il manifesto 16.11.16
Gli Stati uniti nel magma del populismo
di Loris Caruso
I
grandi mezzi di comunicazione, da noi e Oltreoceano, fanno sempre due
parti in commedia. Prima delle elezioni rappresentano il conflitto come
una polarizzazione tra civiltà democratica e barbarie. Subito dopo, si
lamentano di non aver compreso il mondo, attribuiscono interamente alle
classi popolari gli esiti di un processo complesso e stratificato, e le
pongono al centro di analisi da cui le avevano completamente escluse.
Se
la politica cambia, è per merito o per colpa delle classi popolari.
Così, indirettamente, mezzi di comunicazione posseduti dal grande
capitale finanziario (che partecipa in vari modi a tutti i più
importanti mezzi di informazione del pianeta), approdano a una
comprensione dei conflitti politici quasi-marxista: la contrapposizione
di classe è il motore della storia. Un marxismo rovesciato, però. In
questo caso, alle classi popolari viene attribuita sempre e solo la
vittoria delle destre. Meglio se radicali, xenofobe e fasciste.
Si lanciano così due messaggi.
Uno: quando il popolo vota e agisce, produce questi effetti.
Due:
solo la destra sa intercettare il popolo. La destra è abile, radicata,
capisce gli umori collettivi, usa bene la Tv, è geniale con i social
media.
Quando il voto popolare si presenta invece come
determinante per l’ascesa di qualche sinistra – Sanders, Syriza, Podemos
– il popolo torna a sparire dai radar. La clemenza mostrata dai media
con i Trump, le Le Pen, i Salvini («dobbiamo capire il fenomeno»), torna
a essere pura opposizione viscerale. Per il popolo e per i suoi
rappresentanti.
Ma il voto popolare è stato determinante nella
vittoria di Trump? No, questo al momento non può dirlo nessuno. Se
vogliamo prendere per buoni gli unici dati che abbiamo, gli exit poll
della Cnn, il quadro che emerge è completamente diverso da quello che
domina i commenti post-voto. La vittoria di Trump è massima tra i ceti
medio-alti. Tra chi ha un reddito inferiore ai 30.000 dollari, Clinton
prende il 53% e Trump il 41. Nell’elettorato tra i 50 e i 100.000
dollari, Trump vince 50 a 46. Tra i ricchi (più di 100.000 dollari) sono
quasi pari, ma vince Trump: 48 a 47.
La vittoria di Trump negli
stati ex industriali del nord-est (la famosa Rust Belt), è un fatto
importante. Ma non è sufficiente a considerare quello a Trump un «voto
di classe», e la natura del voto in quegli stati va ancora indagata. Per
ora sembra un voto più rurale e provinciale che operaio (cfr. Cartosio,
il manifesto del 10/11).
Si prende per buona la definizione di
Trump come figura anti-establishment. Trump è stato sicuramente un
formidabile catalizzatore di sentimenti anti-partito e anti-classe
politica. Su questi sentimenti le classi popolari possono benissimo
proiettare un feroce odio di classe verso i privilegiati, Wall Street,
le élite intellettuali.
Ma che rapporti ci sono tra Trump e le élite?
Le
élite sono un insieme plurale e conflittuale di gruppi sociali. Possono
essere in conflitto tra loro, e in ogni settore alcune componenti
possono essere in conflitto con altre.
Che rapporti ci sono tra
l’imprenditore Trump e le imprese dei settori tradizionali? Dando per
scontato che il mondo Clinton-Obama è il rappresentante politico della
digital economy (Twitter, Facebook, Amazon, eccetera), esiste qualche
relazione di Trump con il mondo dell’immobiliare, delle infrastrutture,
dell’energia, dell’industria pesante, del settore militare-industriale? E
con pezzi di Stato e di sistema politico? L’Fbi ha sostenuto quasi
apertamente Trump. Che fine hanno fatto gli antichi, e silenziosi,
neo-con? Uno di loro, Stephen Bannon, è entrato nello staff di Trump.
E
la reazione delle Borse dice che Wall Street non è affatto spaventata
da Trump. Era Sanders a spaventarla. Clinton e Trump, più o meno, pari
sono.
In Usa, in Europa e altrove, è in corso una rivolta del
popolo contro le élite, ma anche una poderosa rivolta dell’élite contro
il popolo. I due processi devono essere sempre guardati insieme. Nel
Settecento e nell’Ottocento, la borghesia in ascesa utilizzava il popolo
per affermarsi contro le classi tradizionali.
Una volta vinto
questo conflitto, si concentrava a reprimere il popolo politicamente
organizzato. Le élite contemporanee stanno facendo la stessa cosa, in
questa fase di strisciante rivolta elettorale populistico-democratica
che ridisegnerà interamente forme della politica e istituzioni.
Il
popolo e il populismo vengono usati dall’élite per ridisegnare le
istituzioni in senso a-democratico. Per fare questo, possono anche
servirsi del nazionalismo, del razzismo e dell’autoritarismo di figure
come Trump.
Per questo il popolo è posto al centro della scena. La
nuova configurazione delle istituzioni politiche deve essere
legittimata: la vuole il popolo. Ma questo popolo è al contempo
responsabile dell’ascesa dei barbari. È ignorante, incivile, pericoloso.
Una volta compiuta l’operazione, si può tranquillamente ricominciare a
escluderlo e colpirlo, con le élite di nuovo felicemente compatte.
Nello
stesso tempo, però, si è creata una dinamica conflittuale e
contraddittoria, dagli esiti imprevedibili e non per forza reazionari.
Non è più possibile fare politica al di fuori di questo magma.