplicemente.
Ciò che conta è che ogni cosa torni a suo
vantaggio. Ma naturalmente non è l’unico attore sulla scena e gli altri
non stanno a guardare. Non è, quello italiano, l’unico governo europeo
su cui pende un voto popolare. Anzi ce ne è una sfilza. La Commissione
europea, come previsto, rinvia il giudizio definitivo sulla legge di
bilancio, così questo non impatterà sul referendum del 4 dicembre. Ma
prima o poi questa sentenza ci sarà e rappresenta un monito sia per il
governo Renzi, se sopravviverà al 4 di dicembre, sia, in caso contrario,
a chi ne raccoglierà le spoglie.
Assai spuntata è la mossa,
anch’essa prevista, di una riserva italiana su un bilancio pluriennale
della Ue, la cui incidenza quantitativa e qualitativa resta comunque
minima. Serve per fare scena, come la bandiera europea sparita dalle
riprese televisive dello studio del capo del governo, ma poi richiamata
nel suo discorso in Sicilia. Dove Renzi si è recato promettendo «mari e
ponti», è il caso qui di dire, visto che il Sud è il punto più dolente
per la causa del Sì. Incassato con il solito voto di fiducia il decreto
fiscale che accompagna la manovra di bilancio, e che assicura la
liquidazione di Equitalia, tanto invisa alle destre, la rottamazione
delle cartelle e il rientro a condizioni di favore per i capitali
fuggiti all’estero (la voluntary disclosure), Renzi dichiara che al Sud
nel 2017 vi sarà la decontribuzione totale per gli imprenditori che
assumono, asserendo che al Nord non ve ne è più di bisogno. Ma i numeri
sono capricciosi, anzi «lacrime congelate».
Se l’Istat,
nell’ultima rilevazione trimestrale, solo l’altro giorno aveva
gratificato il governo di un decimale in più nelle previsioni di
crescita – ma nel terzo trimestre si è lavorato due giorni in più che
nel precedente -, ora l’Inps conferma i recenti trend di rallentamento
delle assunzioni derivanti proprio dal venire meno degli sgravi
contributivi. A ennesima conferma che insistere solo sui vantaggi
fiscali per le imprese, senza una politica di rilancio dell’occupazione
basata su un intervento pubblico in settori innovativi, non ha né futuro
né presente. I licenziamenti risultano ancora una volta in netta
crescita nel 2016 rispetto a entrambi i precedenti anni. Il Jobs Act
resta un Flop Act a tutte le latitudini. E non sforna Sì.