Corriere La Lettura 20.11.16
Attenti alla deglobalizzazione
La
tesi di Hobsbawm sull’«era dei cataclismi» dal 1914 al 1991
privilegiava guerre e rivoluzioni Altri studiosi considerano centrali i
mutamenti di carattere economico e sociale, in primo luogo la caduta
delle barriere agli scambi commerciali Ma ora sembra tornare in voga il
protezionismo
di Marcello Flores
Da sempre si
cerca di fissare date che scandiscano le diverse epoche Si discute se la
contemporaneità cominci dalla presa della Bastiglia, dallo sviluppo
dell’industria
o addirittura solo dopo il 1945 Già adesso però
pare che il 2016 sia destinato a fare da spartiacque per via di
avvenimenti clamorosi come il voto favorevole alla Brexit e l’elezione
di Donald Trump
Il 2016 potrebbe essere ricordato non
solo per essere stato l’anno più caldo nella storia, ma anche per aver
posto fine a un’epoca e aperto una nuova fase politica, perché il
populismo, visto finora come una presenza ingombrante o una minaccia,
sta diventando una vera e propria cultura di governo e di identità per
chi vota e manda al potere i suoi campioni.
Gli storici hanno
sempre operato, tra le prime cose della loro riflessione, una proposta
di periodizzazione, e naturalmente l’hanno anche fatto per l’epoca a noi
più vicina. Per molto tempo — e in parte ancora adesso — ha prevalso
nelle università e nelle scuole la periodizzazione suggerita dallo
storico inglese Eric Hobsbawm nel 1994, già evidente nel titolo del suo
famoso e fortunato volume: Il secolo breve (Rizzoli, 1995) , in inglese
The Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991 .
Per
Hobsbawm il «secolo breve» faceva seguito al «lungo Ottocento» che era
iniziato in realtà a fine Settecento con la Rivoluzione francese e si
era protratto fino alla Prima guerra mondiale: il secolo della
borghesia, dell’industrializzazione, degli Stati-nazione. Con la Grande
guerra si era interrotto il cammino impetuoso del «progresso» ed era
iniziata una nuova era, che lo storico inglese vedeva riassunta nella
lotta e nella competizione tra capitalismo e comunismo, tanto che aveva
posto nell’anno del crollo dell’Urss la fine del secolo breve. Se nel
momento in cui cadeva il comunismo sovietico l’ipotesi di Hobsbawm
pareva anche un omaggio un po’ nostalgico al suo impegno nella sinistra,
la sua ipotesi storiografica sembrava basarsi più su una narrazione
«morale», come venne detto, che non su un’analisi delle strutture e
delle dinamiche presenti in quell’epoca. La forte ideologizzazione di un
secolo «breve» caratterizzato da guerre e genocidi (le catastrofi o gli
extremes del titolo) sembrò perdere di fascino quando la
globalizzazione si mostrò in tutta la sua potenza nell’ultimo decennio
del secolo, rendendo esplicite le avvisaglie dei vent’anni precedenti.
È
anche su una critica a Hobsbawm e alla sua visione che si fonda
l’ipotesi di periodizzazione che ci ha dato uno dei grandi storici
americani della contemporaneità, Charles S. Maier, secondo cui a partire
dalla metà dell’Ottocento prendeva inizio un «secolo lungo», che
sarebbe terminato tra gli anni Settanta e Ottanta del XX secolo. I
caratteri originali di tale epoca, da lui definita «età industriale»,
erano un ordine fordista «fondato sull’acciaio e la chimica e sul
movimento fisico di persone e merci» e una «organizzazione territoriale
dell’umanità» centrata sullo Stato-nazione. A venire privilegiata, in
questa ipotesi, era la storia dei mutamenti economici, sociali e
istituzionali avvenuti su vasta scala e possibilmente a livello globale,
con una caratteristica di lungo periodo che le vicende politiche non
potevano avere.
