il manifesto 11.11.16
L’effetto Donald dentro palazzo Chigi
Referendum.
Via le bandiere europee durante le conferenze stampa: Renzi si
"trumpizza" e insieme manda un messaggio alla Ue che incombe sulla legge
di bilancio
di Andrea Colombo
«Donald Trump
siamo noi, e tutti gli altri, le cariatidi che si ribellano alla
rottamazione, sono Hillary Clinton»: l’ordine di scuderia che parte dai
piani alti del Nazareno è questo. Si può star certi che, sia pur in
forma meno sfrontata, sentiremo ripetere il ritornello fino
all’esasperazione. Oddio, e Obama, già alleato di ferro e altissimo
protettore? La risposta s’impone da sé: «Obama chi?».
Mentre il
primo passo del nuovo corso donaldiano di palazzo Chigi è folklore puro:
la bandiera europea dovrà scomparire dalla sala conferenze stampa di
palazzo Chigi, per lasciare il posto solo al tricolore. Due piccioni con
un solo vessillo nel cassetto: una mano di vernice stile Don ma anche
un messaggio in codice a quell’Europa che non ha affatto deciso di
chiudere gli occhi sui conti ballerini della legge di bilancio. À la
guerre comme à la guerre.
Il referendum infatti non è il solo
fronte diventato nel giro di una notte molto più fragile. Forse non è
neppure il più nevralgico. Anche da quel punto di vista, sia chiaro,
palazzo Chigi considera la vittoria a sorpresa dell’outsider un guaio.
Alla vigilia erano in molti a dissertare sulla possibilità che una
vittoria di Donald Trump seminasse un fecondo panico, il cui raccolto si
sarebbe poi visto nelle urne referendarie. Come nelle elezioni
spagnole, dove Podemos ha pagato il prezzo della Brexit.
L’illusione
è durata poco. La situazione è troppo diversa ed è più probabile che
l’effetto Trump agevoli invece il No. Di qui la necessità di
«trumpizzarsi» a spron battuto. Però senza stracciarsi troppo le vesti:
«Il populismo già c’era, non è certo arrivato sull’onda delle elezioni
Usa. Quell’effetto sarà poco influente», ripetono gli ufficiali
renziani. Mentre Matteo Renzi, ieri in tour referendario a Pescara,
attacca la «vecchia guardia unita solo dall’odio» e che «ha fallito»,
mentre «il sì equivale a cambiare».
Ma non c’è solo il referendum.
L’asse anti-rigore con Barack Obama, destinato a perpetuarsi con la
leader che Renzi prevedeva dovesse succedergli, era una delle carte
forti da mettere sul tavolo nel corso di una trattativa con l’Europa che
è molto più difficile di quanto i nostri governanti non lascino
trasparire. Non si può dire che il crollo di Hillary Clinton pregiudichi
tutto. L’Italia ha altri argomenti da far valere, in particolare
proprio il rischio che l’assalto antisistema parta dalla penisola per
poi dilagare. Però è un fatto che Renzi si trovi oggi privo di un
appoggio prezioso nel contenzioso con i falchi.
Eppure non è
neppure questo il cruccio che più tormenta il premier. Sul referendum il
pessimismo è diffuso, ma per Renzi il 4 dicembre non è la mano
definitiva. Vuol correre alle elezioni politiche e su quel fronte,
almeno per ora, non c’è ombra di pessimismo. Solo che governare, se
Trump darà seguito anche a una parte dei suoi impegni elettorali,
potrebbe diventare un calvario. Senza il mantello magico a stelle e
strisce l’Europa dovrà fare da sola. Dovrà sborsare di tasca propria per
finanziare in conflitti in giro per il mondo, come a Mosul. Dovrà far
correre sangue.
Storia di domani, certo. Al momento l’urgenza è
tutt’altra. Ma basta chiacchierare un po’ con qualche piddino di un
certo peso per scoprire che è un incubo già da subito.