Prima di queste ipotesi, maturate tutte alla fine
del XX secolo, era stata proposta nel 1964, da parte dello storico
britannico Geoffrey Barraclough, una periodizzazione diversa, fondata su
periodi più brevi e fortemente influenzati dai fatti recenti. La storia
contemporanea, per lui, nasceva addirittura a metà del XX secolo, con
la fine della colonizzazione, il bipolarismo Usa-Urss e la minaccia
termonucleare. Precedentemente si era avuto l’ultimo atto della «storia
moderna», segnato dalla seconda industrializzazione e dall’imperialismo,
e capace di assorbire insieme le due grandi guerre mondiali.
Una
interpretazione ristretta da un punto di vista cronologico, ma assai
importante nel dibattito storiografico, fu quella di Arno J. Mayer, che
rese famosa l’immagine di una «guerra dei Trent’anni del Novecento»,
suggerendo di guardare al periodo 1914-1945 come a una crisi seguita
alla rapida modernizzazione dell’Ottocento. Il rigido ordine politico,
che non era stato in grado di accompagnare — modernizzandosi anch’esso —
la crescita economica, si era dimostrato incapace di rispondere alle
dinamiche sociali dirompenti che lo sviluppo aveva creato. Per Mayer,
che aveva dedicato diversi studi alla Prima guerra mondiale e alla pace
di Parigi, quel conflitto andava visto in gran parte come una sorta di
attacco controrivoluzionario preventivo lanciato dalle élite europee per
distrarre con una politica estera pericolosa l’attenzione delle masse
turbolente, alla vigilia di una guerra civile in molti Paesi del
continente.
Nel XXI secolo altre interpretazioni hanno dato
respiro a vecchie periodizzazioni, rendendole più adeguate a comprendere
il nuovo grande interrogativo: la globalizzazione, le sue tappe, la sua
origine. Christopher A. Bayly, per esempio, ha ricalcato il lungo
Ottocento di Hobsbawm, per individuarne però le «multiple modernità» che
avevano luogo parallelamente nei diversi continenti e delle cui
interdipendenze cercava di dare conto. Sullo stesso arco cronologico ha
lavorato Jürgen Osterhammel, che ha ripercorso la grande «trasformazione
del mondo» che avviene tra il 1780 e il 1914, trovando nel ventennio
1860-1880 il momento di svolta tra le due fasi interne al medesimo
periodo. Un altro autore che ha contribuito in modo notevole al
rinnovamento del dibattito e al confronto tra diverse periodizzazioni,
il cui scopo, come aveva osservato Krzysztof Pomian, era quello di
rendere pensabili «i fatti», è stato Kenneth Pomeranz che, in La grande
divergenza (il Mulino, 2004), spiegava le ragioni del rapido e crescente
distacco che si era aperto nell’Ottocento tra l’Europa e l’Asia, dopo
un lunghissimo cammino che le aveva viste percorrere uno sviluppo
analogo e non troppo distante.
Proprio nell’esame del percorso che
ha portato, negli ultimi anni, a una repentina chiusura della forbice
euroasiatica iniziata due secoli fa si situa la più recente e articolata
interpretazione italiana. Secondo Tommaso Detti e Giovanni Gozzini, una
svolta fondamentale fu segnata nella seconda metà del Settecento
dall’industrializzazione e dalle rivoluzioni americana e francese, che
aprirono la strada al «lungo Ottocento» in cui si sviluppò la prima
globalizzazione contemporanea. Le due guerre mondiali segnarono una
«deglobalizzazione» (ma globalizzazione di ideologie assolute), mentre
dal 1945 si aprì una nuova fase di globalizzazione, destinata a non
interrompersi fino ad oggi. All’interno di questa fase gli autori
collocano una svolta nel decennio intorno al 1970, segnata dal ruolo
centrale dei Paesi «in via di sviluppo», che ha aperto la strada a una
sorta di «grande convergenza» dopo la «grande divergenza» fra
l’Occidente e il resto del mondo aperta dalla rivoluzione industriale.
Ora
però la riduzione di volume degli scambi internazionali e l’ascesa di
forze protezioniste e populiste anche nei Paesi più avanzati fanno
pensare che si possa avviare una nuova fase di deglobalizzazione, dagli
sviluppi imprevedibili. Forse gli eventi del 2016 hanno segnato davvero
un’importante discontinuità.